In cinese i caratteri per Yin 阴e Yang阳 indicano una montagna con a fianco la luna o il sole a determinare il versante assolato o ombroso del monte. Nella rappresentazione ideografica dei due principi motori del Tao vi è implicita la transizione degli astri, un movimento dinamico non il permanere statico. Lao Tze, patriarca del taoismo, recita nel Tao Te Ching (Il libro della via e della virtù): la Via veramente Via non è una Via costante.
Yin e Yang si alternano, non si oppongono: quando uno ascende, l’altro all’opposto decresce. Nell’I-Ching (Libro dei Mutamenti), la linea intera (Yang) e la linea spezzata (Yin) generano dapprima gli otto trigrammi (gli elementi) e in seguito i sessantaquattro esagrammi, vessilli grafici degli stati mutevoli dell’essere, sempre transeunte. L’essere che si pone davanti ai nostri occhi non è dunque un monolite fatto di opposizioni manichee, ma è un caleidoscopio in perenne creazione di stati mutevoli. Il mondo si manifesta in infinite varianti generate dall’alternanza dei due principi in cui niente permane ma sempre si trasforma.
L’Occidente al tramonto, lontano ormai da quell’alba greca in cui la metamorfosi era fondamento della creazione e della meraviglia, si fossilizza sempre più nell’opposizione intransigente. O piace o non piace, o funziona o non funziona. Nessuna possibilità nel mezzo.
In questo momento così fragile, complesso e problematico, le opposizioni non sfumano ma diventano granitiche. Qualsiasi idea o progetto si attui immediatamente genera partigiani e oppositori. Non si ha la pazienza di attendere, di comprendere, di osservare. Ci si scaglia o si difende a spada tratta. Non si ha nemmeno la compassione di comprendere la difficoltà di qualsiasi agire.
Questo avviene per i vari progetti di delivery teatrali e simili (Kepler-452, Spazio Franco, Teatro dei venti) così come il progetto Zona Rossa del Teatro Bellini di Napoli. Quest’ultimo poi è stato gravato dall’etichetta “Grande Fratello teatrale” banalizzando le intenzioni sottese a un atto che prova a essere di resistenza, coinvolgimento, creazione nonostante le difficoltà.
Sei artisti (non li chiamo attori perché le personalità coinvolte sono difficilmente inscrivibili in una sola categoria) Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, PierGiuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna, si chiuderanno in teatro senza sapere quando ne usciranno. In questa volontaria clausura faranno quello che sanno fare: proveranno a creare, ma senza l’assillo del risultato. E questo lo faranno davanti alle telecamere, esponendosi nel momento più fragile e solitamente più protetto. Potrebbe essere un fallimento, così come un momento meraviglioso ed eccitante di creazione. Non importa il risultato. Importa farlo nonostante tutto. Importa provare a comunicare la difficoltà e la meraviglia che accompagna qualsiasi atto creativo.
Alla fine del processo, potremo stare a disquisire di estetica, tecnica, funzionalità, etc. Oggi, nelle condizioni in cui siamo, possiamo solo sostenere chi ha deciso di impegnarsi in questo come in altri progetti. Proviamo per una volta a essere occhi che osservano senza giudizio, proviamo a esercitare la compassione verso le tensioni o aspirazioni altrui.
Questo non è un invito a lasciar perdere il senso critico. Anzi. Esercitiamolo con benevolenza e intento costruttivo. Esponiamo piuttosto punti di vista che possano essere utili e questo senza porsi come tanti Gesù nel tempio. Siamo solleciti nel proporre possibili variazioni e cambi di rotta laddove si presume esista una questione problematica, ma senza l’arroganza di chi pensa di avere la verità in tasca.
Il teatro, e le arti sceniche tutte, necessitano dell’apporto di ognuno per superare un momento che vedrà molti cambiamenti e non tutti positivi. Le difficoltà per il settore non finiranno insieme all’emergenza sanitaria, così come non sono cominciate con essa. Bisogna trovare insieme non una o due soluzioni, ma molte varianti perché l’evoluzione non procede per linea retta ma è un albero con infinite fronde.
In questi giorni non c’è niente di più inutile che il scrivere una recensione teatrale. Un esame critico di uno spettacolo si rivolge tendenzialmente a un certo tipo di persone: pubblico presente in sala, pubblico potenziale, appassionati, studiosi e artisti. Oggi i teatri sono chiusi e molti rischiano la sopravvivenza nei prossimi mesi. Gli artisti stessi vivono l’incertezza del momento con affanno e preoccupazione. Il pubblico poi non è e non si sa nemmeno quando potrà di nuovo essere e in che condizioni lo sarà. Quindi perché parlare de La casa di Bernarda Alba di Leonardo Lidi?
Innanzitutto perché il testo di Garcia Lorca, scritto nel 1936, ci parla di argomenti scottanti e urgenti del nostro contemporaneo a partire, ma non solo, dalla questione femminile e del ruolo della donna ancor oggi purtroppo soggiacente a un pensiero e a un desiderio ancora vincolato a quello del maschio.
La casa di Bernarda Alba, in scena al Teatro Stabile di Torino e bloccato prima da una quarantena precauzionale e in seguito dal DPCM, sfuggiva al proprio argomento, si ricontestualizzava forzatamente a causa di una realtà che diventa ogni giorno più pressante e indefinibile. Leonardo Lidi, che traduce e riadatta il testo di Lorca, ci presenta una casa blindata, trasparente e di un biancore ospedaliero come di camera di contenimento. È impossibile per le donne imprigionate uscirne e tra loro aleggia una presenza nera a soffocare e rendere amara la loro permanenza. La casa di Bernarda Alba si apre con un funerale e si chiude con un suicidio. La morte è padrona di quello spazio chiuso e asfittico, dove i sentimenti prevalenti sono l’invidia, l’insofferenza, la rivalità, il dominio padronale, la violenza anche sessuale. Una piccola società che anziché unirsi, consolarsi e difendersi, si disgrega. Tra questi sentimenti entra prepotente ciò che vive ognuno di noi in questo momento in questo paese. Ecco perché scrivere di questo spettacolo è in qualche modo occuparsi del momento presente al di là dei confini propri del teatro.
Bernarda, la madre, dispotica tiranneggia le figlie e la serva, ma in questa sua mania del controllo, dimostra solo la propria impotenza a governare il disfacimento. Sono le parole della serva (Orietta Notari) a dispiegare la vicenda verso un orizzonte oltre la platea: “Pensavo che quando non si riesce a dominare il mare la cosa più facile da fare è girarsi per non vederlo”. E così, grazie a questa battuta, ci sbatte contro tutta la durezza di questo momento: siamo impotenti di fronte a qualcosa che ci sovrasta e appare incomprensibile e le conseguenze sono al momento impredicibili, Nonostante tutto però siamo ad affannarci nel provare a fronteggiare la marea, e lo facciamo con strumenti obsoleti, impreparati, disarmati facendo finta di non sapere la nostra vulnerabilità. Eppure un piccolo spiraglio si apre proprio nel finale con l’entrata della suicida Adele, non più di nero vestita, ma verde di vegetale che morto nella terra rinasce alla vita.
Leonardo Lidi in questa regia de La casa di Bernarda Alba riesce a far emergere la bellezza e brutalità del testo di Lorca, riuscendo anche a proiettare la vicenda nel nostro presente quotidiano dimostrando in questo la necessità del teatro, strumento di comprensione del reale attraverso la finzione. E questo nonostante alcune scelte, per esempio i registri volutamente e insistentemente pop, che allentano sì la pressione, ma alla lunga depressurizzano e disinnescano scene potenzialmente esplosive. Farò un solo esempio: la scena si apre con una danza sfrenata sulle note di Guarda come dondolo di Edoardo Vianello. Le donne vestite di nero in questa stanza sigillata di un biancore accecante. Il contrasto con il funerale è ampio ma significativo. Anche la partecipazione dell’ombra di Lui (Riccardo Micheletti) rende tutto più inquietante. L’elemento popolare è qui volano di significati, grimaldello che squarcia un velo sulla vicenda. Poco oltre questa scena, dopo il dialogo di Bernarda (Francesca Mazza) e della serva ecco l’entrata delle cinque figlie (Francesca Bracchino Angustia, Matilde Vigna Amelia, Barbara Mattavelli Maddalena, Paola Giannini Martirio, Giuliana Vigogna Adele) in punta di piedi, in fila indiana e con le braccia strette ai fianchi e le mani aperte di lato. Le cinque giovani donne si dispongono in fila sul gradino. Una si tuffa in platea e sempre a passettini si avvicina al pianoforte sulla destra e comincia a suonare e cantare Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Al toccante momento ecco subentrare un dialogo fatto di vocine in falsetto che smorza e disinnesca il momento. La violenza insita in quei pettegolezzi tra sorelle che dovrebbero amarsi, si stempera tra quelle vocine di bambinette sciocchine e svanite. Il pop qui è controproducente perché non innalza la materia, la rende solo più leggera nel senso deteriore del termine.
Leonardo Lidi è un regista di talento, che in molte scene delle sue già numerose opere dimostra maturità da artista consumato, ma la cui giovane età si intravede proprio e solamente nell’esagerare i toni e i chiaroscuri. Questa non è un’accusa, né una ricerca della critica per la critica di colui che vuole trovare anche nel talento il fantomatico pelo nell’uovo. É solo, secondo la modesta opinione di chi scrive e si assume le responsabilità del dire del lavoro altrui, il rilevare il luogo dove il talento deve maggiormente lavorare per emergere ancora più forte. Sono gli eccessi che insegnano a dosare, sono le sbavature che addestrano la mano alla fermezza e decisione del tratto.
Leonardo Lidi ci consegna un testo di grande e sofferta poesia, e una regia che in buona parte apre la vicenda verso un reale incombente e ci porta a riflettere su noi tutti, fragili e incapaci di guardare il mare in tempesta. É un peccato che le circostanze avverse abbiano sospeso questo lavoro. Avrebbe meritato di essere visto e speriamo che il futuro possa accoglierlo nuovamente sulle scene. Abbiamo bisogno di confrontarci con materie così scottanti, così come abbiamo bisogno di uscire tutti da La casa di Bernarda Alba per affrontare il mondo nuovo che si aprirà dopo questa immane tragedia che colpisce tutti. Dobbiamo ripensare il mondo, dobbiamo trovare nuovi paradigmi, e non solo nel teatro, per non rimanere incastrati tutti tra quattro mura, tra concetti vecchi, disgregati e soli.
Per la trentaquattresima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Torino per parlare con Alba Porto, regista e attrice della compagnia Asterlizze Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
I lavori più recenti di Alba Porto come regista sono Arte di Yasmina Reza con Christian La Rosa, La bella e la bestia, scritto insieme a Giulia Ottaviano per il Teatro Stabile di Torino, e Something About you con Matilde Vigna.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La peculiarità della creazione scenica è quella di confrontarsi con la problematicità dello stare al mondo rendendo “vivi” pensieri, sensazioni ed emozioni tramite l’accadimento. Quest’ultimo per verificarsi ed essere registrato ha bisogno di un pubblico che ne sia testimone e, più in generale, la creazione scenica – che è spettacolo dal vivo – non è nient’altro che il tentativo di creare ad ogni performance questo accadimento cercando una connessione e scambio con il pubblico.
Il pubblico quindi è l’ elemento fondamentale affinché essa risulti efficace e, poiché nasce da un interrogativo che riguarda l’uomo, si rivolge a una comunità che diventa destinatario imprescindibile cui riportare la propria ricerca. Credo che la creazione scenica, per essere efficace, debba in primo luogo imparare a parlare a una comunità con sguardo sincero e tagliente se necessario.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Credo che un modo per migliorare la situazione esistente possa essere rimettere al centro l’importanza dell’artista. E cioè, che le istituzioni diano la giusta importanza agli artisti – che sono capaci di produrre un beneficio, forse non quantitativamente misurabile ma tangibile – pianificando strategie per sostenerli.
Festival e bandi a favore degli under 35 rappresentano sicuramente una una buona opportunità, grazie alla quale io e Asterlizze, la compagnia teatrale per cui lavoro, abbiamo ottenuto appoggio e riconoscimento. Mi riferisco al Bando Ora! della Compagnia di San Paolo e ad alcune possibilità di visibilità dedicate a giovani compagnie e offerte da realtà torinesi come (TST, TPE e Festival delle Colline). Tuttavia questi sostegni, che rappresentano un’occasione di visibilità e un sostegno produttivo, non sono sufficienti per garantire la possibilità a una compagnia teatrale di occuparsi realmente di produzione e più in generale di ricerca.
I requisiti per avere i sostegni ministeriali inoltre sono lontani dalle possibilità delle piccole compagnie – ci siamo accorti in questi giorni di emergenza come molte compagnie restino fuori anche dai parametri dell’Extra FUS e che non vi è una reale conoscenza delle peculiarità e differenze del settore -. Bisognerebbe quindi rivedere i parametri secondo le necessità reali e le differenze, attuando una politica di sostegno che si prenda carico anche delle più piccole e giovani realtà – che spesso sono quelle più attente nei confronti dell’attualità che le circonda – . Si potrebbe pensare a luoghi affidati gratuitamente ad artisti, affiancati da figure professionali che si occupino di valorizzarne l’ operato.
Da qui in avanti inoltre bisognerà pensare a una ripartenza che possa contenere i danni causati dalla pandemia dimostrando una maggiore collaborazione e cura. Mi riferisco a un rinnovato dialogo tra teatri nazionali, tric, regioni, comuni, realtà di vario tipo e gli Artisti.
Mi auguro che nuove forme di abbraccio possano nascere in questo periodo di distanziamento, insieme a una ritrovata fiducia e considerazione degli artisti. Nuove dovranno essere le strade da tracciare. Si tratta di offrire a noi tutti una grande libertà: la libertà della scommessa in percorsi non tracciati, nuovi, idealisti e soprattutto umani. La scommessa è un atto di fede, e potrebbe avere risvolti sorprendenti in molti aspetti della vita comunitaria.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Il discorso sulla distribuzione, argomento spinoso e sicuramente fondamentale per molte compagnie tra cui Asterlizze, dovrebbe essere inserito in una politica di azione più ampia e sinceramente sono d’accordo con quanto detto da Carmelo Rifici, nella tua prima intervista e che qui parafraso: più che soluzioni per la distribuzione, ogni artista dovrebbe avere un proprio luogo, una “casa” in cui poter creare i propri lavori. Certo, bisognerebbe supportare gli artisti cercando di garantire una tenitura distributiva più lunga forse e che permetta loro di circuitare venendo in contatto con più realtà possibili, ma mi chiedo se questo non sia ancora una ennesima schiavitù. Inoltre data la situazione critica che si prospetta nei prossimi anni per il teatro e non solo, la distribuzione sarà ancora più cosa ristretta a scambi tra teatri e, in ogni caso, difficilissima. Credo quindi che il problema della distribuzione (cui spesso è legata la principale risorsa di sostenibilità per le compagnie) potrebbe essere arginato e forse non sarebbe più troppo centrale, se ogni gruppo artistico avesse una “casa” in cui creare i propri lavori, dedicandosi soprattutto al contesto circostante e al contatto con il proprio pubblico, avvicinando maggiormente la comunità al teatro. Insomma diventando un fulcro di riferimento all’interno del contesto cittadino e riportando al centro anche un legame con il territorio, di cui l’artista può e deve farsi portavoce.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Oggi più che mai il valore della creazione scenica come evento a cui assistere e partecipare dal vivo è fondamentale. La creazione scenica impone uno scambio reale tra i partecipanti, provoca emozioni e ci impone di “stare” in connessione con l’altro – privandoci per un momento degli schermi dei telefonini -. Ci porta a recarci in un luogo deputato (spesso il teatro, ma non solo) per assistere a un racconto in qualsiasi forma e farne esperienza. L’esperienza, a mio avviso, è l’unico motore capace di generare comunicazione ed empatia. Tramite l’esperienza possiamo tralasciare i ruoli affidatici dalla società (gli artisti, gli spettatori, i critici) ma essere tutti parte di qualcosa: la nostra contingenza, l’essere umani. Lo spettacolo dal vivo è un luogo di scambio e si modifica a seconda della platea, del pubblico, in maniera sostanziale. Quindi credo che la funzione principale sia quella di produrre scambio e vicinanza allo stesso tempo. In un momento storico come quello che stiamo vivendo ritengo che tale vicinanza debba trascendere dallo spettacolo dal vivo in sé e manifestarsi in azioni a sostegno della categoria. Questo sarebbe davvero un bello spettacolo cui assistere.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Credo che il rapporto con il reale consista prima di tutto nell’essere immersi nel reale. Il nostro reale è sicuramente complesso e interpretarlo, in un sistema che ci bombarda di informazioni, non è semplice. E tuttavia l’artista è spugna assorbente del suo tempo, interprete che si allontana dalla frammentarietà delle notizie e riporta l’attenzione su ciò che ci unisce in quanto uomini. Non si tratta per l’artista esclusivamente di valutare la verità o la falsità delle fonti, ma di ricercare con trasparente necessità i meccanismi che governano i rapporti di vario genere. L’artista sente il suo tempo e cerca di “vederci chiaro” formulando delle domande, che attingono al reale e lo trascendono allo stesso tempo. Ecco che partendo dal contemporaneo si ritorna a maneggiare testi classici creando parallelismi nei contraddittori eppure speculari meccanismi del contemporaneo. Perché tutto ciò che viviamo è stato già vissuto, e questi giorni di particolare emergenza ce lo confermano.
Stare nel reale dunque avendo curiosità e aprendosi al dialogo con altre discipline e campi di indagine, ponendosi la domanda se ciò a cui stiamo lavorando possa servire a essere stimolo per gli altri. Che cosa raccontare è il primo punto di partenza e perché. Se il perché include anche gli altri, se ha un senso oltre che personale, pubblico, allora ci stiamo rapportando al reale.
Dopo
aver visto Aminta di Antonio Latella al Teatro
dell’Arte della Triennale di Milano ed essere rimasto affascinato
dall’uso sonoro e musicale della parola del Tasso, ho sentito la
necessità di conoscere e approfondire le fasi di lavorazione. Ho
incontrato in questa intervista Matilde Vigna, cheinsieme
a Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta e Giuliana Bianca Vigogna
compone il cast di Aminta.
Matilde Vigna, è stata vincitrice del premio Ubu 2016 come migliore attrice under 35 insieme all’intero cast di Santa Estasi, sempre per la regiadi Latella. Recentemente è stata protagonista di Causa di beatificazione per la regia di Michele di Mauro, presente nel cartellone dello scorso Festival delle Colline Torinesi, e di Spettri per la regia di Leonardo Lidi alla Biennale Teatro 2018.
A
partire da quale elemento avete iniziato ad affrontare il lavoro su
Aminta?
Direi
che ci siamo approcciati ad
Aminta
guidati da due direttrici: il lavoro sul verso e la ricerca di Amore.
Abbiamo affrontato Tasso
partendo dal verso, esplorando non soltanto la sua metrica e
musicalità ma anche la verticalità dello stesso, la sua capacità
di portarci in profondità. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa
sia amore – Amore? è infatti la domanda iniziale dello spettacolo.
Cosa sia per noi oggi, cosa fosse per lo stesso Torquato
Tasso,
come questa parola (così difficile da dire, attorialmente parlando)
ed il suo significato possano essere declinati in un’infinità di
modi. Questa domanda è la freccia iniziale che scagliamo in mezzo al
pubblico. Il verso è la corda tesa e vibrante che permette –
assieme al lavoro musicale di Franco
Visioli
– questa scoccata.
Attraverso
quali fasi il testo scritto, quello che Carmelo Bene chiamava il
morto-orale, si è trasformato in parola viva?
Il
lavoro di Antonio
Latella
con noi attori è stato principalmente incentrato sulla concretezza
del verso parlato. Inoltre il lavoro con Linda
Dalisi
sul testo, a livello di comprensione, etimologie, radici storiche e
curiosità, è stato fondamentale per la nostra comprensione ed
appropriazione del testo stesso. Le dinamiche tra gli attori che
dialogano (I personaggi infatti nella presentazione della prima
edizione di Aminta
vengono chiamati INTERLOCUTORI) rendono il verso vivo, concreto,
radicato, è un lavoro in “verticale”. Latella
ha insistito molto sulla verticalità. Il verso si fa carne, ci
attraversa, ma ogni verso è una freccia scoccata dritta verso il
pubblico. Anche il suono curato da Franco
Visioli va
nella direzione della verticalità e non secondario è stato per noi
l’ostacolo/arma rappresentato dai microfoni, governati sempre da
Visioli.
Non fermarci al suono della nostra voce, alla musica del verso. Il
microfono ci “ruba l’anima”, ma la direzione è sempre verso
l’Altro e non può fermarsi alla capsula del microfono.
Puoi
raccontarmi qual è stato il processo di messa in scena? quali sono
state le differenti fasi di lavorazione?
Il
primo incontro è avvenuto nell’ottobre 2017. Abbiamo incontrato il
regista e la sua
squadra
e il resto del cast, ed è stato entusiasmante. In questa fase
abbiamo lavorato con Linda
Dalisi,
sul testo, sulla storia del Tasso e sul periodo storico, sulle varie
versioni di Aminta
e sull’iconografia e le esperienze musicali collegate. Anche noi
attori avevamo dei compiti da preparare e questo è stato
fondamentale per immergerci da subito totalmente nell’opera e in
noi stessi, per contaminarci a vicenda e anche per farci conoscere
dal resto della compagnia. In questa sede abbiamo lavorato con
Francesco
Manetti
sulla polka: com’è evidente nello spettacolo la scelta è stata
radicalmente diversa ma credo che il lavoro sul ritmo ci sia rimasto
dentro e ci abbia permesso di dire poi i versi nell’immobilità
senza perdere mordente. A marzo 2018 c’è stata un’altra fase di
lavoro a Esanatoglia, nelle Marche. Noi attori dovevamo arrivare con
la memoria del primo atto e alcuni dei pezzi musicali. Abbiamo
iniziato ad incarnare i versi, a provare soluzioni sceniche. In
questa fase noi attori “nuovi” al lavoro con la compagnia
Stabilemobile
abbiamo potuto toccare con mano la qualità di una compagine di
artisti e professionisti di altissimo livello. Antonio
Latella
guida una squadra encomiabile e noi giovani ci siamo sentiti parte di
un processo creativo plurilaterale – e in queste condizioni
memorizzare pagine di versi diventa un piacere e un onore. A ottobre
2018 il processo si è concluso a Macerata, dove Aminta
ha debuttato l’8 novembre al Teatro
Lauro Rossi.
In questo frangente il secondo tempo si è concretizzato, abbiamo
aggiunto un ulteriore pezzo musicale (Vitamin
C),
il lavoro su noi attori, su luci, suoni, scena e costumi si è
definito.
In
che modo sono emersi i materiali musicali e quale rapporto instaurano
con il testo?
Le
scelte musicali sono opera di
Latella e Visioli.
Il Lamento
dell Ninfa
di Claudio
Monteverdi
(coevo del Tasso) si colloca nel primo atto dove predominano
immobilità, costumi neri (ad eccezione di Tirsi), e restituzione del
testo originale. Nel secondo tempo, dopo il monologo del Satiro –
ossia qui la trasformazione di Aminta nel Satiro ad opera di Silvia –
tutto cambia. La poesia si perde pur rimanendo, Amore ha scoccato la
sua freccia, c’è una liberazione, un urlo. Sopraggiunge il rock.
Quindi PJ
Harvey
con
Rid of Me
all’inizio e Vitamin
C
dei CAN
alla fine. Oltre alla musicalità penso che anche le allusioni più o
meno esplicite contenute nei testi di queste canzoni abbiano
suggerito a Antonio
Latella
la loro collocazione.
Antonio
Latella nell’intervista che mi rilasciò a luglio 2017 alla Biennale
Teatro, mi disse chesecondo lui era finita l’era del regista-capitano
della nave. Stava emergendo piuttosto una nuova figura, più simile a
un direttore d’orchestra o a un compositore. Dal punto di vista di un
attore come vedi questa trasformazione del ruolo del regista? Si
avverte questo cambio di rotta?
Decisamente.
Antonio
Latella
guida una squadra di artisti che lavorano in autonomia, che
propongono, c’è un confronto continuo. L’immagine del direttore
d’orchestra è calzante. Per noi attori soprattutto Antonio
Latella
è guida maieutica, non impositrice: seguiamo chiaramente le sue
indicazioni, ma è evidente come lui parta da noi, e non imponga
nulla. Lo spettacolo si crea lavorando con noi attori con i nostri
corpi e le nostre intelligenze e lui è maestro in questo. Forse è
semplicistico dire che tutto si riduce al cast, ma penso che abbia
saputo abilmente selezionare gli attori che potessero tradurre la sua
idea di Aminta
nel 2018.
Quale
ruolo assume l’interprete in questa nuova creazione di Antonio
Latella?
L’interprete
è fondamentale. O, per tornare alla dicitura primaria di Tasso,
l’interlocutore. Abbiamo il compito di riportare la meraviglia di
questi versi facendoci attraversare, con un movimento necessariamente
verticale. La musica ci supporta, i microfoni ci amplificano, il faro
su rotaia circolare compie il suo moto di rivoluzione attorno a noi
ma alla fine – complice anche la quasi totale immobilità – tutto
si riduce a noi e alle parole del Tasso. Ed è nostra responsabilità
ogni sera lasciare che questo accada, perché senza la nostra totale
adesione la difficoltà della lingua rischia di superarne il valore,
e questo non può accadere. É infatti un lavoro politico, di
riscoperta senza edulcorazioni della ricchezza della nostra lingua
madre, in un tempo di impoverimento e imbarbarimento linguistico e –
se mi è permesso – non solo.
Qual
è stata la tua principale difficoltà, come attrice, nell’affrontare
Aminta, e come sei riuscita a superarla?
Personalmente, lasciare che Silvia fosse. Prima del debutto ero molto spaventata: temevo di non essere all’altezza, che nel mio sentirmi “troppo poco” caricassi eccessivamente o non fossi all’altezza del disegno registico, così elegante, forte e rigoroso. E devo ringraziare Antonio Latella che ha capito il mio momento di disagio e mi ha dato fiducia. Allo stesso modo il supporto di Franco Visioli sulla parte musicale per me è stato fondamentale e mi ha fatto esplorare nuove fantastiche possibilità.
Se
piace è lecito. Così canta il coro nel primo atto di Aminta
di Torquato Tasso.
L’amore contrapposto all’onore e al decoro, un invito ad amare perché
:”non ha tregua con gli anni umana
vita, e si dilegua”. Aminta
è un dramma pastorale che parla d’amore, un genere quanto mai
distante dall’oggi e messo in scena per la prima volta probabilmente
il 31 luglio 1573 dalla celebre Compagnia dei
Gelosi, fondata da Flaminio
Scala. Qual è dunque la sfida di Antonio
Latella?
Superare l’antagonismo tra ricerca e repertorio al fine di coniugare
l’innovazione con la grande tradizione.
Anche Milo
Rau nel suo recente Gent
Manifesto persegue lo stesso obiettivo,
sintomo che forse oggi bisogna porsi la questione e ripensare il
rapporto con il passato e le funzioni del teatro. Le vecchie
categorie invalse fino alla fine del Novecento stanno decadendo, la
parola avanguardia risulta stantia, senza più alcuna valenza
rivoluzionaria, così come il teatro di rappresentazione classico ha
perso la sua capacità di affascinare e di far credere. Un nuovo
connubio tra due anime che hanno perso vigore potrebbe essere
salutare.
Antonio
Latella dunque vuole provare ad andare al di
là di un invalso pregiudizio che oppone due maniere di fare teatro.
In verità tradizione non significa affatto immobilismo o vieto
conservatorismo. La parola deriva dal latino tradere,
consegnare oltre, trasmettere. Indica un movimento, non una stasi.
Hobsbawm e Ranger, non
a caso, intitolarono il loro saggio L’invenzione
della tradizione, a
significare il continuo riassestamento e riformulazione di ciò che
si tramanda da una generazione all’altra. Il filosofo Alessandro
Bertinetto
arriva a teorizzare che ogni opera d’arte sia di fatto una sorta di
improvvisazione perché nel venire al mondo inventa nuovi canoni e
rinnova il linguaggio che riceve in consegna e senza nessun piano
preordinato. Quello che si definisce canone, quindi, non è
nient’altro che il frutto di piccole e continue variazioni, deroghe,
libere eccezioni, tradimenti e innovazioni.
D’altra
parte, come non è sufficiente adottare un tema o un testo
contemporaneo per essere innovativi, nemmeno l’uso di un testo
vecchio di quattro secoli e di una lingua desueta e nobilissima
costituita di endecasillabi e settenari definisce un agire
conservatore. È il modo in cui si utilizzano i materiali, le
tecniche impiegate e le funzioni che si attribuiscono al proprio fare
che ci posizionano in un campo o nell’altro.
Se
Antonio
Latella avesse
ricostruito le scene e le modalità della corte estense all’epoca del
Tasso ci troveremmo di fronte a niente più che un restauro
nostalgico di tempi perduti, ma non è questo il caso. La versione di
Aminta
che ci propone è per molti versi innovativa proprio perché
inserisce una nuova variazione all’interno di una tradizione
novecentesca che si è posta il problema di quale rapporto potesse
instaurarsi tra testo letterario e scena.
Quattro
bravissimi interpreti (Michelangelo
Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna)
emergono dal buio. Sulla scena solo quattro aste con microfoni
circondati da un binario su cui lentissimo gira, in senso orario, un
riflettore. La parola non è mai riferita, diventa suono in azione,
colpisce come freccia al di là dei significati, incanta come musica
d’Orfeo. La sensazione di concerto si rafforza a ogni nuovo incontro
musicale: dapprima Monteverdi,
e poi Rid of me
di P.
J. Harvey
fino a Vitamin C
dei Can
(questi ultimi due brani suonati in scena da Matilde
Vigna).
L’azione è minimale. Pochi spostamenti, qualche minimo cambio di
direzione. Un’unica vera scena, alla fine della prima parte, in cui
Aminta
si denuda e viene legato coi suoi propri vestiti, per essere
trafitto, come San Sebastiano, dalle aste dei microfoni. Alla fine un
ritorno lentissimo nel buio.
L’amor
di cui si canta non ha niente di mieloso o stucchevole. É
innanzitutto potenza della natura che sconvolge e urta. L’amore che i
greci raffiguravano come bambinello bendato pronto a scoccare le sue
temibili frecce, è appunto arma che ferisce e sconcerta, perché
amare è andare contro il proprio ego, è un viaggio verso l’altro e
il diverso. Eros, come racconta Platone,
è figlio di Poros e Penia, di ingegno e povertà, ed è tutt’altro
che bello, bensì rude e vagabondo perché come la madre è legato al
bisogno. E proprio per questo e non per caso che tutti i volti
contrastanti e conflittuali di Amore siano presenti in questo dramma
pastorale: dall’ingenua speranza alla più nera disperazione, dalla
bestialità del fauno al cinico distacco di Tirsi, il calore d’Aminta
e il gelo di Silvia.
Tipico
del dramma silvano questo restar sul filo della tragedia. Nato come
complemento alla triade tragica, esso la evocava e ne sfuggiva per il
rotto della cuffia. In quel dire antico, in quei versi in cui ci si
perde, vi è sentore di minaccia e di bisogno. L’amore è sale della
vita ma anche forza contrastata, che si conquista con la lotta e la
fatica. Non è scontato né facilmente donato. È lotta sull’orlo di
quel baratro da cui si getta Aminta:
ci si salva ma per miracolo divino.
In conclusione, per descrivere questa Aminta di Antonio Latella, potremmo usare le parole che spese il De Sanctis a proposito dell’opera di Tasso: “una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo”. Sprezzatura, come diceva Baldassarre Castiglione, è quell’arte di far apparire semplice ciò che assolutamente non lo è. Aminta di Antonio Latella sembra possedere una minimale semplicità in questo suo essere quasi priva di azione, ma è densa di dramma, di contrasti, di forze evocate e scatenate dalla parola. Qualcuno potrebbe obbiettare che la lingua antica sia tutt’altro che semplice, popolare e facilmente intellegibile a un pubblico non preparato. Se il proposito fosse quello di riferire una storia di ninfe e pastori allo spettatore odierno forse si avrebbe ragione, ma qui l’intento è tutt’altro: la vera protagonista è la potenza della parola, la sua forza quasi magica di evocare e smuovere, un verbo che non è discorso ma, come diceva Giulio Caccini, è canto: “senza misura, quasi favellando in armonia con sprezzatura”.
Vista al Teatro dell’arte alla Triennale di Milano
Debutta alla Biennale Teatro 2018 Spettridi Leonardo Lidi, vincitore della Biennale College Registi Under 30. Per descrivere il suo lavoro di riscrittura di Ibsen, il giovane Leonardo Lidi parla del gioco del Lego: “ho smontato il castello del Lego e l’ho ricomposto a mio piacimento”.
Gli Area cantavano: “giocare col mondo facendolo a pezzi”. Due modi per descrivere lo smontaggio e rimontaggio di un testo capitale del teatro borghese di fine Ottocento.
Gli attori in scena interpretano tutti i personaggi. Meglio sarebbe dire: prestano la loro voce, li fanno emergere per mezzo del loro corpo, in una sorta di labirinto di coscienze avviluppate e catturate dal gorgo della vicenda.
Le menzogne del passato tornano come spettri, influenzano il presente, incombono sul futuro. Vi è come un aria appestata, che sa di malattia, contagiosa. Gli eventi si sporcano nelle pozze di fango del ciò che fu un giorno. Una nuvolaglia nera e greve d’acqua pesante come il piombo schiaccia il cielo di cenere sulla testa dei personaggi, ma nemmeno una pioggia martellante riesce a lavare i peccati e le menzogne di un tempo.
È la famiglia il vaso di Pandora che viene scoperchiato. Il velo che nasconde le miserie viene sollevato, il bubbone suppura ma non guarisce. La cancrena si è ormai troppo diffusa.
L’azione si svolge su un quadrato di ferro, una semplice panchina nel mezzo, una buca verso il proscenio a sinistra. Sul fondo incombe una parete di ferro. Il quadrato è circondato da riflettori che illuminano a giorno la scena plumbea, fredda e metallica.
In SpettriLeonardo Lidi ha a disposizione quattro attori di grande livello tecnico espressivo: Michele Di Mauro, il premio Ubu Christian La Rosa, Mariano Pirrello e Matilde Vigna recentemente ammirata al Festival delle Colline Torinesi con Causa di Beatificazione di Sgorbani.
Leonardo Lidi dà buona prova di sé in questi Spettri ricomposti e rimontati. Un confronto con i classici, non solo letterari. Nel programma di sala, Leonardo Lidi chiama questa sua prova un punto di partenza e mi sembra appropriato. Come i pittori del passato per trovare le loro cifra espressiva, il loro stile pittorico, copiavano i capolavori del passato, così Leonardo Lidi si confronta, in maniera libera, frutto di un gioco di scomposizione ricomposizione, con la grande tradizione drammaturgia di fine Ottocento.
Gli auguro che veramente sia un punto di partenza per andare altrove, per esplorare nuove strade per il teatro, alle ricerca di nuove funzioni. Per quanto il teatro borghese sia stato una tappa fondamentale nell’evoluzione scenica, oggi il l’arte teatrale ha bisogno di altro, di qualcosa di più confacente ai suoi tempi e alle sue crisi. In un mondo dove la borghesia è a rischio estinzione, i segreti sono pubblicamente esposti sui social, e la famiglia non è più tradizionale, altre sono le problematiche che si agitano nelle fratture del corpo sociale.
Da questo punto di partenza bisogna andare avanti, verso il mondo, nel cuore di tenebra che palpita sotto il velo apparentemente sereno del civilizzazione, e per farlo, bisogna andare alla ricerca di strumenti affilatissimi che incidano, sezionino, intaglino, estirpino.
La tempesta di Giorgione, proiettata sul fondale, accoglie lo spettatore in questa Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani per la regia di Michele di Mauro, in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi.
Nel dipinto vi è racchiuso molto del significato di questo lavoro di Massimo Sgorbani. Una donna quasi interamente svestita allatta un bambino e rivolge il suo sguardo verso l’osservatore. A sinistra un uomo appoggiato a un bastone, che solo apparentemente sembra una lancia, guarda la donna. Tra i due, una coppia di colonne spezzate. Nella parte alta del quadro, le mura di una città su cui incombe una nuvolaglia nera scossa da un fulmine. La tempesta sta arrivando.
Il dipinto del Giorgione è una delle opere più enigmatiche e misteriose della storia dell’arte, e in questa sede non interessano le sue svariate interpretazioni, quanto le sue implicazioni rispetto all’opera di Massimo Sgorbani: una donna osserva ed è osservata, quasi completamente nuda, mentre alle sue spalle si sta scatenando la violenza degli elementi. Il quadro è stato dipinto con tutta probabilità immediatamente prima dello scoppio della Guerra della Lega di Cambrai nel 1507. Le forze dello scacchiere italiano stavano coalizzandosi contro Venezia. La guerra stava per scoppiare.
Resta un altro elemento da segnalare prima di analizzare l’allestimento di Michele Di Mauro interpretato da Matilde Vigna: le memorie mistiche di Angela da Foligno, morta nel 1309. Le sue estasi mistiche parlano di un amore di Dio che squarcia il corpo della santa, lo strappa in pezzi, ne disperde le viscere. L’amore che squassa il corpo, la divinità che usa violenza era già dei greci per i quali l’intervento divino era sempre assimilabile allo stupro.
Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è un trittico di canti con protagoniste tre donne: una prostituta kossovara, una kamikaze palestinese, e Angela da Foligno che nel testo di Sgorbani precede e nell’allestimento di Michele Di Mauro chiude.
Tre donne, tre esperienze mistiche. Le due donne contemporanee vivono la tempesta della guerra, ne subiscono nella carne le violenze: una costretta alla prostituzione, giovane madre di un figlio avuto da un soldato delle forze di pace, abbandonata e a sua volta costretta ad abbandonare il bambino; la seconda sterile, ripudiata dal marito, infermiera di bambini deturparti dalle ferite di guerra, che diventa kamikaze per divenire santa al cospetto del profeta.
Violenza, tempesta, e lo sguardo perforante di un uomo, che le spinge ad intraprendere un percorso violento e mistico. Lo sguardo che fa violenza è di tutti, è nostro come pubblico e come società, ma è anche del teatro che è pur sempre Teatron, il luogo da cui si guarda.
L’allestimento di questo testo di Massimo Sgorbani, duro, feroce, in qualche modo brutale sceglie l’abbondanza quasi bizantina. Una vera proliferazione di segni, di immagini, oggetti, e musiche che ingombrano la scena saturando la retina dell’osservatore. La violenza dello sguardo combattuta con la sovrabbondanza dei segnali.
Da una parte un testo che disegna un trittico violenza che diventa porta per una beatificazione controversa, dall’altra una scena barocca, densa quasi come un film di Greenaway. Due linee compositive che si aggregano in una fitta armonia che in alcuni casi diventa ridondanza di segnale.
L’interpretazione di Matilde Vigna è convincente, commovente, senza mai cadere nell’affettazione accademica. Vi è un che di naturale, credibile nel suo dire che è pur sempre poetico, di tono elevato e lirico, mai superficiale. Al suo fianco una sorta di servo di scena, che all’inizio, come l’uomo nel dipinto di Giorgione guarda la donna, a fianco della scena, con un lungo spazzolone al fianco, e che per tutta la durata dello spettacolo, diventa servo di scena e occhio che guarda all’interno della rappresentazione.
Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è, nell’allestimento di Michele Di Mauro, un teatro di parola e di testo con una regia che prova ad affiancare all’opera drammaturgica un linguaggio scenico che agisce in armonia provando a non essere didascalico non sempre riuscendoci. Benché sia comprensibile il cumulo di segnali in relazione alla violenza visiva, si sente in molti punti la necessità di asciugare e raffinare. Sembra, in alcuni tratti, una scena in perpetuo affanno rispetto al testo, un tentativo di riuscire a stargli alla pari.
Causa di beatificazione è comunque un lavoro intenso, che pone molte domande volutamente lasciate aperte e senza risposte. Quello compete al pubblico, alla sua riflessione. È l’occhio che vede che modifica il reale, è l’occhio che vede che ferisce ciò che viene visto. A lui l’onere di interpretare o, meglio, comprendere ciò che graffia e lacera.
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