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Hommelette for Hamlet Carmelo Bene

ADDIO MASCHERINE: UN RICORDO DI CARMELO BENE

Il 16 marzo 2002 si è spento Carmelo Bene, il più grande uomo di teatro italiano del secolo scorso. Non faremo certo un discorso commemorativo, non a CB poiché già in vita gridava a gran voce (amplificata e in playback): «Me ne fotto del mio trono! I morti son morti!».

Cercheremo di ricordarlo con alcune delle sue più importanti battaglie teoriche da lui portate avanti e riportate alla luce in questi giorni da due pubblicazioni importanti, Carmelo Bene di Armando Petrini e Oratorio Carmelo Bene di Jean Paul Manganaro.

Le due opere sono per opposti versi importanti, imprescindibili: più rigoroso, scientifico e critico il Petrini, tanto da riuscire a mettere in evidenza luci e ombre della parabola artistica del Maestro; più partecipato, accorato, al limite di tra il romanzo, il saggio, il florilegio di ricordi quella di Manganaro. Eppure nonostante tale siderale distanza di atteggiamento nei confronti di CB, entrambi gli autori fanno emergere alcuni temi che non sarebbe superfluo affrontare dando contemporaneamente uno sguardo a questo smemorato presente.

Cominciamo dal principio, dal fatto semplice seppur così colmo di conseguenze, dell’essere Carmelo Bene, come nota Petrini, non un “padre fondatore” ma un “figlio degenere”. Oggi questo fattarello risulta in tutta la sua diversità e folgorante luminosità. Carmelo ha lottato come un figlio pronto a tutto pur di dispiacere il padre padrone che lo voleva diverso da ciò che era, normalizzato, educato ai buoni principi del senso comune. Quel padre era ed è il teatro conformista, quello delle messe in scena di testi riferiti, di coloro che fingendo il rispetto della tradizione rinnegano ogni giorno la Tradizione: quella dell’attore inventore, del teatro che precede il testo, di tutto quello che risulta essere un atto insubordinato in quanto, prima di tutto, è artistico nel senso più sublime del termine.

Carmelo Bene

Non a caso una delle ossessioni di CB è stato, insieme ad Amleto (altro figlio degenere), Pinocchio, per quel voler rimaner bambino sempre, schifando l’età adulta del buon senso mediocre. Così cita Manganaro: «Quel Pinocchio “che sono” è più che mai rifiuto a crescere, civilmente e umanamente, è lo spettacolo dell’infanzia prematuramente sepolta, che si risveglia e scalcia nella propria bara. Adulta è la terra-padre-avvenire che la ricopre».

Quanto diverso l’atteggiamento di Carmelo, lui desiderante il Ministero disinteressato per sempre di lui, da quello di tutti questi figli del teatro d’oggi che diligenti compilano al medesimo Ministero e alle banche per ottener da loro, padri-padroni elargitori di paghette da pagare a caro prezzo, la tanto agognata approvazione, il riconoscimento di esser stati bravi, obbedienti e precisi nei numeri? In fondo lo sappiamo come avrebbe reagito, lui, Cassandra inascoltata, che l’aveva previsto questo asservimento ministerial-bancario, e nel prevederlo è stato deriso e offeso.

CB poi avrebbe avuto molto da insegnare sull’uso dei media, lui che li aveva provati tutti: radio, televisione, cinema, concerto e in ogni suo visitare sempre attento a utilizzare il mezzo scorticandolo e tradendolo per, in fondo, esaltarlo. In TV non solo produceva versioni amletiche e pinocchiesche ma non disdegnava andar a Domenica In da Corrado insieme a Lydia Mancinelli a cantar di Ungaretti, Pascoli e D’annunzio secondo Luciano Folgore. Per non parlare dei due opposti (e opposti perché CB usa la televisioni in due modi sideralmente distanti): CB al Maurizio Costanzo Show e Quattro momenti su tutto il nulla per la RAI. Nel cinema poi irrompe con Hermitage e Nostra Signora dei Turchi, facendo cinema distruggendo e scorticando cinema. Nei teatri lirici ecco Manfred o Egmont, concertando ed esaltando la voce sonante in rinnovato carme; infine la radio con le Interviste impossibili, la Salomé, il Tamerlano, e ovviamente Amleto e Pinocchio.

Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi

Oggi come avrebbe usato CB il mezzo digitale? Di certo non si sarebbe limitato allo streaming. Non avrebbe disdegnato il mezzo ma avrebbe affondato il colpo, esplorando la tecnologia, dimostrandone i limiti, demistificando, usando senza mai aderire, restando CB nella sua unicità irriducibile. E questo lo avrebbe fatto da partigiano dell’indisciplina contro la interdisciplinarietà, per usar le parole di Armando Petrini. Il fine era sempre infatti la distruzione della rappresentazione e della spettacolarizzazione della rappresentazione. Così cita Armando Petrini: «Sulla pagina è distruzione della narrazione, sul palcoscenico è distruzione dello spettacolo, sullo schermo è distruzione dell’immagine. Tre annullamenti che convergono in uno solo: quello di ogni rappresentazione»

Forse però, nel suo abitar sempre la battaglia, lui innamorato del teatro che non rinunciò mai a bestemmiar il nome dell’amato, dove si è dimostrato più estremo e rigoroso, fu nell’esser sempre nell’oralità della poesia. Non fu mai uno che riferiva il già detto, il morto orale. Diceva Carmelo nella sua Vita: «Il Testo!Il Testo!Il Testo! Nel teatro moderno-contemporaneo si persevera insensatamente su questa sciagurata conditio sine qua non del testo, considerato ancora propedeutica, premessa (padronale) alla “sua” messinscena. La messinscena subordinata al testo […] Mi ripeto: quel che più conta (urge) è liberare il teatro da testo e messinscena! Da qui il “levar di scena”, il testo della messinscena e la messinscena del testo. Tra-dire. Dire-tra».

Oggi nulla è cambiato. Ancora non si prescinde, anzi impera la messinscena. Senza testo i teatranti sembrano persi, incapaci di inventare la scena, di partire dal suolo come diceva Mejerchol’d, altro grande dimenticato che affermava senza mezzi termini: il testo alla fine!

Ma che ci si poteva aspettare da un Paese in cui, come diceva CB citato da Petrini: «Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, guai a essere anticonformista senza essere conformista». Giudizio condiviso da Pasolini, altro grande irregolare che oggi tutti in qualche modo vogliono tirar per la giacchetta dalla propria parte, e citato da Manganaro afferma: «Il teatro italiano, in questo contesto (in cui l’ufficialità è protesta), si trova certo culturalmente al livello più basso. Il vecchio teatro tradizionale è sempre più ributtante. Il teatro nuovo […] (escludendo Carmelo Bene, autonomo e originale) è riuscito a divenire altrettanto ributtante che il teatro tradizionale. È la feccia della neoavanguardia e del ’68. Sì, siamo ancora lì, con in più il rigurgito della restaurazione strisciante».

Carmelo Bene in Lorenzaccio

Come non vedere in queste parole di due dei più grandi artisti e intellettuali del Novecento, lo specchio dei tempi nostri, in cui tutto sembra rinchiudersi nel recupero delle messinscene, del teatro di regia veterotestamentario, nei dicitori di testi propri e altrui, in un deserto senza ricerca, perché impossibile nei diciotto giorni canonici o nelle residenze sparse pochi giorni qua e là con mesi in mezzo a far altro per sbarcare il lunario. Rispetto ad allora c’è in più forse una certa “locura” come dicevano in Boris, una sventagliata di paillettes e finto giovanilismo, per svecchiare i testi, renderli più digeribili, premasticati per il pubblico-consumatore. Ma sempre dal testo si parte, si è ingordi di nuova drammaturgia, di scrittori, di drammaturghi più che di grandi attrici o attori, di sublimi e scandalose ricerche che smuovano l’orrenda e immota palude in cui siamo immersi come sonnambuli dimentichi di tanto glorioso recente passato.

Eppure per quanto iconoclasta, CB era artista e attore profondamente impregnato di Tradizione. Non solo quella, per così dire semplificando, d’avanguardia, quella di Mejerchol’d e Artaud, ma anche quella dell’opera, del melologo, dei lieder, grandi attori italiani, di Petrolini, della Commedia dell’Arte, fino agli antichi attori del romano imperio, reietti e sublimi, parlati dalle voci, inventori di impossibilità rese per un attimo possibili prima di sparir nel buio. D’altronde per poter variare il canone bisogna conoscerlo a menadito. La Tradizione viene portata avanti da coloro che la tradiscono pur amandola profondamente. E per tradire bisogna conoscere. Quello di Carmelo era un amore da teologia negativa, un toglier di mezzo dio per amarlo di più, un bestemmiarlo per scuoterlo. La sua è stata una lotta epica come quella di Giacobbe con l’angelo e come il patriarca rimase sciancato e offeso nel corpo.

Oggi invece tutto scompare senza lotta alcuna, in pochi secondi, nel silenzio. Non rimane nulla. Ci si dimentica non solo di CB, ma di Kantor, di Leo de Berardinis e di tanti altri, non persi nella notte dei tempi , ma scomparsi da poco nel buio oltre le quinte della vita.

Carmelo Bene in Salomé

Ultimo punto: il togliersi di mezzo. CB per quanto accusato di essere istrione, vanitoso nell’esporsi, non ha fatto altro in tutta la sua carriera d’attore che sabotare l’io, il soggetto. Pensate al protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sempre contuso, ferito, ingessato. Carmelo diceva amleticamente «povero pallido individuccio / che non crede che al suo io che a tempo perso». CB operò come John Cage con la stessa tenacia, seppur senza la sua olimpica serenità, a portare l’arte oltre l’espressione di sé, a essere fatto fisico corporeo materiale e proprio nel suo esser tale sconvolgeva i valori e le dinamiche del mondo acquisito e non messo in discussione. Non era certo nel comunicare qualche fattarello privato, qualche sentimetuccio a buon mercato per commuovere l’anziano abbonato, e nemmeno nel promuovere la cronaca personale o mondana che sia, il luogo in cui risiede il nucleo proprio e più profondo del teatro.

CB, come Cage, portò l’arte al di sopra di tutto questo, facendone una questione di filosofia se non di teologia applicata. Un rivolgere l’occhio verso altri cieli non contaminati dal berciare quotidiano. Ecco perché Carmelo era trasversale e riuniva le folle: per il suo essere universale, per esser capace di far risuonare la parola poetica all’interno di qualsiasi orecchio, benché sussurrasse solo al suo come Epitteto al mercato.

Per concludere, ricordare Carmelo Bene oggi non è un vezzo da anniversario, ma è rammemorare una ricerca estrema e radicale nei suoi esiti e i cui frutti furono la totale messa in discussione di tutte le funzioni e le pratiche del teatro e di tutti i media attraversati nel corso della sua carriera. Oggi si viene derisi, persino da gente carica di premi Ubu, quando si parla di ragionare e mettere in discussione le funzioni del teatro. Anzi si invita a tacere per tornare a far spettacolo, come ce ne fosse poco di spettacolo in giro. Quel che manca è il teatro, ma sembra non importare molto a nessuno. Ecco perché siamo così pronti a dimenticare questo figlio degenere, perché la sua scomoda presenza ci rammenta ad ogni istante quanto siamo distanti dal Teatro con la maiuscola, che non facciamo nulla per ottenerlo per paura di non ricevere il tanto agognato placet ministeriale. E così perdiamo tempo, inabili a qualsiasi rivoluzione, procrastinando mentre nell’ombra CB continua a sussurrare: «l’arte è tanto grande, la vita è così breve!».

Armando Petrini Carmelo Bene, Carocci Editore, Roma, 2022

Jean Paul Manganaro Oratorio Carmelo Bene, Il Saggiatore, Milano, 2022

Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»

Dario Franceschini

LETTERA APERTA AL MINISTRO DARIO FRANCESCHINI

Gentile On. Ministro Dario Franceschini,

mi permetto di scriverle queste poche righe in seguito alla decisione, inserita nell’ultimo DPCM, di chiudere i teatri e i cinema considerandoli attività non essenziali. Mi rivolgo a lei cercando, nel mio piccolo di storico del teatro, di farle comprendere come in realtà proprio il teatro sia stato, nei momenti più drammatici della storia recente, l’attività umana tra le più necessarie. Mi permetta di farle pochi ma significativi esempi: in Russia tra il 1917 e il 1922, in una nazione alle prese con la Rivoluzione d’ottobre, la fine della Prima Guerra Mondiale e la seguente guerra civile, immersa in una crisi economica senza precedenti, si trovò proprio nel teatro e per opera di artisti straordinari come Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Ejsenstein, Tairov, un luogo dove immaginare un futuro e un mondo. E il pubblico non mancava perché sapeva di poter trovare in mezzo a tanti drammi un luogo dove tutto poteva essere ripensato. E poi durante l’Olocausto il teatro accompagnò gli ebrei nei campi di sterminio, non solo ad Auschwitz, ma a Dachau, Theresienstadt, Sachsenhausen, Malines, Westerbork. In quasi ogni campo i prigionieri, immersi nel più grande male che l’uomo abbia commesso, trovavano conforto nel teatro, e questo proprio laddove non avevano niente, nella più assoluta fragilità. Da ultimo le ricordo che nella città di Sarajevo assediata i teatri rimasero aperti e frequentati nonostante i bombardamenti e i cecchini cetnici e questo perché, caro ministro, fin dalle origini dell’Occidente, all’alba radiosa della grecità, il teatro è stato il luogo primario della nascita dell’agorà, dove la comunità si riuniva per metabolizzare le crisi che la attraversavano.

Necessari il teatro e la danza lo sono, come vede, fin dal principio, e li troviamo presenti nei luoghi di maggior dolore e complessità della storia recente. Questa necessità Signor Ministro la può constatare non tanto nei teatri stabili o dei teatri lirici, ma soprattutto delle piccole realtà, quelle di periferia e di provincia, spazi in cui si ritrova spesso la vita socio-culturale delle comunità. Gli artisti della scena sono presenti, infatti, nei presidi culturali di tutte le città italiane nel lavoro indefesso e costante con le categorie più deboli: con i malati, gli anziani, i giovani, i carcerati, gli immigrati. Vuole veramente dirci, signor ministro, che questo lavoro sia inutile o sacrificabile per la società? Non le pare piuttosto che in questo drammatico frangente della storia nazionale, avere un luogo dove poter riflettere, metabolizzare, rielaborare, tutto quanto ci sta accadendo sia invece salutare per lo spirito e le menti della cittadinanza tutta? Il teatro è un luogo sicuro perché l’intero comparto ha cura dei propri spettatori, parte fondamentale del processo creativo, specchio in cui riflettere e rifletterci, senza i quali la nostra arte non avrebbe senso di esistere. Il teatro è necessario perché è una delle cellule base su cui è costruito il corpo sociale e dove, a ogni rappresentazione, si ricostruisce simbolicamente tale corpo. Far mancare l’ossigeno a questa cellula mette a grave rischio l’intera nostra comunità nazionale.

Signor Ministro chi le scrive sa che le parole spese saranno probabilmente inascoltate, che voci più autorevoli della mia verranno ignorate sotto la bandiera della salute pubblica, ma rammenti, la prego, che non di solo pane vive l’uomo, che il nutrimento dello spirito e delle menti è necessario come l’aria che si respira. Certo il teatro non morirà oggi, non per la sua serrata, essendo sopravvissuto a millenni di sciagurata storia umana, ma certo la maggior parte di chi oggi si occupa di quest’arte meravigliosa sarà costretta a immensi sacrifici, molti dei quali si dimostreranno inutili, e molti si troveranno costretti non solo a sospendere, ma a chiudere la propria attività e da questo deriverà una desertificazione culturale di interi quartieri e territori. Avremmo sperato che lei Sig. Ministro si battesse per le categorie di cui il suo Ministero avrebbe dovuto occuparsi. Invece l’intera categoria si sente abbandonata perché Lei non ha nemmeno preso in considerazione la profonda necessità del nostro operare in seno alla comunità. Ci ha considerati inutili e superflui. Per questo, la prego, si dimetta e faccia come i nobili comandanti che affondano con la nave loro affidatagli, condivida così almeno simbolicamente i nostri non piccoli sacrifici.

AttoDue/Murmuris

SPECIALE INEQUILIBRIO: Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris

Nella mia seconda giornata a Inequilibrio mi sono imbattuto in uno spettacolo che mi ha fatto molto pensare. Parlo di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris da un testo di Jean-Luc Lagarce per la regia di Simona Arrighi e Laura Croce.

La riflessione a cui mi spinge questo spettacolo non è di natura estetica (posso tranquillamente dire che ogni immagine era ben studiata e concepita), e nemmeno di natura attorica, quanto piuttosto funzionale.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris è un lavoro strutturato su una rappresentazione mimetica e naturalistica. Siamo nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini, le finestre sono aperte sul mare, un salotto borghese e ben arredato accoglie gli spettatori. La scena è già in atto. È come entrare in casa d’altri. C’è quindi fin dall’inizio una quarta parete che ogni tanto viene leggermente rimossa con degli a parte.

Tutto è assolutamente credibile e naturale. Gli attori (Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini) sono bravi, senza affettazione, privi gesti inutili, con una partitura di azioni serrata, misurata, genuina che fa trasparire i sentimenti che le parole non dicono, gli imbarazzi, la rabbia, la frustrazione.

E poi gli oggetti di scena: il vino nei calici, la zuppa nel piatto, la foto dei bambini, il caffè nelle tazzine. La mimesi con la realtà è quasi perfetta, non fosse per il pubblico e le americane al soffitto. Fin dalle prime battute si ha come l’impressione di essere a Mosca a casa Stanislavskij o a Parigi a godersi uno spettacolo di Antoine. Siamo di fronte a un teatro naturalista che rappresenta un salotto borghese.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris mi ha fatto sorgere sin dai primi minuti una domanda insistente: è questo che chiediamo oggi al teatro? Un teatro mimetico?

Queste domande le pongo senza alcun intento polemico, ma in quanto studioso di arte scenica. Nella Parigi di Zola e Antoine e della loro battaglia per il naturalismo contro le viete convenzioni ottocentesche, o nella Mosca di Stanislavskij, la mimesi tra arte e vita era una contesa attuale che riformava i teatro. Nonostante questo, già dopo pochi anni, le avanguardie o registi come Vachtangov e Mejerchol’d cominciano a demolire l’edificio mimetico verso un teatro che non sia rappresentazione ma vada al di là.

Oggi, mi chiedo, è questa rincorsa alla mimesi che serve al teatro? È la simulazione che assolve alla funzione del teatro? Non ci sono altri media che possono farlo meglio? Perfino i primi reenactment di Milo Rau non erano mimetici, ma sempre era rivelato, in maniera quasi brechtiana, l’artificio e la distanza dal reale.

Pensiamo a Hate Radio: siamo di fronte alla rimessa in scena di una trasmissione radiofonica di Radio Milles Collines, ma nessuno vuole farci credere che siamo a Kigali in Ruanda, solo farci comprendere che cosa è avvenuto.

Quello che è davanti a noi è come un vetrino di laboratorio, è un oggetto di studio e di critica del reale non la sua copia e nessuno fa finta di credere che i conduttori siano quelli veri. C’è una distanza critica necessaria per comprendere e in qualche modo giudicare la realtà e, se possibile, modificarla.

La funzione del teatro è quindi quella di sguardo sul mondo, luogo dove la comunità/pubblico indaga la realtà, ne affronta le sue crisi cercando modalità di risposta. Il dispositivo scenico ha quindi una chiara funzione.

Nel caso di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris, benché il lavoro sia ben fatto e ben eseguito, la funzione mimetica non appare per nulla chiara. Perché si vuole che si creda che sia reale? Perché quello che capita sulla scena potrebbe capitare a tutti? Ma per raggiungere questo scopo è la simulazione la strategia più adeguata?

Già Carmelo Bene diceva, nelle sue meravigliose lezioni su Cos’è il teatro, che far finta di credere che quello sulla scena sia Amleto era cosa da Croce Verde. Dopo le rivoluzioni del Novecento, dopo aver fatto di tutto per uscire dalla rappresentazione e cercare nuove funzioni alla scena, veramente crediamo necessario il ritorno a un teatro naturalistico borghese? È così essenziale mettere una zuppa nel piatto come se ci si trovasse di fronte a un vero pranzo in famiglia? La scena non possiede modalità più efficaci?

Queste domande le pongo, ripeto, senza tono giudicante. Il lavoro di AttoDue/Murmuris, dal punto di vista tecnico, è irreprensibile. Perfino Stanislavskij avrebbe proferito il suo fatidico: “Ci credo!”. Il problema non è la qualità, ma la funzione della scena in se stessa. Che teatro vogliamo nel nostro contemporaneo? È la mimesi tra arte e vita lo strumento adeguato per il reale che ci troviamo ad affrontare?

Mejerchol'd

FUGHE DAL TEATRO: Mejerchol’d e i padri fondatori alla ricerca di nuove funzioni per l’arte scenica

Il 25 ottobre 1917 si compie l’assalto del Palazzo d’Inverno e inizia per la Russia una nuova epoca. Pochi giorni dopo si tenta l’impresa di assaltare anche il palazzo del teatro tradizionale. Lunačarskij, commissario per l’istruzione del nuovo governo, convoca “tutti i rappresentanti delle arti disposti a collaborare”. C’era da costruire qualcosa di nuovo, di sicuramente inedito. Risposero solo in cinque tra cui Blok, Majakovskij e Mejerchol’d.

L’adesione al nuovo corso rivoluzionario attirò su Mejerchol’d le ire e le antipatie di molti colleghi dell’Aleksandrinskij, tanto che in pochi mesi si consumerà la rottura completa. Mejerchol’d nutriva già da tempo una certa insofferenza per i teatri tradizionali che, a suo dire, non rispondevano alle esigenze nuove dei tempi.

Nell’abbracciare l’avvento della rivoluzione Mejerchol’d ne inizia una sua personale per un nuovo teatro che recuperasse nella tradizione gli elementi per giungere a un rinnovato linguaggio. Attraverso una diversa figura di attore si prefigurava un uomo diverso, attraverso il teatro si costruiva un’idea inedita di società.

L’uscita di Mejerchol’d dal teatro tradizionale, il suo impegno verso la pedagogia e l’insegnamento, la visione etico-politica che accompagna il suo agire artistico è comune a molti padri fondatori.

Il rifiuto di canoni pletorici e stantii non ha portato Copeau prima a spostarsi sulla Rive Gauche e poi in Borgogna con i Copiaus? E lo stesso, seppur con le dovute differenze, non si potrebbe dire di Max Reinhardt per il Grosse Schauspielhaus?

L’ansia riformatrice dei padri fondatori parte dall’esigenza di riformulare il teatro tradizionale avvertito come ente da rimodulare, ma coinvolge la visione di un uomo nuovo e una società diversa. E non è un caso che molti abbiano avvertito l’esigenza, nel costruire questo teatro del futuro, di uscire dall’edificio-teatro per iniziare nuovi percorsi produttivi e creativi, per incontrare un pubblico diverso, agire inconsuete strategie.

Pensiamo al teatro agitprop nella Repubblica di Weimar, dalle Riviste Rosse di Piscator a Brecht, al russo Proletkul’t, al Theatre du Peuple di Romain Rolland in Francia e il già citato Copeau. I teatranti e i danzatori cercano formule, stimoli e nuovi pubblici utilizzando strategie diverse ma tutte mirate alla riformulazione di un teatro che sfugga alle catene della tradizione e attraverso quest’azione prefigurare un’idea di uomo adatto a una società in via di costruzione.

E non è un caso che la maggior parte di questi esperimenti si siano svolti di pari passo a un’azione pedagogica che fornisse al nuovo attore o danzatore strumenti adeguati. Laban a Monte Verità, i teatri laboratorio di Vachtangov e Mejerchol’d a Mosca, il Bauhaus e tanti altri cercano di formare una figura rinnovata e rimodellata di attore o danzatore.

Si cerca anche un pubblico in categorie sociali spesso abbandonate o non considerate. Si scende nelle piazze e nelle fabbriche, nei cabaret e Café Chantant, ci si rifugia in comunità chiuse così come ci si apre nella condivisione nelle varie comuni che attraversano il continente. Si scende persino nelle trincee, nei manicomi, negli ospedali, nelle carceri. L’unico luogo che sembra tabù pare sia proprio l’edificio teatrale, simbolo di un mondo e di una tradizione che si vuole abbandonare.

Utopie riformatrici, illusioni, battaglie perse e vinte. Persino vittime, si pensi al povero Artaud.

Queste tensioni alla riformulazione dei codici non si placano con il dopoguerra, anzi rifioriscono un po’ dovunque in Europa e negli Stati Uniti e ancora una volta si esce dal teatro per costruirne uno nuovo. Cage e Cunningham al Black Mountain College e poi alla New York School for Social Research, ed ecco esplodere una nuova danza, il Living Theatre e il movimento Happening prima e Fluxus poi.

Grotowsky e l’Odin Teatret in Europa costruiscono interi sistemi di training per attori ma si preoccupano di affiancare alla tecnica una visione del mondo e della società, così come la scuola del Piccolo di Milano con Strehler e Paolo Grassi. E questo solo per citare alcune realtà note, ma la lista è lunghissima.

Quanti nomi e quanti protagonisti in questa onda che attraversa il ‘900. Se c’è un filo rosso comune a tanta diversità resta quanto espresso in maniera lucida da Jacques Copeau: «Il rinnovamento del teatro, che tante epoche hanno sognato e che oggi non si cessa di invocare mi apparve in primo luogo un rinnovamento dell’uomo nel teatro».

Non solo pensiero artistico legato al proprio linguaggio espressivo ed estetico, ma ansia etico-politica, consci del fatto che il teatro, come la danza o la performance sono fatte dall’uomo per l’uomo, all’interno di una comunità, piccola o grande che sia.

Ripensare le funzioni significa innanzitutto cercare un ruolo all’interno della società, condividerlo con il pubblico che si incontra, confrontarsi con la comunità, addirittura scontrarsi.

E così fino ai giorni nostri il teatro sfugge al teatro e cerca di formare gli abitanti di questo edificio in perenne costruzione.

Ma qualcosa in questo filo rosso si è spezzato. Nelle nostre società così sfilacciate, demotivate, lontane da una vera azione politica che prefiguri un’idea di uomo e di comunità, anche l’arte si chiude in se stessa. Certo non dappertutto, non in maniera univoca e uniforme, ma certa è la tendenza a un generale ripiegamento a strategie di sopravvivenza sia da parte dei festival, che delle istituzioni e soprattutto da parte degli artisti.

Più che il gran teatro del mondo si assiste a un progressivo richiudersi nel personale, nel proprio vissuto problematico. Quando c’è apertura verso l’esterno difficilmente si procede oltre la cronaca senza creare un’immagine che apra un immaginario comune, anche perché spesso si tratta di certe tematiche per sperare nell’assegnazione del bando di turno. Senza ansia rinnovatrice difficilmente si scoprono nuovi linguaggi e nuove formule e si finisce per reiterare modelli vincenti ancorandosi ad essi come a dei feticci. A volte addirittura si riproducono inconsapevolmente, arrivandoci per caso.

E così il pubblico difficilmente si riconosce in opere che per lo più non parlano se non a se stesse. Il loro carattere inoffensivo le fa ideali laddove non si vuol creare dibattito ma limitarsi a passare la nuttata. Civica e Scarpellini ne La Fortezza vuota delineano meglio di me un sistema che non produce il nuovo anzi mira a comprimerlo e contenerlo.

Le volte che ho provato, attraverso questo blog, a cercare con i miei poveri mezzi di riaccendere un dibattito sui temi delle funzioni del teatro e della danza in un nuovo contesto sociale, le reazioni sono state per lo più avverse e proprio da parte degli artisti. Il che mi fa non solo intristire ma credere che in fondo la tanto temuta morte del teatro alla fine si sia presentata. Toccherà attendere una nuova rinascita. Come nei numeri dei clown si muore per finta, per risorgere, per continuare un ciclo, in un eterno ritorno senza fine. Bisogna sperare che sorgano nuovi padri fondatori che pensino un uomo e un teatro nuovo o forse semplicemente evocare un Padre Ubu che con la sua immensa pancia scuota tutto, abbatta tutto e poi anche le rovine affinché si ritorni a pensare a nuove funzioni per un teatro e una danza che le hanno perse per strada, e da quel punto provare a rinnovarle e a rinnovarci, riscoprendo tensioni etiche e politiche nel lavoro d’artista e tornare a incontrare il pubblico in una comunità.