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Milo Rau

INTERVISTA A MILO RAU: la scena come sguardo critico sul mondo

Ho conosciuto Milo Rau al Festival de la Batie a Ginevra nel 2015. Avevo appena visto Hate Radio lo spettacolo dedicato al genocidio in Ruanda. Lo intervistai nella hall del suo albergo e lui si dimostrò molto disponibile e generoso. Avevo mille domande perché il suo teatro ha una forza tale da scuotere l’animo di chi guarda da renderci confusi. Il teatro di Milo Rau interroga le nostre coscienze e lo fa essendo radicalmente prossimo all’etimo della parola: Teatron il luogo da cui si guarda.

Da quel giorno ho seguito il suo lavoro con attenzione particolare convincendomi sempre più della necessità di questo tipo di opere che spesso toccano l’estremo e vengono difficilmente digeriti da pubblico e critica. Faccio soprattutto riferimento al suo ultimo lavoro presentato in Italia per esempio, Five easy pieces, in cui i bambini raccontano la vicenda di Dutroux il mostro di Marcinelle e che ha vinto il premio Ubu per miglior spettacolo straniero.

E sono ancora più curioso di vedere il suo ultimo lavoro Le 120 giornate di Sodoma ispirato dall’ultimo lavoro di Pasolini nonché dall’opera del Marchese De Sade e messo in scena con ragazzi down.

Il teatro di Milo Rau è sempre un’esplorazione dei limiti della scena, di cosa è possibile fare, di cosa ci si può spingere a dire o mostrare attraverso il dispositivo di rappresentazione.

L’incontro con Milo Rau da cui scaturisce questa intervista è avvenuto a Venezia a palazzo Trevisan degli Ulivi sede del Consolato di Svizzera dove si svolgeva la rassegna Cinema Svizzero a Venezia organizzata dall’amico Massimiliano Maltoni all’interno della quale è stato proiettato in anteprima nazionale il film The Congo Tribunal del 2017.

Enrico Pastore: Come si inscrive la tua attività cinematografica nel quadro più complesso del tuo progetto teatrale?

Milo Rau: c’è indubbiamente una relazione ma è presente anche una notevole differenza. Ho già lavorato sia per il cinema che per la TV realizzando dei documentari tratti da miei spettacoli. In particolare The Congo tribunal è nato come un lavoro live realizzato tra il Congo e la Germania nel 2015. Come ben sai una performance teatrale è legata al qui ed ora, si svolge una volta sola o per un tempo limitato. La versione cinematografica del progetto è diventata quindi uno strumento per far sì che coloro che non potevano fisicamente partecipare all’evento potessero in qualche modo accedervi attraverso un documento riproducibile ovunque.

Enrico Pastore: Parlando di The Congo Tribunal: in che modo il film ha interagito o influito sulla realtà dei fatti di questo paese così ricco e così travagliato?

Milo Rau: Il tribunale che prende vita come performance e in seguito come film è simbolico. Benché ci sia un vero giudice della corte dell’Aja, vi sia un vero procuratore e le vittime siano reali, il tribunale non ha un vero potere perché non formalmente istituito. In Congo vengono compiuti decine di massacri legati allo sfruttamento incondizionato delle sue risorse naturali e noi ne abbiamo scelti tre particolarmente significativi perché compiuti proprio a causa di motivi economici. Abbiamo raccolto testimoni e vittime e gli abbiamo chiesto di partecipare alla messinscena di questo tribunale simbolico. Il film realizzato è stato poi fatto vedere varie volte in Congo e ha sempre generato molto scalpore nell’opinione pubblica che ha sempre attribuito le responsabilità di questi crimini alle multinazionali. A causa di queste montanti proteste si sono dimessi due ministri del governo e questo sta a testimoniare l’incredibile potenza e l’enorme impatto che l’arte può avere sulla realtà.

Enrico Pastore: Benché sia un film documentario assume la forma teatro. Vi sono i giurati, i testimoni, la corte e il pubblico: ognuno ha la sua parte e partecipa al rito del teatro e ognuno indossa la maschera che ritiene gli sia confacente. In qualche modo pensi che il tuo film sia anche un documentario sulla forza del teatro come sguardo sul mondo che permette a una comunità riunita di confrontarsi con le crisi che si trova ad affrontare?

Milo Rau: Quello che ho cercato di fare con questo film sono essenzialmente due cose: da un parte cercare di avere un impatto sulla realtà politica ed economica; dall’altra descrivere la realtà. Com’è possibile realizzare un film o una performance che parli delle guerre in Congo? E com’è possibile fare un film che tratti allo stesso tempo anche lo sfruttamento delle miniere in Congo? E come dare in un film spazio alle vittime per raccontare le loro storie? Il Tribunale diventa quindi un format in cui è possibile trattare tutti questi argomenti, farli interagire, vedere come un aspetto sia legato all’altro, perché tutti i protagonisti sono riuniti in un unico luogo: il tribunale/teatro. E questo ovviamente si ricollega alle origini proprie del teatro greco antico dove si può riscontrare la nascita della forma tribunale. Pensiamo a l’Orestea o ad Antigone, dove le vicende degli eroi sono legate indissolubilmente alle questioni che riguardano la legge e la sua applicazione. Il tribunale nasce a braccetto con il teatro in qualche modo.

Enrico Pastore: Nel tuo teatro cerchi sempre in qualche modo di sperimentare i limiti di quello che si può fare in scena e di quello che il pubblico potrebbe sopportare, Penso soprattutto a Five easy pieces e a Le 120 giornate di Sodoma. Cosa ti spinge a forzare questi limiti? Il teatro dee essere un gesto estremo per essere significante?

Milo Rau: Sia Five easy pieces che Le 120 giornate di Sodoma hanno un ruolo chiave nel mio percorso creativo. Sono due lavori che sondano i limiti e si pongono la questione di come superarli, ma soprattutto indagano la questione su cosa sia la catarsi al giorno d’oggi. Ne Le 120 giornate di Sodoma ci sono in scena dodici ragazzi portatori di handicap e affetti dalla sindrome di Down che subiscono delle autentiche torture. Ma questo accade anche nella vita quotidiana in virtù della loro condizione a causa di una società che non considera pienamente i loro diritti e le loro esigenze. Allora sorge una domanda: com’è possibile che non tolleriamo vedere certe cose sulla scena eppure le sopportiamo tranquillamente nella vita di ogni giorno? Cosa dice questo di noi come spettatori e come società civile? Cos’è veramente scandaloso? E lo stesso discorso si può dire anche per Five easy pieces dove sono i bambini a raccontare la vicenda di un noto pedofilo, ma più in generale affronta il tema della violenza che gli adulti esercitano sull’infanzia.

Enrico Pastore: Nei due ultimi tuoi lavori teatrali Five Easy Pieces e le 120 giornate di Sodoma lavori con attori non convenzionali, bambini e ragazzi down, per trattare temi estremamente forti e sconvolgenti. Come hai lavorato con loro durante la creazione, che tecniche hai utilizzato?

Milo Rau: Five easy pieces è stato il mio primo lavoro in cui ho lavorato con dei bambini. Nelle opere precedenti avevo sempre lavorato con attori professionisti o con esperti di procedure legali nel caso dei processi (Es. The Moskow trails). Lavorare con i bambini è molto difficile in quanto fanno fatica a concentrarsi, non sanno veramente cosa sia recitare né che tipo di relazione instaurare con il pubblico. Ci sono voluti mesi di prove molto lunghe nei fine settimana per riuscire a creare un metodo che fosse efficace. E tutto questo lavoro mi ha fatto pensare molto a cosa vuol dire essere un regista, cosa sia una regia teatrale e cosa sia la recitazione. La regia in qualche costruisce relazioni di potere e di abusi per poter raccontare una storia e questo non ricorda in qualche modo ciò che fa un pedofilo? Five easy pieces è un lavoro che pone molte questioni sulla regia e le sue modalità.

Dopo aver affrontato il lavoro con i bambini e in seguito con i ragazzi down ne le 120 giornate di Sodoma penso che il mio modo di dirigere sia cambiato e questo proprio a causa delle domande che mi sono posto durante la lavorazione di queste due opere per me così importanti.

Enrico Pastore: Perché hai deciso di confrontarti con Le 120 giornate di Sodoma? e in che modo ti sei confrontato con l’ultimo lavoro di Pasolini?

Milo Rau: Sono da sempre un grande estimatore dell’opera di Pier Paolo Pasolini. Ricordo quando ho visto il film Le 120 giornate di Sodoma. Ero a Parigi come studente e lo vidi una domenica pomeriggio. Rimasi scioccato dalla sua modalità quasi mistica di raccontare il fascismo.

Pasolini aveva una visione molto democratica della recitazione utilizzando nei suoi lavori attori professionisti come la Magnani o Totò a fianco di attori non professionisti. E in parte è questo che ho cercato di fare.

L’opera di Pasolini descriveva anche una società e le sue modalità, e io nel rapportarmi con il suo ultimo lavoro ho voluto in qualche modo porre la questione di che tipo di società siamo diventati.

Ho deciso di affrontare Le 120 giornate di Sodoma con dei ragazzi down perché nella società borghese svizzera e tedesca sono come dei feticci. Sono adorati quanto sono su un palco o in un film, ma sono sostanzialmente ignorati nella vita reale.

Milo Rau

FIVE EASY PIECES di Milo Rau

Five easy pieces di Milo Rau, ieri in scena alla Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, è opera tra le più complesse perché pone l’osservatore nelle condizioni di dover affrontare molti livelli di lettura venendo investiti da questioni scomode di fronte alle quali è difficile non prendere posizione. Inoltre, dato l’argomento (la storia del pedofilo belga Marc Dutruox) e il fatto che a raccontarlo siano dei bambini, non può che colpire e far sorgere domande cui è diffile se non impossibile rispondere.

È assolutamente necessario rendere evidenti le varie questioni che pone Milo Rau con Five easy pieces prima di procedere a una recensione. Iniziamo con ordine. Innanzitutto la vita di Marc Dutroux che ha segnato la storia recente del Belgio in maniera indelebile, diventando una sorta di mito nazionale negativo. La vicenda di Dutroux è diversa da quella di qualsiasi altro pedofilo/serial killer proprio per aver scosso un’intera nazione ponendola di fronte a se stessa con una forza senza precedenti. Il fatto che Dutroux abbia potuto operare così a lungo proprio a causa delle divisioni interne al paese (rapiva le ragazze nelle Fiandre e le segregava in Vallonia rendendosi sicuro e quasi intoccabile come se passasse un confine); le accuse di incompetenza alla polizia, inefficiente a causa proprio di queste divisioni; l’evidenza che la storia familiare di Dutroux sormonti alcuni dei passaggi critici della storia nazionale belga (l’indipendenza del Congo nel 1960 dove la famiglia Dutroux viveva, l’azione del mostro a Marcinelle, zona mineraria tristemente nota a noi italiani, le differenze linguistico nazionali etc.), tutto questo fa sì che l’affaire Dutroux abbia un impatto assolutamente unico rispetto a vicende simili e abbia scosso una nazione ridefinendo l’immagine che aveva di se stessa.

Questo è un primo livello di lettura: la vita di Dutroux come catalizzatore di profonde inquietudini e divisioni nazionali, l’essere un mito demonico di un intero paese tutt’ora diviso, e teso a rimuovere un passato di violenze coloniali terribili (non dimentichiamo che il genocidio in Ruanda dipende per molti fattori dalla politica coloniale belga che divise Tutzi e Hutu creando odio insanabile tra le due etnie).

C’è poi l’evidenza che a raccontare la storia del Mostro di Marcinelle siano i bambini. Sono loro che rimettono in scena la vicenda in cinque piccole piece. I bambini inscenano la storia di uno dei peggiori pedofili della storia europea, che seppellì viva una sua vittima, un’altra la fece morire di fame e le altre schiavizzò, torturò e stuprò. È giusto? Potremmo chiederci. È eticamente corretto? Quali le conseguenze per questi piccoli attori? È sfruttamento? È anche questa una forma di violenza? Tutte domande legittime. E il fatto che la produzione e le prove siano state seguite da psicologi e dai genitori dimostra che un pericolo c’era, che se ne era consapevoli, che si è cercata una forma di protezione e che si è deciso che il rischio doveva essere corso.

In Five easy pieces di Milo Rau i bambini non fanno ciò che solitamente ci si aspetta da loro all’interno di uno spettacolo teatrale. Certo recitano ma si interrogano e ci interrogano su una vicenda mostruosa, sulla morte, sulla violenza, sulla natura del male e ci fanno comprendere che loro capiscono e percepiscono più di quello che si crede. La loro innocenza è meno ovvia di quanto si pensi (nello spettacolo si chiede loro se hanno mai ucciso e le risposte sono inquietanti, rilevano un certo fascino della e nella violenza che appartiene all’umano fin dalla più tenera età, come il gusto di incendiare formiche e vespe, o l’uccisione di un gattino per sbaglio che però fa nascere una sensazione strana di potenza). Il teatro è crudele. Lo si dice senza mezzi termini come risposta alla domanda di un bambino. Il teatro non è giusto perché non è il suo compito. È Teatron, è il luogo da cui si guarda e se quello che si guarda non piace non è colpa del teatro.

Infine Milo Rau si interroga sulla rappresentazione in sé, sui suoi scopi, sulla sua necessità. Quando i bambini si chiedono: cosa significa recitare? O quando viene loro chiesto: cosa saresti disposto a fare per il teatro? O come affronti il fatto di essere guardato? Di fatto ci si chiede cosa sia la rappresentazione, a cosa serva, come ci relazioniamo con questa finzione che rivela la verità.

Molti sono dunque i livelli di lettura che si declinano in maniera diversa a seconda del pubblico, della nazione, del luogo in cui avviene la rappresentazione. Un’operazione così complessa che si interroga sulla natura perversa dell’umano agire non può che essere scomoda, difficile, ostica, emotivamente provante, graffiante e non solo perché l’apparente sicurezza di questi bambini sul palco rivela una sconcertante fragilità del concetto in sé. La sicurezza tanto invocata dalle nostre società occidentali è una maschera, una falsità perché in ogni momento l’orrore può toccarci e colpirci, e questa prossimità con il male diventa assolutamente insopportabile se a renderla evidente sono dei bambini.

Five easy pieces sono cinque momenti della vicenda Dutroux: il padre dell’assassino che vorrebbe cambiare nome, che vive solitario e negletto per i peccati del figlio e che racconta del Congo, dei primi anni in Africa, di Lumumba di cui vorrebbe acquisire il nome per abbandonare quello detestato di Dutroux; il poliziotto che ha svolto le indagini, che racconta di come la polizia fosse detestata dalla popolazione, di come in quei giorni girare in divisa fosse pericoloso; dei genitori che attendono una telefonata e che vengono messi al corrente dell’orribile morte della figlia; della vittima che recita una sua lettera durante la prigionia; infine il funerale di una delle vittime. In scena la simulazione dei bambini che inscenano gli eventi inframmezzata dalle domande che essi si pongono e che vengono a loro poste. In video il doppio identico simulato dagli adulti.

In Five easy pieces i momenti di pathos, di commozione intensa e perfino di disagio sono innumerevoli (il passaggio in cui l’attore in scena chiede alla bambina di spogliarsi per affrontare la scena della vittima invoca tutta la perversione di un atto pedofilo, rende evidente il potere di costrizione/persuasione di questi soggetti, nonché mette il pubblico nella spiacevole posizione di osservatore di un atto potenzialmente scellerato).

I bambini non solo rappresentano il dolore che gli appartiene, ma si rendono interpreti anche di quello degli adulti e questo è sconcertante. Le parole colme di angoscia e sofferenza di un genitore che ha perso un figlio diventano devastanti se recitate da un bambino.

Five easy pieces dimostra una volta di più la capacità di Milo Rau di interrogare la società europea su quanto avviene al suo interno: Milo Rau affronta la realtà, la cronaca degli ultimi anni e ogni volta fa discutere e divide critica e pubblico. Che sia la vicenda di Brejvick, che sia la morte di Ceausescu, o il processo alle Pussy Riot, o il genocidio in Ruanda, ogni volta ci obbliga a fare i conti con noi stessi, a prendere posizione, ci invita a togliere il velo che continuiamo a calare sulla natura della nostra civiltà. Vogliamo crederci buoni, giusti e non lo siamo e dobbiamo necessariamente confrontarci con questa natura ipocrita che ci appartiene. Brejvick o Dutroux sono parte di noi, sono mostri partoriti da ciò che siamo come società, sono eruzioni vulcaniche che portano alla luce il magma che teniamo nascosto sotto la crosta di illusione di essere migliori e diversi.

Quello di Milo Rau è un teatro scomodo che possiede una grande potenza eversiva, ed è un teatro politico che obbliga ad affrontare la realtà. E’ uno sguardo lucido e tagliente come un bisturi. Si può essere d’accordo o meno con gli strumenti che utilizza ma non si può negare la necessità e l’utilità di questo teatro.

Ph: ©PhileDeprez

Milo Rau

Intervista a Milo Rau

Questa inteervista a Milo Rau è avvenuta a Ginevra nell’Agosto 2014 durante il Festival de la Batie

EP: devo fare una confessione: non ho ancora visto un delle tue istallazioni performative o azioni teatrali, lo vedrò stasera (Hate Radio Giovedì 4 settembre 2014 a Ginevra nella Salle des fetes du Lignon nda.) ma c’è qualcosa che mi intriga per come affronti direttamente la realtà contemporanea. Mi piacerebbe quindi comprendere meglio come si sviluppa e nasce il tuo theatre du reél. Ma partiamo dall’inizio: cos’è il theatre du reél?
MR: non credo che il mio sia propriamente Theatre du reél. Il mio teatro ha forti legami con la realtà ma non è Teatro documentario. Il mio non è un teatro che documenta la realtà, che la rappresenta è più il tentativo di fare una rappresentazione che ha una realtà essa stessa.
A questo proposito amo molto citare Jean-Luc Godard. Lui non parlava propriamente di teatro ma di realismo e diceva: ”Il cinema realista non è quello che rappresenta la realtà ma quello che si occupa della realtà della rappresentazione”, il che vuol dire che ciascun momento sulla scena deve essere reale. Questo è il Theatre du reél. Un teatro che ha un impatto forte come il reale, che è un intrusione forte nella società contemporanea. Alla fine credo sia questo che cerco.
EP: Per i Greci antichi Teatron era il luogo da cui si guarda il mondo, potremmo quindi dire che il Theatre du reél è un tentativo di recuperare l’etimo originario?
MR: È giusto. Ho sempre pensato al mio lavoro come a una risposta al teatro postmoderno che si interessa a decostruire la realtà e a dire che la rappresentazione è impossibile. Ecco io mi ritengo profondamente conservatore. Cerco di ritornare alle radici del teatro: un processo sulla scena davanti a un pubblico, un giudizio su un fatto di importanza morale capitale. Non non tentativo di rappresentare qualche cosa che è assente ma un tentativo di creare un qualcosa di poetico. E cerco di farlo attraverso differenti forme di rappresentazione. Cerco di fare dei processi sulla scena per esempio, un processo della durata di tre giorni (il processo di Mosca nda.) dove c’è una giuria e un verdetto, come nel teatro antico, una giuria che dice alla fine qual’è l’opinione pubblica. Con un finale aperto quindi. D’altra parte cerco anche di trovare un linguaggio che sia un po’ mitico a partire dall’autobiografia degli attori (Civil Wars l’ultimo spettacolo di Milo Rau nda.). Oppure in Hate Radio che è un tentativo di rappresentare una cosa che diviene in qualche modo mitica, ma non alla maniera surrealista, ma in modo molto chiaro, molto puro, molto semplice. È una cosa che quando ho cominciato, e ora sono più di dieci anni, tutti mi dicevano che non si poteva fare. All’inizio del XXI secolo non puoi fare un realismo di questo genere. Devi decostruire mi dicevano e questo è in effetti quello che ho imparato a scuola: a criticare e decostruire. Ma alla fine io credo che a furia di decostruire ci troviamo circondati da rovine e bisogna ricominciare a costruire qualche cosa. Ed è quello che cerco di fare con il mio teatro o nei miei film: di fare un’estetica molto semplice, che si occupa delle questioni fondamentali come la guerra, l’amore, la decisione. Ecco io credo che il teatro antico sia stato un teatro di decisione, dove si prendevano delle decisioni, un teatro di antagonismo.
EP: In effetti all’origine dell’Occidente c’è la guerra, il tribunale, pensiamo all’Orestea, e la violenza quella familiare e quella dello stato, della guerra.
MR: Sì esatto. La guerra. E la fatalità che introduce nella fatti umani qualche cosa come un ordine. Ecco io cerco di fare un ordine. È questo che cerco di fare. All’origine del teatro c’è il processo ma c’è anche il rito, un rito politico ma non nel senso fascista di oggi con un po’ di luci e di suoni che ci mette di fronte a qualcosa che dobbiamo sognare, ma un rito in piena coscienza un rito razionalista. Ecco cos’è il teatro per me: un rito razionalista.
EP: Mi puoi spiegare il concetto di reenactment? Leggendone la definizione mi sembra un applicazione teatrale del metodo scientifico dove si cerca di riprodurre il laboratorio qualcosa che è già avvenuto altrove per scoprirne il funzionamento. Riprodurre un avvenimento staccato dal flusso della storia è un modo per carpire e comprendere la verità nascosta? Qual è l’obbiettivo di un reenactment?
MR: Credo che in parte hai già dato una risposta. In un reenactment ci sono tre cose: la prima è la mia risposta all’estetica teatrale, dove c’è un’interdizione alla rappresentazione e al naturalismo che viene da Brecht. È un’idea molto tedesca, una paura del fascismo, una paura di fare un rito sulla scena ed è per questo che il teatro tedesco è così accademico. Ecco io quindi mi sono detto voglio fare il proibito per eccellenza: voglio fare del naturalismo puro che ricostruisca la verità. Allora sono arrivati e mi hanno detto che la verità non esiste, che Derrida ha detto questo e Foucault ha detto quell’altro, ma io ho deciso di farlo lo stesso come se in effetti ci fosse una verità. Questa è stata la mia prima idea. La seconda è che voglio comprendere, per esempio sull’esecuzione di Ceausescu (Les derniers jours de Nicolaj Ceausescu nda), voglio comprendere perché queste immagini che sono così importanti nella nostra società, come le immagini delle decapitazioni in Siria, dov’è la forza di queste immagini, che cosa c’è la dentro, come comunicano queste immagini, come comunicano i media e gli uomini. La terza questione è evidentemente politica: ripetere una situazione che la prima volta è stata fatale, ma che nella seconda è aperta per esempio il processo contro le Pussy Riot (Les proces de Moscou nda.) dove c’era una giuria popolare, l’accusa etc. E quando ho domandato all’avvocato delle Pussy Riot che era l’avvocato anche nel vero processo perché volesse partecipare al mio reenactment e lui mi ha risposto:” Sai perrché? Perchè è la prima volta che faccio quello che faccio in teatro”. In effetti in un vero processo si fa del teatro. Si sa da dove si parte ma non si sa come va a finire. Ed è questo che è sempre frainteso a proposito del reenactment che non è la rappresentazione di una verità storica ma è una riproduzione di una situazione, un situazione aperta. Come ha detto Clausewitz, nel momento in cui inizia la battaglia anche i piani più accurati vanno all’aria. Il teatro è così, e come una campagna militare, si fanno dei piani molto chiari e accurati e quando si comincia con le prove… Io comincio, metto un titolo, scrivo un soggetto, scrivo un copione e poi straccio tutto il primo giorno quando incominciano le prove. È sempre così.
EP: Visto il confronto così diretto con la realtà e il realismo, perché il teatro e non il cinema o, meglio, non solo il cinema?
MR: Il teatro è sempre un azzardo. E io stesso sono arrivato al teatro per caso. Io sono veramente interessato a scoprire in quale maniera si possa entrare in contatto con il pubblico. E poi bisogna dire che in Germania e nei paesi germanofoni più che in Francia o in Italia, il Teatro è l’arte numero uno. Il cinema tedesco è discutibile, la letteratura tedesca esiste, ma se tu vuoi fare veramente dell’arte, allora fai il teatro. Da noi è così, è qualcosa che è nella società, perché c’è dentro tutto il mondo e tutte le cose. Nel teatro tu hai la possibilità di fare della filosofia, dell’azione politica e il dramma, puoi fare tutto nel medesimo tempo. È per questo che c’è stata così tanta discussione sulle mie piecès, e non credo, o per lo meno non ne sono sicuro, che in un altro paese ci sarebbe stato così tanto dibattito su una piece teatrale.
Quello che amo veramente del teatro è che alla fine di ogni serata tu puoi veramente incontrare il pubblico, parlare con loro, cosa che ad esempio nel cinema non succede a meno che non si presenzi alla premiere. E poi c’è l’incertezza, ogni sera c’è sempre un po’ di terrore. Per esempio Hate Radio è stato rappresentato in quattro anni più di duecento volte eppure a ogni nuova serata non sai mai se tutto andrà bene, se qualcosa nella tecnica può non funzionare, se nel pubblico ci sarà gente a cui non piacerà lo spettacolo. Ecco il teatro è qualcosa che ricomincia tutti i giorni da capo. È terrorizzante ma nello stesso tempo è qualcosa che ti risveglia. Mi piace questo, di confrontarsi tutti giorni con qualcosa di nuovo e differente. Anche se quando hai finito le prove ti sei detto: “ecco è finito”, non è mai finito perché gli attori recitano ogni sera in una maniera differente, tu stesso cambi delle cose nel corso del tempo. È questo che mi piace del teatro.
EP: Un’azione artistica o teatrale non è sempre politica anche se non si occupa direttamente, palesemente di politica? Per esempio quando Duchamp crea il suo primo readymade mette in questione la totalità della realtà, era un’azione rivoluzionaria, era un’azione politica senza esserlo in maniera evidente. Lo stesso potremmo dire per il pezzo silenzioso di John Cage: integrare i suoni esclusi nel linguaggio musicale, far sì che ogni suono sia musica era un’azione fortemente politica anche se a essere messo in gioco era soltanto il linguaggio musicale. Perché quindi mettere in discussione la realtà in maniera così frontale?
MR: Potrei dirti che queste sono le cose che mi interessano. Per esempio le immagini dell’esecuzione di Ceausescu sono qualcosa che mi ha colpito da bambino in maniera indelebile e che sono tornate vent’anni più tardi. Per il Processo di Mosca ero più che altro interessato a portare un tribunale sulla scena, a fare un processo sulla scena e cercavo qualcosa che scatenasse un antagonismo forte. E questo forse un po’ il senso dell’azione politica così come io la concepisco: quando e se si crea un antagonismo. Sulla scena appaiono due cose che si considerano dalla loro parte entrambe come l’ortodossia. Da una parte e dall’altra, gli ortodossi e i dissidenti. È qualcosa di molto forte nella società russa e che non si possono riunire. Come nelle tragedie greche di cui abbiamo parlato prima. C’era la legge degli uomini e c’era la legge degli dei in perenne antagonismo, due forze che non si potevano conciliare. Due etiche inconciliabili. Come in Antigone c’è lei che vuol fare qualcosa per suo fratello perché vuole obbedire alle leggi degli dei e alle leggi delle emozioni, e c’è però la legge degli uomini che glielo impedisce. Ecco lì c’è un antagonismo che diviene fatale. È questo che mi interessa. Creare delle piece dove in effetti si scateni un antagonismo fatale. Per esempio in Hate Radio c’è la mondializzazione che è estremamente positiva, c’è un emissione radiofonica estremamente seguita e nello stesso tempo è un genocidio. Un genocidio in sé non è qualcosa che mi interessa perché è soltanto grande assassinio, è follia umana. Così come della musica divertente che ascolti alla radio. Ma quando metti le due cose insieme ecco lì c’è un antagonismo, un qualcosa che non va. È questo che mi interessa. E a ben pensarci in effetti c’è qualcosa dell’orinatoio di Duchamp in questo, dell’antagonismo nella realtà. C’è però da dire che il teatro non è un arte plastica, è un arte vivente e così io cerco l’antagonismo nell’umano. Non so se sia politico, o populista questo cercare a tutti i costi il confronto, ma io credo che quando si crea un antagonismo lì c’è qualcosa che nasce. È questo che mi interessa. Quando ci sono delle persone che non possono mettersi d’accordo lì c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va quando si mette Breivik sulla scena (The Breivik’s statement nda.) ma è questo che mi interessa: quando c’è qualcosa di veramente, profondamente discutibile. Quando si fa di un genocidio uno spettacolo radiofonico questo è qualcosa di assolutamente discutibile. Di fronte a queste cose veramente ci si domanda: “ma perché?”.

Milo Rau è nato a Berna nel 1977 ed è uno degli esponenti più rappresentativi di quello che è chiamato teatro documentario o Theatre du reel. Tra i suoi lavori che sono stati presentati nei più prestigiosi teatri e festival teatrali europei ricordiamo: Les derniers jours de Ceausescu, City of Changes che ha creato grande scalpore in Svizzera trattando il tema dell’immigrazione, Hate Radio, il processo di Mosca, Breivik’s Statement, e l’ultimo suo lavoro Civil Wars.
Noi l’abbiamo incontrato a Ginevra durante il festival de la Batie dove ci ha concesso questa piccola ma interessante intervista. In Italia verrà per la prima volta il prossimo 19 e 20 settembre 2014 a Terni.