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Valentine de Saint-Point

Valentine de Saint-Point: futurismo e lussuria

|ENRICO PASTORE

Entrata in scena di Valentine de Saint-Point secondo Severini: «Quella sera montò sul palcoscenico della Salle Gaveau per illustrare il suo manifesto (della Lussuria nrd.). Era una elegante e bella donna, non più giovanissima, ma ancora in gamba, capace di mettere in pratica il suo manifesto con una notte di lussuria, e fare un’ora di scherma alla mattina, Quella sera portava un enorme cappello, il cui diametro era come quello di un ombrello, non solo largo, ma alto, pieno di piume, brillantissime».

Marinetti è ancor più affascinato nonostante tutto il suo “disprezzo della donna”: «sensualissima bocca giovanile sotto due immensi occhi verdi le cui ciglia rimando coi riccioli d’oro a diadema di perle autentiche si richiamano alla sontuosità di un calzare d’argento a sinistra e all’anello pesante occhiuto e scintillante che invetrina il più bel piede di donna del mondo». Di sicuro Valentine de Saint Point sapeva attirare lo sguardo del pubblico. E sapeva rubare la scena, se dobbiamo stare alle parole della giovane moglie di Marinetti, Benedetta, la quale, dopo averla incontrata col marito al Cairo negli anni Trenta, disse ingelosita e senza mezzi termini: «Una donna che esalta la prostituzione e che canta la lussuria, non mi pare che stesse al suo posto in mezzo a noi!».

Il matrimonio cambiò Marinetti ma non Valentine de Saint-Point che dopo averlo ricercato per guadagnarsi l’indipendenza, se ne disfece in fretta per amor di libertà. Valentine de Saint-Point (il cui vero nome era Anne Jeanne Valentine Marianne Desgalns de Cassiat-Vercell) fu, fin da giovanissima ,uno spirito incapace di piegarsi alle gabbie della consuetudine, ai costumi prudenti e castigati, ritta come torre ferma di fronte al vento forte dei pettegolezzi e delle maldicenze della cosiddetta buona società.

Nata nel 1875 e orfana di padre in tenera età, si sposò a soli diciotto anni con un uomo ben più anziano di lei. Il professore di lettere ebbe il buon gusto di morire solo sei anni dopo e Valentine si risposò con un collega del marito, professore questa volta di Filosofia, da cui divorziò solo quattro anni dopo. Imparata la lezione si diede in libera unione con il critico italiano Ricciotto Canudo con cui divise gli anni accesi della sua vicinanza al futurismo.

Nel mondo artistico non entrò però nel 1912 con i suoi manifesti, futuristi solo a posteriori e per appropriazione marinettiana. Vi era entrata con tutti gli onori come poetessa di cui Apollinaire diceva, già nel 1908 all’uscita dei Poèmes d’Orgueil: «ha innalzato mirabili canti lirici, talvolta aspri come profezie» e ancor prima come romanziera con una Trilogia sull’Amore e sulla Morte e come musa di Rodin su cui scrisse un saggio ambiguo apparso sulla Nouvelle Revue dal titolo La doppia personalità di Auguste Rodin.

Innovativo per le visioni esposte e prova della vis polemica di Valentine è un articolo apparso su Les Tendances Nouvelles del 1913 dal titolo Il teatro della donna, Valentine afferma senza mezzi termini come nel teatro a lei contemporaneo la donna sia a dir poco annichilita: «evocata quasi esclusivamente come oggetto del desiderio». Esempio lampante è l’insistenza sul tema dell’adulterio attraverso cui; «la donna prende un amante perché è elegante, o semplicemente per curiosità di qualche nuovo divertimento […] e se la situazione si compromette, la donna si dà alle lacrime come un bambino sorpreso in una malefatta e di cui si limita a chiedere scusa». Nella drammaturgia teatrale secondo Valentine si manifesta tutto il dominio posto dall’uomo sulla donna ingabbiata e vittima di una visione maschile pregiudiziale. E la figura emblematica di tale visione di una donna prigioniera dei sentimentalismi svenevoli e passivi cari all’uomo è nientemeno che il vate Gabriele D’Annunzio. Per Valentine il teatro della donna era ancora tutto da scrivere.

Questo articolo sul teatro e la donna è il preambolo dell’incontro tra Valentine e il futurismo italiano. Se in linea di principio vi era certa aria comune tra Marinetti e Valentine de Saint-Point, (il mito della guerra, il sospetto verso le suffragette e il parlamentarismo femminile), tale similitudine regge solo a un primo sguardo. Le divergenze appaiono nette proprio rispetto al ruolo giocato dalla donna. E fu quindi in risposta al primo Manifesto del 1909, dove al punto nove si proclama appunto il “disprezzo della donna”, che Valentine scrisse il suo Manifesto della donna futurista in cui afferma senza mezzi termini: «La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Essi sono uguali. Tutti e due meritano lo stesso disprezzo. […] È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini, esso è composto soltanto di femminilità e mascolinità». Valentine orienta il proprio pensiero non verso una guerra dei sessi ma piuttosto verso la riscoperta del mito dell’androgino, caro a circoli teosofici e misterici parigini.

L’idea di donna proposto è lontano dalle svenevolezze o dalla fragilità. I suoi modelli sono: «Le Erinni, le Amazzoni, le Semiramide, le Giovanna D’Arco, […] le Giuditta e le Charlotte Corday; le Cleopatra e le Messalina, le guerriere che combattono più ferocemente dei maschi». L’idea della donna forte deriva dalla convinzione della lotta impari posta di fronte all’universo femminile per far emergere il proprio talento nonostante gli ostacoli posti sul proprio cammino dagli uomini e dalla natura.

Una donna combattente quindi, per niente succube dei maschi e padrona dei propri desideri, soprattutto sessuali. Questa determinazione a illuminare la forza dell’eros dal punto di vista della donna era già ampiamente espressa nel suo romanzo La femme et le désir del 1910.

Valentine rimprovera agli attacchi misogini di Marinetti e compagni, contenuti nei vari manifesti futuristi, di aver dimenticato la potenza di Eros, il figlio di Poros e Penia, colui che nulla possiede se non i propri espedienti e la propria intelligenza, forza vitale primordiale, generatrice e innovatrice. Come nel Simposio platonico secondo l’opinione di Fedro: «nessuno è così vile cui amore in persona non accenda di fiamma divina. Così, quell’uomo diventerà eguale a chi è per natura valorosissimo», per Valentine de Saint-Point è la lussuria, non più intesa come vizio, lo stimolo per le grandi imprese delle anime forti al di là del sesso di appartenenza. E per questo :«si deve fare della lussuria un’opera d’arte fatta, come ogni opera d’arte, d’istinto e di coscienza». Non è dunque un peana all’imperio dei sensi ma padronanza composta di volontà cosciente e abbandono estatico.

Valentine aveva fatto apparire il suo Manifesto della Lussuria prima su Le Figaro e poi a Milano in forma di volantino quasi a ripercorrere i passi di Marinetti, il quale la ammise nel direttivo del Futurismo, movimento nel quale, oltre alla Marchesa Casati: «occhi di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata», non annoverava altre donne, se non fedeli servitrici e segretarie. Fan e difensore delle teorie di Valentine in Italia fu Italo Tavolato, il Karl Kraus di Trieste che nel 1913 sulle pagine di Lacerba difenderà a spada tratta il Manifesto della Lussuria nella sua Glossa e lo fece utilizzando gli stilemi del Credo cattolico: «Io credo nella comunione carnale che vivifica lo spirito, nella remissione delle virtù, nella vita terrena. Amen».

Valentine de Saint-Point però non si sentì mai pienamente parte del movimento futurista e presto le sue strade si dirigeranno verso altri lidi. Devota al Cerebrismo, teoria artistica propugnata dall’amante Ricciotto Canudo, si diede alla danza inventando la Métachorie, movimento astratto del corpo nello spazio senza accompagnamento musicale in contrappunto alla parola poetica. Nel Manifesto della danza Marinetti criticherà aspramente tali esperimenti: «Valentine de Saint-Point concepì una danza astratta e metafisica che doveva tradurre il pensiero puro senza sentimentalità e senza ardore sessuale. La sua Métachorie è costituita da poesie mimate e danzate. Disgraziatamente son poesie passatiste […] astrazioni danzate ma statiche, aride, fredde, e senza emozioni». Nonostante la riprovazione di Marinetti, Valentine portò i suoi esperimenti in tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti.

La strada di Valentine, artista a tutto tondo e femminista sui generis, procedette verso orizzonti distanti dall’arte. Questo non prima di aver dato alle stampe una tragedia “L’anima Imperiale o l’Agonia di Messalina” che prova a dar forma a una delle donne modello del suo manifesto. Poi si spinse nei territori della spiritualità, dapprima cercò di fondare un tempio delle spirito in Corsica e poi, in seguito alla stretta amicizia con René Guenon, trasferendosi a Il Cairo dove si convertì all’Islam prendendo i nome di Rouhya Nour El Dine. Dimenticata da tutti visse i suoi ultimi anni libera ma indigente. Morì in Egitto, terra natale di Marinetti, sola e in povertà.

Il suo nome oggi è quasi del tutto dimenticato, relegato in poche righe e qualche citazione nelle opere dedicate al Futurismo, come se ne avesse fatto parte a tutti gli effetti o come fosse una semplice curiosità esotica. In realtà Valentine de Saint-Point condivide il destino di molte altre donne, affiancate ai movimenti di avanguardia dal mondo maschile più che dalle proprie opere o convinzioni. A volte venne loro affibbiato un ruolo passivo di mute muse, altre furono semplicemente considerate figure di sfondo, rarità poco influenti, non riconoscendo loro alcun originale apporto al pensiero dei fondatori maschi. In realtà Valentine de Saint-Point, così come Leonor Fini, Leonora Carrigton o Remedios Varo per il surrealismo, e come Emmy Ball-Hennigs per il dadaismo, non erano le vallette o le mascotte dei movimenti artistici, erano esse stesse grandi artiste, con proprie idee, e volontariamente rifiutarono di essere incasellate in modalità cui parteciparono ma non abbracciarono interamente. Tutte loro furono voci in contrappunto con le posizioni dominanti e cercarono di portare un punto di vista diverso alle questioni poste dai colleghi uomini. Solo in questi ultimi anni si sta compiendo una rivalutazione del loro ruolo, riportandone alla luce il valore e l’indipendenza di pensiero. Possiamo solo augurarci come Valentine de Saint-Point che:«i sentieri tracciati possano divenire larghi viali, grazie a coloro che ci seguiranno e che avranno tentato».

Cléo De Mérode

Clèo de Merode: la danzatrice in equilibrio tra ammirazione e scandalo

|ENRICO PASTORE

Se potessimo attraverso queste parole scritte compiere un’immaginaria visita al Museé d’Orsay per ammirarne gli archivi fotografici potremmo contemplare insieme uno dei primi fenomeni di massa della storia dell’arte. Sembra infatti che i grandi fotografi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, Paul Nadar, Reutlinger, Charles Ogeron, Leonetto Cappiello e molti altri facessero a gara per immortalare un unico soggetto: la danzatrice Cléo De Mérode.

La sua straordinaria bellezza aggraziata, con una timidezza appena velata di malinconica tristezza, attrasse anche tra i più grandi pittori e scultori: Toulouse Lautrec, Degas, Giovanni Boldrini, Klimt. Alexander Falguière, sfruttando la fama di Clèo, le chiese di posare per la sua Danseuse, e quella donna nuda danzante nel marmo del 1896 fu uno dei più grandi scandali del Salon du Primtemps. Cléo negò sempre di aver posato in nudo integrale. Suo era solo il viso. Ma nessuno vi credette. La sua fama crebbe vertiginosamente insieme ai pettegolezzi, ma il suo corpo si affermò come icona di bellezza per tutta la Belle Epoque.

Ciò che è interessante di quest’episodio risiede nell’esordio di notizie legate a personaggi del mondo dello spettacolo in cui distinguere tra verità e menzogna non appare importante. Nessuno saprà mai, come non si poteva sapere allora, se Cléo abbia o meno posato senza veli, né se Falguière mentisse per attirare l’attenzione sulla propria opera. Resta il fatto che la sola possibilità che Clèo De Merode avesse posato nuda, divenne fattore di scandalo e di eccitazione. Nella seconda parte del Novecento molti artisti giocarono la loro carriera su questo crinale ambiguo tra vero-non vero, reale-immaginario, Cattelan su tutti. Per quello che riguarda i nostri discorsi, ciò che risalta è la promozione di un corpo danzante come modello di bellezza.

La vita di Cléo De Mérode fu sempre circondata dagli scandali. Fin dalla nascita, essendo figlia illegittima della baronessa Vincentia De Merode, dama di compagnia dell’Imperatrice Elisabetta. Fu sempre in bilico tra un’immensa fama diffusa in ogni continente (Ejzenštejn mentre girava La linea generale, trovò una sua cartolina appesa tra le icone in una lontana isba russa), e i pettegolezzi piccanti legati ai suoi supposti amori illeciti. I pettegolezzi non ci interessano e non ne parleremo. Quello che ci affascina intorno alla sua figura di danzatrice e l’essere da una parte uno tra i primi fenomeni di cultura di massa, e in secondo luogo, l’aver partecipato alla diffusione di un innamoramento verso le danze orientali tramite il quale la danza moderna, allora in pieno sviluppo, catturò delle modalità di espressione completamente estranei ai canoni conosciuti. Da ultimo la sua decisione di lasciare l’Opera di Parigi per le Folies Bergere, un passaggio ritenuto scandaloso ma perfettamente in linea con le modalità spettacolari delle avanguardie, a partire dal futurismo e il dadaismo, nell’esaltazione del Teatro di Varietà, del cabaret e del Music Hall.

Partiamo dagli inizi. Cléo De Mérode (il cui nome per esteso era Clèopâtre Diane De Merode, solo il cognome della madre in quanto il padre non la riconobbe mai), fin dall’età di otto anni iniziò a danzare nella scuola dell’Opera di Parigi, dove debuttò solo tre anni dopo. Non fu mai un’étoile seppur fu soggetto principale in grandi balletti tra cui Le coronnemente de la Muse di Charpentier e Coppélia e Sylvia ou la ninfa de Diane di Delibes. La bellezza e grazia attirarono l’attenzione, soprattutto la sua acconciatura con i capelli raccolti a nascondere le orecchie divennero leggendarie come dimostra l’aneddoto, vero o apocrifo poco importa, delle telefoniste svedesi che si rifiutarono in blocco di cambiare acconciatura benché sentissero meno al telefono e i clienti si lamentassero.

La parte più importante e notevole della storia di Cléo De Mérode è però legata all’Esposizione internazionale del 1900 dove nei giardini del Trocadero al Teatro Asiatico, nei pressi de la Rue de Paris dove nel teatro della Fuller danzava e recitava Sada Yacco, si esibì in uno spettacolo di danze cambogiane. L’anno precedente Cléo si era esibita in una danza esotica giavanese completamente di sua invenzione. Qui fu ammirata da Charles Lemire, un uomo d’affari legato all’Indocina Francese, il quale propose a Cléo di abbandonare Giava e coreografare qualcosa di cambogiano. La nostra diva non si scompose benché non avesse mai visto né conosciuto le danze di quel lontano paese asiatico. Accettò senza remore ma provò a documentarsi. Dove? Al cinema dove assistette alla proiezione di un film in cui, fatalità, apparivano delle danze cambogiane.

Per sua stessa ammissione prese appunti e memorizzò le modalità di movimento, tecnica già adottata per l’esperimento giavanese i cui passi furono desunti da foto apparse su giornali illustrati. Da ottima ballerina classica aveva una tecnica sopraffina ma lontanissima da quelle asiatiche. Il suo lavoro fu di percepire piuttosto la giusta tonalità, la sacralità del movimento, la grazia nell’uso delle mani e delle braccia. Con questi elementi elaborò una coreografia e la sottopose a Lemire suscitando il suo entusiasmo. Fu firmato un lauto contratto e le danze cambogiane di Clèo debuttarono al Teatro Asiatico con grandissimo successo tanto da farle percepire un cachet altissimo di millecinquecento franchi a rappresentazione, cifra esorbitante per l’epoca.

Se già con gli spettacoli di Sada Yacco si poneva la questione dell’originalità rispetto ai modelli, nel caso di Clèo de Merode ci si allontanò ancor di più da una filiazione diretta. Il pubblico non se ne preoccupò, così come gli organizzatori, tanta era l’attrazione esercitata dai teatri di mondi lontani. L’esotismo era di moda e la moda non si discute, la si abbraccia senza remore. Eppure questo falso balletto cambogiano ebbe delle conseguenze importanti, al di là del fatto che per la carriera di Cléo fu un ennesimo trampolino che la portò nei teatri di tutta Europa e non solo.

La prima e più importante ricaduta di queste danze fu, come nel caso di Sada Yacco e poi in seguito di Hanako, di allargare lo sguardo dei danzatori occidentali su cosa fosse possibile al di là del canone. L’immaginario e le tecniche utilizzate si ampliarono e così il ventaglio del possibile proprio a partire da questi esperimenti. La danza moderna nascente acquisì un vocabolario più ampio superando i propri pregiudizi su cosa fosse realizzabile. Questo accadde non solo a partire dalle danze di Clèo e da quelle di Sada Yacco ma persino dalle danze negre allora tanto in voga. Non è un caso se al Cabaret Voltaire, durante le serate dada, Susanne Perrottet, Mary Wigman e le allieve di Laban danzarono con maschere negre di Janco. E poi il grande successo ottenuto da Josephine Baker proprio in questo stile.

Non importava dunque se il modello fosse originale ma contava l’allargamento dell’orizzonte su cosa potesse fare un corpo danzante. Pensiamo a Rodin e al suo innamoramento per le danzatrici cambogiane nel 1906 e soprattutto, e pensiamo anche alle danze balinesi viste da Artaud sempre all’Esposizione Internazionale di qualche decennio dopo: erano realmente originali? Negli occhi di chi guarda sta la verità, se mai se ne potesse trovare una. E questo accadde ovunque e sempre nella storia del teatro. Nicola Savarese definisce il fenomeno come diffusione di stimoli, locuzione che spiega benissimo le modalità di appropriazione e di sviluppo che stiamo descrivendo. La fascinazione dell’oriente cresciuto su falsi modelli generò comunque una innovazione dei linguaggi estetici, tecnici e formali. Certo Cléo non fu conscia, come non lo furono gli altri, di ciò che potessero costituire i propri esperimenti esotico-commerciali, ma questo non ne svaluta l’importanza per la storia della danza in generale.

Proprio in seguito al successo all’esposizione Édouard Marchand scritturò Cléo per Lorenza, un balletto da eseguirsi sui palchi delle Folies Bergère. Questa scelta scatenò un verminaio di polemiche: come si poteva lasciare l’Opera di Parigi per un luogo equivoco come le Folies? Per l’opinione dell’epoca, ma pensiamo che tutt’oggi scelte simili sarebbero ampiamente criticare, prediligere un luogo di spettacolarità popolare, commerciale, pronto a strizzare l’occhio alla seduzione erotica, era un’offesa al concetto stesso di cultura. Eppure furono proprio questi luoghi a condurre alla riforma della spettacolarità condotta da tutte le avanguardie, dal baraccone russo, al Cabaret Voltaire dei dadaisti, al Teatro di Varietà dei futuristi, all’ammirazione sterminata di Marinetti per Petrolini. Alto e basso si mischiavano senza la pretesa di nobilitare il popolare, ma piuttosto di acquisirne le modalità per un coinvolgimento più diretto del pubblico. La scelta di Clèo De Merode nel 1901 fu antesignana di un movimento che dilagò di lì a qualche anno.

La fama di Clèo De Merode terminò con la Prima Guerra Mondiale, benché durante il conflitto si prodigò in spettacoli a supporto delle truppe. La Belle Epoque era finita e per gli artisti si prospettavano nuove battaglie e nuovi orizzonti. Clèo non aveva posto in questo mondo turbolento e ribollente di nuove idee. Non era una creatrice, fu un’innovatrice benché, in un modo ancora inusuale e forse non del tutto consapevole. Fu una buona interprete ma l’età ormai le precludeva la partecipazione ai balletti, così finì per insegnare in una scuola di danza. Presto nessuno più si ricordò di lei. Solo Simone De Beauvoir la citò ne Il secondo sesso, descrivendola come una cocotte, una mantenuta. Clèo citò in giudizio la Beauvoir e vinse la causa. Impressiona che una scrittrice femminista si sia scagliata contro una donna libera, che sempre rifiutò di sposarsi, e che visse la sua femminilità e sessualità senza restrizioni e contro i pregiudizi del proprio tempo. Colpisce ancor di più il fatto che proprio una femminista riprese il binomio danzatrice-prostituta, tra i più vieti preconcetti resistenti al passaggio dei secoli e delle culture.

Clèo morì a novantun’anni dimenticata e sola. La sua tomba è vegliata dalla scultura di Luis De Perinat, suo amante per lungo tempo, al cimitero di Père-Lachaise in compagnia di Oscar Wilde, Balzac, Chopin e Jim Morrison.

Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»

Sotterraneo

SUL PROMONTORIO ESTREMO DEI SECOLI: BE NORMAL di SOTTERRANEO

Ogni volta che mi trovo di fronte a uno spettacolo di Sotterraneo resto sempre meravigliato dall’ironica virulenza con cui aggrediscono la contemporaneità. Be normal, visto al Cubo Teatro di Torino il 18 dicembre nell’ambito della rassegna Fertili Terreni, graffia e incide, scuote e percuote domandando con soave leggerezza allo spettatore: è questo il mondo che vuoi?

La questione che vien posta ha uno e mille volti: quel demone che ci spinge verso il nostro destino, il daimon di Socrate risvegliato da Hillman, va ucciso perché non fruttifero ma solamente latore di passioni improduttive e che hanno l’unico scopo di farci sentire centrati e realizzati? Questo assassinio rituale è imposto da chi è venuto prima è ha codificato le leggi della produttività a ogni costo e della monetizzazione dei sogni e dei destini. Tali codici vanno rispettati? O andrebbero abbattuti? Uccidere il demone e vivere una vita normale, dove con tale aggettivo si intende accettata e riconosciuta, oppure schiantarsi seguendo la passione? Un terzo elemento pare non esserci. Nessuna conciliazione degli opposti. Si deve scegliere in quale campo stare. Come nei romanzi di Fenoglio: la neutralità non è un’opzione.

La piccola bara bianca, che avanza sulle note di Sound of Silence, è l’agghiacciante corteo funebre di più generazioni che in questo paese sono state sacrificate alle colpe di chi li ha precedute, ma è anche un monito: il silenzio uccide, così come l’ignavia crea quel corteo immaginario che segue, quello degli «sciaurati, che mai non fur vivi».

Lo spazio scenico è per Sotterraneo il luogo di interrogazione non di rappresentazione. Si gioca con il mondo facendolo a pezzi con le immagini, si cerca di capire come funziona per rimontarlo in altro modo. Ci si affanna su quel palco che si apre oltre le sue possibilità, nel dietro le quinte, nel retropalco, fuori le mura. Dilaga. Ciò che è dentro la scatola fuoriesce. È dappertutto.

Il linguaggio scenico è frenetico montaggio delle attrazioni. Bisogna dimostrare di fare, di lavorare. Bisogna riempire tutti gli spazi di tempo, che non si pensi giammai che l’artista si riposi. Ossessione del pieno in una gara senza vincitori a chi lavora di più, a chi produce di più. Così si crea un raccapricciante giardino delle delizie, dove in un’immaginaria giornata scandita dal procedere delle ore come nella serie 24, si passa da un colloquio presso un cartello mafioso, alla ragazza che nutre lo scheletro della madre bulimica benché defunta, al tirassegno per abbattere i vecchi (tra la regina Elisabetta, Hugh Heffner, Paperon de’ Paperoni, il vero nemico è Mario Rossi, pensionato generico).

Tutto appare falsamente lieve, in accattivanti toni neo-pop, quasi scenette da moderno avanspettacolo, eppure ogni immagine è scudiscio che dovrebbe farci trasalire di dolore. Dopotutto si mette in scena un catastrofico fallimento, quello di tutto e di tutti, senza speranza alcuna. Aleggia un rumore di schianto tra le risate. Si precipita nel buonumore senza accorgersi del suolo che si avvicina a tutta velocità.

Sotterraneo ci bombarda di oggetti e situazioni, quasi una saltar di palo in frasca, non lascia mai tregua, serrata mitraglia di informazioni, persino di grafici e statistiche sull’invecchiamento della popolazione per far emergere un affresco di una gioventù soffocata dal decrepito, dal trapassato che non vuol lasciar quartiere, quel paese di podagra che si vorrebbe morto dai tempi di Marinetti.

Be normal di Sotterraneo è spettacolo del 2013 ma pone domande che restano inevase. In quella bara bianca le generazioni si accumulano e niente si fa per impedirne il seppellimento anzitempo. Siamo una società votata al Götterdämmerung. Si aspira all’apocalisse. Si vuole consumare tutto e subito e del futuro chissenefrega.

Anche quando apparentemente si loda la gioventù, la si insignisce di premi e nomination in verità li si sbeffeggia. Non si creano le condizione ai giovani germogli per diventare pianta solida. Nel teatro per esempio, non sono gli Ubu e nemmeno la pletora di premi e premietti che fertilizzano la crescita, ma lo sarebbero il miglioramento delle condizioni produttive, una distribuzione efficiente in Italia e all’estero, la pluralità di fonti di finanziamento accessibili, la libertà di fare ricerca senza dover produrre ogni sei mesi un lavoro nuovo che diventa vecchio già a metà stagione.

Se si vuole veramente che il daimon dei giovani cresca florido, bisogna dar loro spazio, luce e tempo per svilupparsi. E invece bulimici li si consuma, li si osanna per gettarli nel fuoco appena diventano over 35. Sotterraneo con Be normal ci pongono delle domande urgenti: sarebbe il caso di cominciare a dare delle risposte prima che non ci sia nessuno a trasportar quella bara bianca.

Ph: @Emiliano Pona