Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.
Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.
Kollaps ph: @Andrea Macchia
La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.
Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?
Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.
Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.
Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»
Il mulino di Amleto Ph:@Andrea Macchia
Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.
La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.
Kollaps Ph:@Andrea Macchia
Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.
Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.
Per la cinquantaduesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Daniele Ronco. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Daniele Ronco è attore e direttore artistico della compagnia teatrale Mulino ad Arte di Torino. Tra gli ultimi lavori svolti: Giulio Cesare regia di Daniele Salvo,Chaos-Humanoid B12 di cui ha curato regia e drammaturgia e Bea regia di Marco Lorenzi.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La creazione scenica è una magia che si ripete ogni volta in cui un attore (parlo per la mia categoria) gioca con lo spazio e con le proprie emozioni, con l’intento mimetico di trasformarsi in qualcosa di diverso da sé. Creare è faticoso e implica un conflitto interiore per l’attore, in quanto un nuovo personaggio è come un bambino, con tutte le sue incertezze, ma che guardiamo con la consapevolezza di un adulto esigente e autocritico. Per creare qualcosa di efficace si deve da un lato avere un obiettivo ben preciso, uno scopo e contemporaneamente ci si deve mettere nei panni di chi ascolta, per non cadere nell’autocompiacimento. Un attore che sale su un palco lo deve fare per rispondere ad una domanda profonda e per lui dev’essere molto chiara la risposta. La creazione sarà il percorso che lo porterà a rispondere a tale domanda.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Innanzitutto potenziare le possibilità di internazionalizzazione, ma soprattutto si dovrebbe rendere più accessibile la formazione, favorire dei percorsi di accompagnamento alle compagnie per guardare all’estero come un interlocutore semplice e diretto con cui creare sinergie.
Guardando in casa nostra c’è un gravissimo problema di fondo, ovvero un riconoscimento troppo debole nei confronti di tutto il comparto cultura. C’è molta confusione e molta incompetenza da parte di molte amministrazioni pubbliche, con una potente ricaduta sugli artisti, che si trovano a doversi battere per essere ascoltati ancor prima di avere la possibilità di creare ed esibirsi.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Si dovrebbe creare un sistema di censimento degli spettacoli a livello nazionale, produrre un data-base sostenuto dal ministero dove far confluire gli spettacoli in maniera digitale con un format facilmente fruibile dagli operatori, che possono scegliere gli spettacoli con una semplice consultazione on-line, per poi approfondire i lavori di cui è interessato con un contatto più diretto. Alcuni tentativi in tale direzione sono già stati compiuti, ma a mio avviso si dovrebbe creare uno strumento istituzionalizzato che abbia una riconoscibilità e una credibilità indiscussa. Al omento la distribuzione è molto frammentata e schiava di diversi fattori: eccesso di offerta rispetto alla domanda, necessità che almeno uno degli artisti in scena sia popolare, difficoltà ad entrare nei circuiti dei teatri stabili se non si è a propria volta all’interno del giro ministeriale. Ma soprattutto, si dovrebbe fare un lavoro sul pubblico per sensibilizzarlo alla contemporaneità. Il nostro teatro ha bisogno di svecchiarsi, di vedere cose nuove. I giovani sono attratti dai temi che parlano della loro generazione. Se si sbaglia una volta con loro, si rischia di perderli per sempre.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
La creazione scenica resta uno dei pochi strumenti arcaici per fare comunità ed è un motore di sviluppo sociale a cui non dobbiamo rinunciare se non vogliamo evolverci verso un mondo algido e fatto di rapporti virtuali. In questi mesi di lockdown si è toccato con mano quanto una società senza possibilità di aggregazione sia fragile e a forte rischio implosivo.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Io sono un profondo sostenitore del teatro contemporaneo, vissuto come una profonda indagine della realtà. Credo che ci sia un legame a doppia mandata che lega il teatro al nostro presente. Il nostro presente ha bisogno del teatro tanto quanto il teatro ha bisogno del presente per continuare a vivere. La creazione scenica può sopravvivere se con onestà riesce a mettere in luce i temi cruciali del momento storico presente.
Ciascun artista, per dare un apporto in tale direzione, deve portare sulla scena i temi per cui sarebbe pronto a morire nella vita reale, quelli davvero urgenti per i quali fuori dal palcoscenico ogni giorno piange, si emoziona e combatte.
Per la diciottesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Barbara Mazzi e Marco Lorenzi, fondatori della compagnia torinese Il Mulino di Amleto e rispettivamente attrice e regista. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori sia della danza che del teatro su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Il Mulino di Amleto nasce nel 2009 e ha già al suo attivo numerosi spettacoli. Tra questi ricordiamo: Platonov, Senza Famiglia, Ruy Blas, Il misantropo, Susannah. Inoltre nel corso della stagione 2019/2020 la compagnia ha avviato Cantiere Ibsen #artneedstime un laboratorio aperto alla ricerca sul linguaggio teatrale senza fini di produzione. Nel 2019 Il Mulino di Amleto è stato finalista al Premio Rete Critica.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Marco Lorenzi: Penso che sia importante non dimenticare che la creazione scenica ha a che vedere con la comunicazione e non con l’espressione personale. La pura espressione di un stato d’animo, di una impressione, di un’immagine, di un fatto di cronaca, di una storia, di una statistica, di un desiderio puro e semplice di occupare lo spazio scenico non sono comunicazione, sono bisogno di espressione, cioè non presuppongono la trasmissione e la condivisione con l’Altro attraverso il filtro di una visione poetica, estetica ed etica del mondo. L’Altro in quanto spettatore è previsto solo come soddisfacimento di un mio bisogno narcisistico di approvazione. E questo – per me – non è sufficiente. Quando uso il termine “comunicazione”, invece, penso che una creazione artistica debba porsi il “problema dell’Altro” in quanto elemento inscindibile dell’opera poetica che si svolge nello spazio scenico, non come un puro voyeur, o un “consumatore”, ma come un impulso inscindibile alle domande che muovono la creazione artistica, come occhio umano che svela le nostre finzioni, che ci ricorda che è solo Teatro, che condivide con noi artisti il desiderio di chiedersi “chi sono?” . Senza comunicazione non esiste teatro come fatto artistico, secondo me. Esiste in quanto attività amatoriale; il che non è sbagliato, ma è semplicemente un’ altra cosa. A quanto detto sulla “comunicazione” va aggiunto uno scarto fondamentale: a noi Artisti va chiesta la responsabilità di un punto di vista sul mondo, ovvero di una messa in crisi di un ordine di valore assodato. Ci viene chiesto di mettere in dubbio continuamente se “viviamo nel migliore dei mondi possibili”. Non possiamo essere consolatori o “buoni” in accezione culinaria – come direbbe Brecht – , ma dobbiamo usare il teatro per essere nel nostro tempo in relazione con quanto ci ha preceduto nel passato e in allerta con quanto potrà accadere nel futuro. Per questo parlo di “un punto di vista su mondo”. Senza di questo, la creazione scenica è pura espressione pittorica, decorativa. Non arriverei neanche a parlare di estetica, perché secondo me non esiste estetica senza etica. La forma che precede o sostituisce un contenuto, la forma fine a se stessa o che non arriva alla comunicazione per me è solo vuoto. Per finire, è necessaria la ricerca costante e instancabile di una poetica personale e sincera. Di una ricerca di connessione con il proprio mondo simbolico e metaforico più profondo. Non basta la riconsegna di un evento, di un testo, di un processo di ricerca. È necessario rielaborare il tutto con un sistema di segni, di simboli onesti e sinceri che determinano il mio essere artista. Ovviamente non è necessariamente un lavoro individualistico: nel caso del mio percorso con la mia compagnia Il Mulino di Amleto, è sempre la ricerca delicata e profonda di un immaginario collettivo. Mi piace lavorare in gruppo e con il gruppo, personalmente mi sento più povero quando creo da solo, solitamente arrivo pieno di idee e progetti che abbandono il primo giorno di prove, scopro con le persone che ho davanti cosa creare di nuovo e per cui vogliamo “lottare” entrambi. Il percorso di prove è per questo unico e diverso con ogni singolo artista, questo lo è in generale, ma nel nostro caso specifico, in particolare, vi posso solo invitare, con piacere a vedere le prove. Ecco, per provare a fare una sintesi delle peculiarità che hai richiesto nella tua domanda, direi che 1) la creazione scenica è “comunicazione” e non è “espressione”, 2) la creazione scenica deve esprimere un punto di vista sul mondo, 3) la creazione scenica richiede la ricerca di una poetica, 4) è inscindibile dal concetto di rischio.
Barbara Mazzi: La peculiarità della creazione scenica… forse non c’è una sola peculiarità, ma diverse. Cosa è una “creazione scenica”? Ormai questa definizione è ampia. Intanto devo capire cosa intendo per “creazione scenica”. Se ripeto più volte questa espressione “creazione scenica”, la mia mente ha dei riferimenti che ovviamente sono parziali perché filtrati dal mio gusto, dal mio pensiero e dalla mia esperienza. Associo a “creazione” la parola artistico, quindi probabilmente deve avere qualcosa di artistico in sé e per essere artistico forse deve essere espressione di un pensiero, di un’idea, di un talento da comunicare fuori di sé, quindi ad un pubblico, quindi avere uno spazio pubblico nel quale essere presentato, quindi una scena sulla quale muoversi e il termine scenico mi rimanda al teatro o a spazi performativi, che ormai possono essere ovunque. Poco per volta “delimito” il raggio di azione del termine “creazione scenica”, ecco che mi rimangono le seguenti associazioni come ipotetiche peculiarità: artistica, comunicativa, in movimento dal dentro di sé al fuori, realizzata in luoghi predisposti per accogliere un pubblico, ancora in qualche modo associata al teatro, alla performance, alla danza, quindi allo spettacolo dal vivo. Ad es. un quadro o un film non sono una creazione scenica, possono essere una creazione o una creazione artistica, ma non scenica. Cosa necessita per essere efficace? per me… sono molto naif io, mi deve interessare, affascinare, essere esteticamente curata, non spiegarmi le cose, non “rappresentare”, farmi vedere qualcosa che non so o qualcosa di nuovo, ma non in modo pretestuoso o forzoso o dimostrativo, attivarmi, possibilmente non irritarmi, comunicare con me, “non essere perfetta”, non essere “comme il faut”, perché a me personalmente annoia, non essere quello che mi aspetto, sorprendermi, non essere solo un’idea “che risolve tutto”, avere più livelli, affrontare argomenti e temi che mi riguardano e molte molte altre cose. Riflettendo ancora, per fare tutto ciò, come artista, devo pensare a chi voglio parlare, con chi voglio comunicare, chi è il mio pubblico, come faccio a “smuovere” il mio pubblico (a volte basta uno sguardo in più o uno in meno, non c’è per forza sempre bisogno di qualcosa di gigantesco), infine aggiungo l’onestà. Le volte che ho amato di più le creazioni sceniche è stato quando aderivano al proprio artista, in connessione profonda con il proprio sé, senza lasciarsi incrinare dall’inseguire il gusto del pubblico, o degli operatori o della critica, o del successo, ecco lì ho trovato l’efficacia per me, qualcosa che andava oltre, magari non era il mio gusto, ma riconosco in quei casi una forza, una necessità di comunicazione artistica.
Il Mulino di Amleto – Platonov
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: E’ una situazione davvero complessa, a nostro avviso. Servono più soldi, serve gestirli meglio, serve più onestà, più coraggio, più dinamismo. Serve distanziarsi da alcuni atteggiamenti lobbistici, essere onesti intellettualmente, credere negli artisti. C’è troppa domanda rispetto all’offerta e questo richiede un’ assunzione di responsabilità importante da parte delle istituzioni, soprattutto politiche che sono chiamate a prendersi cura della “società teatrale”.
Semplicemente
quello che c’è non è sufficiente, sarebbe una bella insufficienza a
scuola e poi una bocciatura, ma non ci abbattiamo, rimbocchiamoci le
maniche. Ci sono degli esempi virtuosi e quelli per noi sono forza.
Siamo
una compagnia, come altre, come altri artisti, che cerca di essere
attenta allo stato dell’Arte e del sistema nella sua totalità, ma
questo crediamo sia necessario, in generale quando sei un artista, in
particolare quando hai un gruppo, hai delle responsabilità, di
conseguenza sei impegnato su più fronti. Creiamo i nostri
spettacoli, cerchiamo sempre produttori e collaboratori che si fidino
di noi e che ci stimino, creiamo progetti extra teatrali,
collaboriamo con scuole, con altre compagnie, siamo attivi, siamo
impegnati ecco e questo impegno costante ti porta a vedere anche le
mancanze, ad avere una visione ampia della situazione. Ci sono
situazioni anche positive, assolutamente sì, quelle, come detto,
danno forza per continuare ad interrogarsi, ad agire e migliorare.
Ad esempio questo anno ci siamo interrogati su cosa ci mancasse, certo che la risposta è “sempre i soldi”, ma non sempre è quello il punto. Perché in questo caso ci siamo accorti che in un sistema sempre più sclerotizzato su una corsa ai numeri, alla produzione – una produzione ossessiva che sembra essere l’unico valore di un panorama teatrale che sta diventando un “mercato” – quello di cui veramente avevamo bisogno era il Tempo per la ricerca, per approfondire, per scoprire punti di vista nuovi, slegandoci da ogni incombenza produttiva e performativa. Guardandoci intorno e parlando con altri artisti e colleghi, ci siamo accorti di non essere soli, ecco che la nostra risposta, spontanea e auto-sostenuta, è stata #ArtNeedsTime #Cantiere Ibsen, crediamo che un bel po’ di buono ne sia uscito.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: L’Italia è un sistema che ha ancora molto viva la tradizione delle compagnie di giro, è ricca di compagnie indipendenti che vivono di produzione, progetti e tournée e questo non si può ignorare. Il sistema delle compagnie che producono e girano sono la spina dorsale di una società teatrale come quella italiana. E in questo è quasi un “unicum“ rispetto a quello che accade all’estero. L’attività e il dinamismo della creatività delle piccole e medie compagnie in Italia è importante, eppure si sta cercando di tagliarle sempre più fuori. La fotografia che è stata prodotta dal decreto ministeriale per il Fus è evidentemente una fotografia falsata del reale. Punta a marginalizzare l’attività d distribuzione nazionale di compagnie che fanno di questa attività il loro “core business”. In questi ultimi anni ci sembra ci siano stati dei tentativi di europeizzazione, senza però investire coraggiosamente le risorse necessarie creando degli ibridi dannosissimi. Le compagnie indipendenti in Italia sono importanti, molto più che all’estero, perché all’estero gli ensembles sono dei teatri stabili, invece in Italia gli ensembles, tranne in rarissime eccezioni, sono delle compagnie indipendenti e questo valore aggiunto non è considerato. Invece bisogna considerare la nostra storia e la nostra natura o indole. Per quanto riguarda l’europeizzazione, invece, il ritardo rispetto al resto del continente è abissale. Viviamo di un provincialismo preoccupante. Non giochiamo ad armi pari con i nostri colleghi e poi rimaniamo stupiti dalle produzioni estere che arrivano, anche noi esportiamo eccellenze, ma poche troppo poche rispetto ai nostri talenti, ci sono fidatevi! Le poche esperienze, Festival in particolare, che cercano di costruire un dialogo sensato tra artisti italiani e realtà europee, lo fanno con pochissimi soldi e senza veri e propri programmi istituzionali alle spalle. Continuare a lamentarci che all’estero gli artisti fanno cose meravigliose e in Italia no, è ovviamente demenziale. È una questione di circostanze. Ci sono delle responsabilità di una politica e di istituzioni che hanno un ruolo ben preciso per questo vuoto che si è venuto a creare.
Il Mulino di Amleto – Ruy Blas
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sonooggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Barbara
Mazzi:
Crediamo nell’analogico, nel concreto, nell’esperienza condivisa,
nell’umanità delle persone e pensiamo che ce ne sia sempre più
voglia e necessità. Crediamo che la creazione scenica possa creare
condivisone ed essere necessaria per togliere paura. Se mi accorgo di
non essere solo, ma altri in “platea” con me stanno
piangendo, soffrendo, scalpitando, arrabbiando, condividono con me un
‘esperienza allora forse ho meno paura, allora forse sono più
accogliente allora, forse, parlo, mi apro…Noi
ci ripetiamo spesso he il Teatro, per noi, è “esseri umani che si
interrogano con altri esseri umani di che cosa vuol dire essere
umani”.
Marco Lorenzi: Aggiungo ancora che l’esperienza performativa, la creazione artistica per il palcoscenico- sia essa prosa, danza, ecc… è una delle poche esperienze non riproducibili con un’ applicazione. Puoi scrivere un romanzo, girare un film, scattare fotografie, creare arte visiva con una o più applicazioni, ma non puoi realizzare il buon “vecchio” “fare teatro”. È un evento comunitario – e non di “community” – è offline per principio, presuppone il “live” per sua stessa natura, la partecipazione concreta e non virtuale. E questo ci fa pensare che il teatro ha ancora un futuro e se serve l’online per andare offline questa è l’epoca con cui giocare. E’ necessario il teatro per continue a ricordarci cosa vuol dire essere uomini. Hai ragione nel dire che il teatro vive in un istante che è difficilmente condivisibile sui nuovi media. Bene! Questa è una buona notizia. Vuol dire che abbiamo una speranza contro l’omologazione spaventosa a cui stiamo andando incontro e questo è proprio il ruolo del teatro.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Marco Lorenzi – Barbara Mazzi: Possiamo dire che è andato a cadere il vincolo di attenersi ad una concezione naturalistica del teatro come “specchio della natura”. Questo in realtà ci permette di poter giocare con la rottura o per meglio dire l’ibridazione dei codici con molta più libertà e curiosità. Come se il linguaggio contemporaneo che è meticcio, pieno di codici che si scambiano, di crossing, avesse fatto la sua irruzione nel teatro cambiando le regole del gioco. Questo non vuol dire che il naturalismo non può più essere usato a teatro, ma che lo possiamo accompagnare – ad esempio – da una fertile interpolazione con altri linguaggi non costituendo un ordine gerarchico tra codici, ma concorrendo tutti a costruire il racconto dello spettacolo con la stessa importanza. Quello che davvero conta è che non importa il codice o la tecnologia che decido di usare in una creazione teatrale, ma quello che è importante è che non possiamo non parlare di noi, di cosa succede oggi, di quello che siamo, dove stiamo andando, della nostra realtà. Per noi questa è la priorità, la forma è solo una conseguenza, modificata e continuamente modificabile a seconda di ciò di cui stiamo parlando e di come decidiamo di comunicarlo nel contesto storico- sociale che ci circonda. Il contenuto per noi è prioritario e il contenuto “siamo noi”, qui, oggi. E gli attori, le persone, tutte, anche gli uffici, che lavorano alla creazione sono anelli imprescindibili in questa catena. Se non c’è amore da parte di tutti questi “anelli”, compresi gli uffici, non ci può essere amore in sala prove, perché l’artista non si sente amato e creduto. Allora non ci può essere amore in scena, non ci può essere amore tra attore e spettatore, non c’è una comunione e una condivisione che fa scattare l’eros, l’energia, la forza vitale che fa uscire dal “teatro” cambiati e pronti a cambiare qualcosa di sé e intorno a sé. Per me, per noi il “teatro”, la “creazione scenica” , ecco ora torniamo alla prima domanda, è azione, è politica, è pericolosa, è pensante, è pensata, è in comunione, è in condivisione, è forte e ha bisogno di amore, di coraggio, di fiducia.
Abitiamo un
momento in cui sembra apparentemente scomparso il dibattito intorno
al senso e alla sostanza della ricerca teatrale. Anzi sembra sia
diventato snob oltreché un po’ vintage
portare l’accento su una parola che richiama, chissà perché, un
certo tecnicismo elitario. Eppure in qualsiasi altro settore delle
umane attività la ricerca è il fulcro di ogni avanzamento e
miglioramento dello status quo.
Data questa contraddizione pare giusto e doveroso raccontare il
progetto proposto da Il Mulino di Amleto
avviato a partire da un bisogno impellente: ritagliare del tempo da
dedicare proprio alla pratica di riflessione sull’arte del teatro, la
sue funzioni e i suoi obiettivi.
Cantiere
Ibsen #artneedstime è il nome di quella che
potremmo chiamare una bottega teatrale richiamando fin da subito alla
mente del lettore un’idea di artigianato specializzato in cui non
solo si lavora alla ricerca di una pratica sempre più rispondente ai
bisogni e alle necessità di chi agisce e di chi osserva, ma si
combatte altresì per ritagliare un tempo non volto all’utile
produttivo dell’immediato, ma piuttosto un tempo espanso che volge il
suo sguardo a un futuro da immaginare e costruire.
Il Cantiere
si sostanzia in cinque sessioni (di cui quattro svolte e la quinta in
programma dal 30 marzo al 9 aprile) il cui scopo è avviare un
percorso di ricerca, di studio, pratica e riflessione, svincolato da
necessità di messa in scena. Il pensiero a sostegno del progetto
possiede per questo una forte valenza politica laddove il mondo
teatrale italiano, per le avverse condizioni economiche in cui versa,
negli ultimi tempi a causa dell’emergenza sanitaria ulteriormente
peggiorato, dedica sempre meno tempo allo sviluppo di idee rischiose,
azzardate, coraggiose, idee che necessiterebbero di un periodo di
lavorazione più lungo e accidentato, con la conseguenza di
abbracciare percorsi dal sicuro risultato. Riconquistare una zona
franca di semplice studio, senza l’angoscia impellente di mettere in
opera un nuovo lavoro rispondente più alle attuali circostanze
distributive e produttive del sistema che a quelle dell’artista e del
suo bisogno di interrogarsi su una realtà sempre più sfuggente,
diventa dunque un atto di resistenza, un contrapporsi alla marea
insorgente che spinge a confezionare a tutti costi un prodotto volto
alla mera sopravvivenza senza troppo domandarsi se quest’ultimo sia
una vera necessità per chi lo fa e per chi lo fruisce.
Prendersi
del tempo, sospendere l’affanno da catena di montaggio è un atto
semplice, lieve, quasi ingenuo ma con una forte carica di dolce
ribellione alla costringente modalità economica in cui l’arte è
null’altro che l’ennesima merce da inserire in un mercato peraltro
asfittico. Quella che Mark Fischer chiama ontologia
imprenditoriale, per la quale “è
semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione andrebbe
gestito come un’azienda”, uno “stalinismo di mercato” che non
prevede in alcun modo il fallimento può portare solo al reiterarsi
del già visto, di ciò che sicuro incontra il gradimento e “agisce
come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero
quanto l’azione” tanto da far sorgere spontanea la domanda: “senza
il nuovo quanto può durare una cultura?”. Il Cantiere prova a
porsi in un campo laterale, fuori dal percorso di mercato, mappando
un’isola dove sperimentare nuovi sentieri senza preoccuparsi di
giungere immediatamente a un risultato positivo.
Certo si
potrebbe sospettare che tutto questo sia un richiudersi nella torre
eburnea della ricerca per se stessa, un esempio di edonismo elitista.
Benché il pericolo sia reale viene evitato dalla partecipazione di
osservatori che rendono in qualche modo pubblico il laboratorio. Non
parlo solo di critici, benché essi siano la maggior parte, ma anche
spettatori affezionati e artisti. Inoltre Il
Mulino di Amleto ha anche inaugurato un blog
con video ed interventi al fine di dischiudere un dialogo, un
confronto su quanto si sta facendo. Quello a cui si partecipa è
dunque un campo aperto di discussione, di rimappatura degli spazi e
dei modi, di riappropriazione del pensiero in azione.
Alla parola
Cantiere si affianca il nome di Henrik Ibsen a indicare una base, un
terreno su cui dissodare e coltivare per evitare la dispersione in
uno spazio di vuoto siderale. Ci si applica a Ibsen, lo si smonta e
rimonta, lo si rivolta come un calzino esercitandosi a sperimentare
tecniche e pensieri creativi nei confronti di una materia ricca e
potente. Per sottrarsi al rischio sempre presente di riprodurre il
già visto, Il Mulino di Amleto
propone ai partecipanti di mettere in relazione i testi proposti (Gli
spettri nella terza sessione e Un
nemico del popolo nell’ultima di febbraio
peraltro bruscamente interrotta dalle ordinanze di salute pubblica)
con le pratiche proposte da due manifesti: quello di Dogma95
del circolo di registi cinematografici legati a Lars Von Trier, e il
Manifesto di Gent di Milo Rau. Il confronto
con Ibsen diventa dunque un’interrogazione e un confronto con il
canone, con il passato. Come ci si relaziona con il repertorio? Con
quali tecniche lo si rapporta con il contemporaneo? Attraverso
queste modalità di approccio Ibsen viene analizzato, smontato,
ricomposto, riscritto e sempre trasversalmente con tali materiali si
prova a creare dei dispositivi di racconto e di rapporto con un
pubblico.
A ciascun partecipante (gli attori in questa sessione
erano una ventina più, come detto, alcuni osservatori particolari),
oltre alla lettura dei manifesti, è stato consegnato un vademecum di
compiti da eseguire prima dell’inizio del periodo laboratoriale:
visionare alcuni film proposti dal critico Mario Bianchi (Scarpette
rosse di Michael Powell e Emeric Pressburger
e Giovanna D’Arco di
Carl Theodor Dreyer) in qualche modo relativi al testo ibseniano,
preparare una playlist
personale di brani, selezionare una favola che in qualche modo
potesse risuonare con la drammaturgia in oggetto. Le favole, così
come i manifesti, rappresentano una modalità di approccio al tema
ibseniano. Per esempio, tra le varie proposte, spiccano I
vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen,
dove il rapporto tra verità e gerarchia è centrale quanto ciò che
avviene ne Il nemico del popolo,
e Il pifferaio magico
dei fratelli Grimm, dove il protagonista opera per il bene della
città, ma quando non viene pagato dal borgomastro, si ribella e
rapisce i giovani della città, trama che ben si adatta
all’atteggiamento del dottor Stockmann rispetto al fratello sindaco.
Tutti i materiali proposti sono dunque strumenti con cui sezionare,
analizzare e osservare il testo di Ibsen da molteplici e insoliti
punti di vista.
Veniamo ora
a un’analisi delle pratiche e tecniche di lavoro, compito quanto mai
arduo per il rischio di limitarsi a enumerare esercizi e prassi che
nella semplice enumerazione diventano aridi come deserti. Manca la
vita e lo spirito che li abita, la gioia di dimorarvi, la fatica di
attraversarli. Eppure in qualche modo bisogna tradurli in parole
affinché diventino un documento di un agire scenico. Proviamoci.
Cantiere Ibsen
La giornata
inizia solitamente con un training fisico molto serrato volto a
ridefinire e rimodellare il rapporto tra movimento, spazio e ritmo da
una parte, e ad aumentare le possibilità espressive e di movimento
del corpo dell’attore dall’altra. In genere, a partire dalla seconda
giornata, questo lavoro fisico preparatorio viene preceduto da un
tempo di studio in cui i vari gruppi preparano diverse proposte
sceniche da mostrare.
Il
pomeriggio prende avvio da una serie di giochi dai molteplici scopi:
acquisire un ritmo e un respiro di gruppo, sperimentare dinamiche di
cooperazione, di invenzione e risposta alla sollecitazione
imprevista, sviluppare un ascolto attivo incentrato sull’altro fuori
da sé, stimolare il piacere e il divertimento nel lavoro attorico.
Questo
serissimo ma piacevolissimo momento ludico precedeva un lavoro più
propriamente scenico costituito da diversi percorsi: improvvisazioni
a quattro in cui si sperimentava la manifestazione di gerarchie
segrete e prestabilite all’interno di situazioni date; un’analisi di
alcune scene proposte sia attraverso una tradizionale lettura e
discussione, sia attraverso il metodo degli etudes
sperimentati da Vasiliev e Korsunovas seppur con varianti studiate ad
hoc. Questi
ultimi potremmo definirli dei metodi per far sì che il verbo diventi
carne. Una pratica che a partire
dall’individuazione di uno snodo centrale e dalla comprensione delle
circostanze precedenti, produce, attraverso delle improvvisazioni,
delle vere e proprie analisi corporee delle scene. A concludere la
giornata si procedeva alla presentazione di piccoli pezzi sia
riferiti alle favole preparatorie, sia a singoli dialoghi a due
estrapolati dal testo, sia degli studi di possibili realizzazioni del
quarto atto in cui avviene il discorso del dottor Stockmann davanti
all’assemblea generale.
Un elemento
importante da sottolineare è il clima di tensione rilassata con cui
avveniva tutto il processo di lavoro. Senza il pungolo assillante del
risultato a tutti i costi, tutti i partecipanti si sono permessi di
rischiare ibridazioni impreviste tra il materiale ibseniano, gli
stimoli provenienti dai manifesti e le favole. Durante le giornate di
laboratorio si sono viste nascere generazioni equivoche, forme
instabili frutto di amori a prima vista illeciti. Si sono percorsi
sentieri impervi a cavallo tra reale e immaginario dove si poteva
giocare con il testo innestandolo di sollecitazioni dal contesto
socio-politico-economico attuale. E tutto questo fa pensare che se si
restituisse al teatro una creazione con una dimensione temporale di
lavoro più ampia, si aprirebbero molte più possibilità di ammirare
sui nostri palcoscenici delle opere più vive e impreviste, pronte a
stimolare in noi la ricerca verso ciò che non abbiamo e ci manca,
piuttosto che ritrovare ciò che già ha soddisfatto il nostro palato
in passato.
Restituire
dinamiche creative di più ampio respiro è una necessità. Senza la
possibilità di rischiare si implode necessariamente verso il
rimasticamento di forme già viste. Per riprendere il già citato
Mark Fisher: “le forme più potenti di desiderio sono proprio
quelle che bramano lo strano, l’inaspettato e il bizzarro. E questo
può arrivare solo da artisti preparati a dare alle persone qualcosa
di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che son
pronti ad assumersi un certo rischio”.
Per questo
occorre quanto prima creare le condizioni. È necessario uscire dalla
logica in cui ci si limita a sbandierare rassegne stampa e dati di
affluenza senza riflettere sulla concretezza dei risultati
effettivamente raggiunti. Bisogna tornare a respirare il senso del
rischio proprio di ogni impresa incerta. Il
Mulino di Amleto ha provato e prova nel suo
piccolo a dare un segnale in questo senso. Si è assunto l’onere
della responsabilità. Ora tocca a tutti noi far sì che questo
spazio e questo tempo riconquistati all’immaginazione libera non
inaridiscano.
Intorno al
1290 circa Rodolfo il Glabro,
da non confondere con l’omonimo autore delle Cronache
dell’anno Mille, pubblicò un interessante e
curioso libro titolato Historia de Nemine.
In quest’opera l’autore racconta la storia di Nemo, ossia Nessuno,
personaggio a cui era possibile ciò che agli altri era negato.
Rodolfo infatti con un semplice gioco di parole e dando nuovo senso
ad alcuni versetti biblici quali Nemo propheta
in patria o Nemo deum
vidit, rendeva il suo protagonista capace di
ciò che era ritenuto impossibile.
In
Walzer per un mentalista, spettacolo
prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia
Giulia e andato in scena al Rossetti
di Trieste, il regista Marco
Lorenzi, compie un’operazione simile a quella
antica di Rodolfo il Glabro. Siamo nel 1919 in un manicomio di
Trieste dove un paziente è ricoverato dopo aver perso la memoria.
Tutti lo chiamano Nemo (interpretato dal sorprendente mentalista
Vanni De Luca). Nel
suo percorso di recupero e con l’aiuto della professoressa Martha
Bernard (Romina Colbasso),
Nemo scopre di avere facoltà negate a molti, prodigiose capacità
mnemoniche e di analisi che lo portano davanti al prestigioso
pubblico nel congresso di psicologia. Il suo riscatto è però
ostacolato da Edi (Andrea Germani),
il suo compagno di stanza, pronto a rovinare ogni suo entusiasmo
geloso di una guarigione a lui negata. Il finale è sorprendente e ci
conduce nei meandri oscuri e affascinanti della mente, dove ciò che
ci appare reale e solido, molto spesso è frutto solo delle nostre
illusioni.
Walzer
per un mentalista è un interessante
esperimento di innesto e ibridazione di generi teatrali. Marco
Lorenzi ha raccolto la sfida proposta dal
direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia Franco
Però di creare uno spettacolo che oltre ai
numeri di un mentalista straordinario come Vanni De Luca (capace di
recitare la Divina Commedia
a partire da qualsiasi verso scelto dal pubblico, mentre
contemporaneamente risolve un cubo di Rubik e compone scrivendo al
contrario un quadrato magico generato da un numero proposto dagli
spettatori), potesse portare una storia importante e un linguaggio
teatrale più complesso.
Gli elementi messi in campo sono dunque plurimi: da una parte come detto i numeri del mentalista, inseriti in una storia ambientata all’inizio del Ventesimo Secolo (scritta da Davide Calabresi e Fabio Vignarelli), un periodo chiave della storia quello agli albori della conoscenza moderna della mente umana a partire dagli studi psicanalitici di Freud, anni in cui sulle scene di tutta Europa spopolavano spettacoli in cui “malati di mente” o “fenomeni da baraccone” si esibivano nelle più svariate imprese. Un caso eclatante fu quello di Madelein G, la danzatrice in sogno, che nel 1904 a partire da Monaco di Baviera stupì l’intero continente con le sue capacità coreutiche quasi soprannaturali indotte da uno stato ipnotico provocato dal dottor Magnin. Casi simili sono tutt’altro che rari nel periodo dove scienza, soprannaturale e arte erano ambiti tutt’altro che impermeabili e spesso mescolati a furberie commerciali non disgiunte da una certa violenza producevano dei fenomeni che influenzarono grandemente le nascenti avanguardie artistiche.
Ma se ci si
fosse limitati a dare una suggestiva ambientazione per collocare dei
numeri a effetto l’operazione sarebbe si sarebbe limitata a un
semplice restyling.
Il vero salto di qualità sta nell’aver posto delle domande
stringenti rivolte al pubblico: noi siamo la nostra memoria? Qual è
la sostanza della realtà? Ciò che ci sembra e ci pare è veramente
reale o aveva ragione Shakespeare che la vita è fatta dalla stessa
sostanza dei sogni?
I
tre elementi succitati sono poi sostenuti da una buona sapienza
scenica volta a ottenere un efficiente e significativo melange non
solo di generi ma di linguaggi: luci, scene, proiezioni, suono,
l’arte dell’attore e quella del mentalista, tutto concorre a un abile
montaggio delle attrazioni che conduce il pubblico alla scoperta di
nuove possibilità ponendosi domande su se stesso e il tutto senza
rinunciare alla fascinazione e alla meraviglia generata della
rappresentazione.
Walzer
per un mentalista
propone anche un affascinante percorso di ricerca: quello di un
incrocio fruttuoso tra un teatro di ricerca congiunto a tradizionali
forme di intrattenimento, che evita al primo un ripiegarsi su un
intellettualismo stantio e distanziante, e all’altro di scadere in
vuoto e vanesio passatempo dopolavoristico. Inoltre, fenomeno da non
sottovalutare, la riuscita di un tale esperimento porta a esperire
nuove forme di audience development,
con la creazione di generi che uniscono riflessioni e domande alla
meraviglia e alla spettacolarità. Non è per forza detto che il
teatro di qualità debba escludere il divertimento.
Dal 2 al 7
aprile al Teatro Astra
nella stagione della Fondazione TPE
è andato in scena Platonov
de Il Mulino di Amleto
per la regia di Marco Lorenzi.
Platonov
è l’opera prima del giovane Cechov,
nascosta dalla sorella del drammaturgo nel 1917 in una cassetta di
sicurezza durante i disordini delle Rivoluzione d’ottobre e
riscoperta qualche anno più tardi nel 1921. Cechov
scrisse il testo a ventun anni e come tutti i giovani che si
accingono a scalare l’ardua parete della loro prima opera, peccò in
eccesso, volendo mettere tutto quello che si agitava nell’animo suo
nel tentativo di creare un affresco che dipingesse la vita nella sua
interezza. Vi è materia più per un romanzo che dispieghi la sua
trama per un numero infinito di pagine più che per un dramma o
tragedia teatrale che si consuma per poco tempo su un palcoscenico.
Molti i
personaggi più vicini, nelle loro piccole misere abiezioni mischiate
a grandi aspirazioni, a Dostoevskij
che al Cechov che
conosciamo. Quest’influenza non nasconde i temi classici cechoviani
(l’incapacità di raggiungere la felicità, la tortura dello stare
insieme giusto, etc.), ed è solo la traccia della ricerca di uno
stile da parte di un giovane che ancora non si è liberato
dell’autorità dei suoi modelli di riferimento.
Platonovè come detto afflitto dalla necessità
spasmodica di dire tutto, senza nulla tralasciare, una foga che hanno
tutti i personaggi, malati di un eccesso di vitalità, paralizzati
proprio dalla sovrabbondanza e dall’eccedenza. Fulcro della vicenda è
infatti l’eccesso d’amore che si avviluppa intorno alla figura del
protagonista, il maestro elementare Michail
Vasil’evic Platonov (impersonato
da Michele Sinisi).
Incapace di realizzare le proprie ambizioni, proprio perché
esorbitanti, e richiuso in una sorta di cinismo punitivo, Michail
attrae l’amore di tre donne: la moglie Aleksandra
Ivanovna
(Rebecca Rossetti),
la giovane Sof’ja Egorovna
(Barbara Mazzi) e la
tenutaria in disgrazia Anna Petrovna (Roberta
Calia).
Platonov benché le
attragga è incapace di concretizzare le sue accese passioni. Le sue
promesse cadono sempre nel vuoto, inabili a superare l’entusiasmo del
qui ed ora. Alla prima sospensione della tensione subito si affaccia
la possibilità che la vita sia altrove. La felicità è sempre
rimandata, sognata in un altro momento, mai nel presente.
L’eccesso di
vitalità è inoltre manifesto nella festa banchetto nella tenuta. La
vodka è il motore di un’ostentata ebbrezza e i brindisi non sono che
la maschera delle molte infelicità che attraversano la compagnia.
L’ubriachezza è anche la miccia che innesca gli scarichi violenti di
tensione tra i personaggi che, trovandosi da soli nell’intimità di
una relazione, non possono altro che scagliarsi gli uni contro gli
altri proprio perché attratti da eccessiva forza gravitazionale.
Marco
Lorenzi e il Mulino
d’Amleto affrontano questo “mostro”
drammaturgico operando alcune scelte registiche di grande interesse
ed efficacia. Prima fra tutti l’inclusione del pubblico nel contesto
scenico, inserzione e coinvolgimento che avviene ricambiando lo
sguardo dell’osservatore come fosse il testimone oculare di quanto
avviene, presenza vera e non nascosta nel buio della sala e separata
da un’invalicabile quarta parete. Il pubblico viene interpellato,
coinvolto nella festa e fin dall’entrata in sala quando viene offerto
un bicchierino di vodka quasi partecipassimo anche noi alla festa di
Anna Petrovna.
In secondo luogo il costante mutare del punto di vista che bascula tra interni ed esterni tramite una parete mobile trasparente. Scene e controscene si intrecciano così dando allo spettatore la possibilità di seguire, tra primo e secondo piano, la scena principale contrappuntata da ciò che avviene contemporaneamente e altrove come ne Le tre sorelle di Simon Stone dove questo effetto era dato dai vari ambienti della casa girevole. Gli effetti di quanto deve avvenire o di quanto avvenuto sono compresenti alla scena principale, i personaggi sono dunque sempre in scena, vivono le loro emozioni e le conseguenze delle loro azioni costantemente, senza sfuggirne mai. Inoltre sullo sfondo la proiezione in presa diretta di quanto avviene tramite cellulare, come in una qualsiasi festa di oggi. L’immagine video ci cala in una dimensione di realtà, di presenza immediata ma fornisce anche un ulteriore punto di vista in movimento.
Questo
alternarsi di interno/esterno, di scene di insieme da cui emergono i
singoli dialoghi crea un movimento come se da nubi tempestose fulmini
abbaglianti si scaricassero a terra. I personaggi emergono dal coro
della festa, per un attimo sono in proscenio a rivelare le loro
intime contraddizioni, e infine vengono nuovamente riassorbiti dal
caos. In questa corrente alternata si vedono anche le differenti
maschere che i personaggi indossano durante la vicenda: quella intima
e quella pubblica, quella dedicata alle singole persone e frutto di
libere scelte contrarie agli equilibri esistenti in seno alla piccola
congregazione, e quella dedicata alla piccola comunità avvinta in
relazioni obbligate e inestricabili. L’esempio più evidente di
questa tensione sempre presente tra ciò che si vorrebbe e ciò che
si deve, è il triangolo Anna Petrovna,
tenutaria in disgrazia, Porfirij Semenovic
(Stefano Braschi),
anziano possidente che vuole salvare dalla rovina Anna Petrovna ma in
cambio le chiede di sposarlo, e Platonov
amato dalla donna e a sua volta di lei innamorato. Il bisogno di
Anna, le voglie di Porfirij e l’incapacità di prendere una decisione
di Platonov continuano
a provocare eccessi e scontri che non riescono in nessun modo a
risolversi e che trascinano nel gorgo anche gli altri protagonisti:
le tre donne, Kirill (Angelo
Maria Tronca),
il figlio di Porfirij medico degenerato, e Osip
(Yuri
D’Agostino),
il ladro assassino che si aggira ai margini di questa piccola
società.
Terzo
elemento è una sorta di straniamento fatto di immersione e distacco,
non critico come in Brecht, piuttosto più ironicamente giocoso,
quasi a non prendersi veramente sul serio svelando il gioco delle
parti al pubblico. Tale straniamento, spesso metateatrale come per
esempio il tecnico luci che è personaggio in scena, è la valvola di
sfogo che permette alla tensione di allentarsi. Il testo cechoviano
ne sembra incapace, accumula attriti e dissidi che montano fino
all’ovvia inevitabile tragedia finale.
In scena
infatti si manifesta una pistola e come diceva lo stesso Cechov
quanto un’arma appare non può far altro che sparare. Mulino
di Amleto ha deciso invece di infrangere
questa regola. Marco Lorenzi
ha voluto liberare Platonov
dell’obbligo di finire in tragedia prefigurando la possibilità che
la tempesta tanto annunciata alla fine, in qualche modo, si sia
potuta dissipare. È possibile sfuggire a questa cronaca di una morte
annunciata? Si può sfuggire all’abbraccio stritolante di Ananke, la
Necessità, rompere il destino tragico? Mulino
di Amleto sembra asserire che il destino non
sia scritto, che stia a noi cambiarlo, e per uscire dal circolo
vizioso bastai semplicemente fare un piccolo passo.
Per concludere una piccola considerazione: questo Platonov se fosse stato sostenuto da una produzione più coraggiosa e consistente farebbe parlare di sé non solo in Italia ma anche in Europa. A volta la distanza tra i nostri autori e quelli di altri paesi, più accorti sotto questo punto di vista, consiste esclusivamente nel sostegno produttivo. E non sto parlando solo di soldi ma di figure professionali che agevolino l’immissione sul mercato e i contatti con gli operatori internazionali. Non crediamo abbastanza nei nostri autori e non li mettiamo veramente in condizioni di competere con i loro coetanei esteri. Concludo quindi con una domanda provocatoria: se a Mulino di Amleto fosse stata concessa una produzione pari a quella di Simon Stone ci sarebbe stata una così grande differenza di risultato? Se la risposta a questa domanda è negativa allora non sarebbe il caso di cominciare ad avere coraggio e puntare veramente sui nostri giovani?
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