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ORCHIDEE di Pippo Delbono

Orchidee di Pippo Delbono si potrebbe sottotitolarlo: del vero e del falso. Come dice lo stesso regista l’orchidea è un fiore la cui bellezza non si comprende mai se sia vera o di plastica.

Artificio o verità? È un dilemma amletico entro cui il teatro si è dibattuto e si dibatte insofferente da sempre ma con particolare accanimento negli ultimi cento cinquant’anni. Nel caso di Pippo Delbono la domanda è ancor più lecita e ricordo di essermela posta già nel 1999 quando ebbi la ventura di fargli da assistente durante la Biennale di Venezia in cui mise in scena il suo Her Bijit.

Prima di incontrare Pippo mi chiedevo se dietro all’uso di barboni, ragazzi down, emarginati di ogni sorta, per razza, per sesso, per malattia, non ci fosse un certo compiacimento o, al peggio, una certa furbizia. Ero molto dubbioso sull’esperienza che stavo andando a compiere e, lo confesso, avevo non pochi pregiudizi sul metodo di Pippo, perché pensavo, e per certi versi lo penso tutt’ora, che si possa raggiungere la potenza del teatro anche e soprattutto con i professionisti della scena, perché la differenza vera la fa, come in tutte le cose, la consapevolezza del gesto e della funzione.

Pensavo che, senza la consapevolezza, ci fosse sempre la manipolazione del regista che usa i materiale e le persone al fine di creare un’opera, e che quindi, condividere la consapevolezza della creazione con i propri compagni di viaggio fosse un valore aggiunto sulla scena e non un limite.

Poi ho incontrato Pippo e con lui Bobò, Nelson, Mr Puma, Pepe Robledo, Gianluca e molti altri che presero parte allo spettacolo, i profughi, i bambini Rom. Mi ritrovai per circa un mese in un mondo eterogeneo, sofferente e nello stesso tempo gioioso, un vortice di persone ed emozioni spesso caotiche e incontrollabili, ma di una ricchezza senza pari. E il centro di questo vortice era Pippo che con la sua umanità teneva insieme tutte queste differenze, le amava, le comprendeva con una compassione commovente. Era lui l’unico che riusciva a comunicare con Bobò, che calmava gli eccessi di Mr Puma, che tranquillizzava Gianluca, o le stranezze eccentriche di Nelson. Non vi era né sfruttamento, né manipolazione, c’era infinito amore. E la capacità di Pippo di trarre immagini da quel calderone ribollente era imponente, come di chi governa la nave sull’orlo del maelstrom.

Un giorno ricordo che riaccompagnandolo a casa, in una lunga camminata per le calli, che dall’Arsenale ci riportava a Santa Maria del Giglio, gli chiesi perché avesse deciso di fare il suo teatro con queste persone e non con dei professionisti. Lo chiedevo da pischello che si affacciava alla professione, con l’intenzione di capire e carpire, non per giudicare. Lui mi rispose che non era stata una vera scelta, era stato un bisogno, quello di circondarsi di persone che soffrivano come e forse più di lui, e che solo così riusciva a trovare la forza di fare nonostante la malattia e la difficoltà del mestiere.

Qualsiasi cosa si possa dire delle opere di Pippo Delbono, e per questa la critica ha usato anche parole forti come dittatura delle emozioni, un lavoro furbo, sconnesso e sconsiderato, un raccontarsi senza costrutto, ecco io penso che in fondo ci sia sempre la verità di quella frase che mi disse tanti anni fa: il bisogno di sfuggire al dolore, alla malattia, alla sofferenza e che questo sia vero e umano e che questo sia teatro e ci sia “la” funzione del teatro dalle origini. La tragedia era lo strazio dell’assassinio, del destino avverso che l’eroe non può combattere, della solitudine dello sconfitto di fronte alla vita che scorre e lo scioglie nel suo inevitabile fluire. Certo la tragedia era meno personale dei racconti di Pippo, ma è pur sempre una tragedia raccontata con personaggi tragici e sofferenti. Ho sempre considerato Pippo Delbono uno dei miei maestri perché mi ha insegnato a trarre dal caos un filo sottile, a raccontare per immagini, a costruire percorsi non lineari e soprattutto mi insegnò l’umanità e la compassione. Per questo non smetterò di ringraziarlo e non riuscirà mai a importarmi se vedo un suo lavoro non proprio riuscito, perché sempre leggerò la grande umanità che lo tiene insieme e non riesco proprio a considerarli errori, soprattutto in un teatro italiano pieno di inutili spettacoli colmi di odiata finzione che vengono spacciati per avanguardia. Per lo meno nelle opere di Pippo si respira vero odore di umanità.