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Livia Ferracchiati

PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE di Livia Ferracchiati

Mi siedo sulle gradinate delle Tese dei Soppalchi della Biennale Teatro di Venezia e la prima cosa che penso è: “Livia Ferracchiati, stupiscimi!” Senza nulla togliere a Todi is a small town in the center of Italy, certo non mi ha convinto al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ebbene, questo Peter Pan guarda sotto le gonne di Livia Ferracchiati, primo capitolo della trilogia sull’identità a cui seguirà per questa Biennale Stabat Mater, mi ha stupito e sarà mio impegno spiegarne le ragioni.

Il palco è uno spazio vuoto, reti a losanghe di ferro pendono fino a terra a ridosso del fondale e dalle americane (queste ultime a disegnare delle volute sospese nell’aria) come a delimitare un giardino che fin dall’inizio si presenta come un giardino interiore. Siamo dentro la testa di Peter e lo saremo fino alla fine. Anche quando il giardino appare come uno spazio pubblico, i giardini di Kensigton ad esempio (per restare in tema e dove campeggia a imperitura memoria la statua dell’eterno fanciullo) o il parco del quartiere dietro casa dove avvengono i primi incontri e scontri tra bambini al di fuori del controllo degli adulti, l’assenza di vita che si respira (la mancanza di schiamazzi, di grida, di palloni contesi e di rumorosa gioia) e l’unicità della relazione tra Peter e Wendy sono segno evidente di una dimensione tutta mentale, tanto che i genitori sono voci fuori campo, voci che rimbombano nel silenzio, che tormentano pur con le migliori intenzioni.

Quella di Peter è una famiglia borghese come tante, che fatica ad accettare i comportamenti di una bambina di 11 anni che sta affrontando il passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza, che vorrebbe vederla sempre come la piccola di casa con quel vestitino rosa, che le sta tanto bene, che ne è il marchio di fabbrica.

La distanza tra la visione familiare e la dimensione intima di Peter è da subito incolmabile, un rapporto all’insegna dell’incomunicabilità. La vestizione di Peter che apre lo spettacolo è una danza che è una lotta con il vestito e in fondo con la propria pelle, perché Peter è un adolescente costretto nel corpo di una bambina e la trasformazione in atto è ben più lacerante di quanto possano sospettare mamma e papà.

Gli incontri nel parco con Wendy, una ragazzina di 13 anni che gioca a fare la grande (fuma ma non aspira, però si vanta di avere la tosse), segnano i vari passaggi della mutazione in corso, con un progressivo spogliarsi dei giochi da bambino (Wendy con il suo hula hoop e Peter con il pallone da calcio che sogna di essere Baggio) verso la scoperta graduale della sessualità e di pulsioni sempre più incontenibili. Ogni appuntamento è sostenuto da un dialogo brillante, a volte comico, ma sempre intenso e vero, con gli atteggiamenti, gli imbarazzi, la curiosità, le sfide, le provocazioni che emergono senza mai apparire falsi. Linda Caridi (Wendy) e Alice Raffaelli (Peter) sono due giovani attrici di talento che qui hanno compiuto con successo un percorso di immedesimazione col personaggio (che sa molto di actors studio), con un lavoro sulla gestualità e sul corpo che riesce a restituire l’ingenuità e la freschezza di due ragazzine poco più che bambine.

Il testo drammaturgico (firmato a quattro mani da Greta Cappelletti e Livia Ferracchiati) fa il resto, fotografando una relazione quanto mai realistica, dove i riferimenti al periodo storico sono così poco invadenti (un walkman non fa anni novanta come una rondine non fa primavera) che risultano ininfluenti nella creazione di uno spazio senza tempo in cui tutti possano riconoscersi. E’ così che Livia Ferracchiati ci fa compiere un viaggio a ritroso nella nostra vita passata, ci trasporta in quel delicato momento in cui anche per ciascuno di noi tutto è cambiato per sempre e non è accaduto senza sofferenza e senza lacerazioni, anche se la scoperta dell’identità sessuale non si è scontrata con una diversità di genere.

E’ uno spazio composito quello di Peter Pan guarda sotto le gonne, in cui si sviluppa una molteplicità di piani narrativi, di sequenze spezzate e rimaste forse incagliate in quella rete che sovrasta la scena e che in qualche modo la racchiude, una rete che immobilizza emozioni e ricordi e li relega nell’inconscio, che è luogo del doppio, il regno dell’ombra, in cui i confini tra realtà e immaginazione sono labili, inconsistenti.

Ed è il doppio che entra in scena (interpretato da Luciano Ariel Lanza), l’ombra che James Matthew Barrie fa letteralmente staccare dal corpo di Peter Pan e alla quale l’eterno bambino cerca di ricongiungersi. L’ombra di Peter è la parte non riconosciuta di sè, l’altra faccia di un io diviso, il lato oscuro, è Pan: il dio-capro che governa la natura selvatica e la sessualità. James Hillman (psicologo junghiano e filosofo statunitense) nel suo Saggio su Pan dice che “il più forte desiderio della natura ‘dentro di noi’ è di unirsi con se stessa nella consapevolezza.” Questa lezione è certo presente in questa rilettura della favola moderna di Barrie. L’ombra in Peter Pan guarda sotto le gonne è la parte adulta di Peter, detentrice di una virilità assente nel suo corpo di bambina. La relazione che Peter instaura con il proprio doppio maschile inizia come un gioco di specchi (che sa molto di danza hip hop, sviluppando anche in questo una contaminazione di linguaggi funzionale alla scena) per diventare pian piano qualcos’altro: un vero e proprio conflitto in cui si sviluppa un avvicendarsi di connessioni e sconnessioni tra corpo e anima, tanto che le reazioni agli eventi reali divergono nell’atteggiamento, ad esempio quando Wendy per una scommessa persa si deve togliere le mutandine e mostrarsi a Peter, o convergono lasciando emergere la vera identità, il lato oscuro. Ed è nella dimensione privata e intima di una camera da letto che non ha bisogno di arredi nè di una porta (già dalle prime battute sappiamo che è chiusa, come lamentano i genitori di Peter) per emergere dallo spazio vuoto, che il conflitto diventa sempre più duro e dove le pulsioni trattenute nel mondo reale hanno uno sfogo masturbatorio selvaggio che è in tutto e per tutto maschile. La cameretta è diventata il regno di Pan, ma Pan vuole uscire dalla cameretta.

A stemperare quanto accade nel mondo di Peter, a farlo in qualche modo assimilare senza traumi, Livia Ferracchiati inserisce un altro piano narrativo che ha a sua volta una propria dimensione spaziale e lo fa tramite il personaggio di Tinker Bell (letteralmente Rattoppa Campane), più noto a noi italiani con il nome di Trilly o Campanellino. Tinker Bell (interpretata da una sorprendete Chiara Leoncini) è una fata con ali posticce e senza bacchetta, sboccata e dispettosa che, senza peli sulla lingua, dice ciò che pensa nel momento stesso in cui lo pensa, perché essendo così piccola può ospitare un solo sentimento per volta. Una fata che è tramite tra due mondi, quello universale (il pubblico) e quello privato (Peter), ma che li mette in contatto senza filtri e senza tabù. E’ Tinker Bell a spiegare a Peter (e al pubblico) la sua natura di mezzo e mezzo (“non esattamente una femmina, ma precisamente un maschio”), aiutando il protagonista a “rattoppare” se stesso.

Livia Ferracchiati con Peter Pan guarda sotto le gonne, attraverso le analogie con il personaggio creato da J. M. Barrie e una struttura drammaturgica di grande effetto, ha realizzato uno spettacolo intenso e convincente sul tema dell’identità di genere, senza mai suonare retorico o banale.

Nicola Candreva

Maria Grazia Cipriani

PINOCCHIO di Maria Grazia Cipriani

Secondo capitolo della rassegna dedicata a Maria Grazia Cipriani, Pinocchio (2006) è uno spettacolo perfetto che segna con decisione un passaggio rispetto a Biancaneve, pur mantenendo vivo l’incontro tra poesia e crudeltà, tra sogno e realtà già presenti nell’opera manifesto del 1983.

Il palco del Pinocchio di Maria Grazia Cipriani è un’arena semicircolare delimitata da quinte armate in cui si aprono porte e finestre che collegano il mondo di fuori con il mondo di dentro, con l’inconscio di Pinocchio, con i suoi desideri e le sue paure. È una plaza de toros polverosa, sporca, intrisa di sangue e sudore. Il domatore fa schioccare la frusta più e più volte, con fragore e violenza, mentre Pinocchio riprende a correre e a saltare disegnando sulla scena il cerchio immaginario dell’eterna ripetizione, che è anche la meravigliosa condanna del teatro. È un Pinocchio che non ha bisogno di maschere quello di Giandomenico Cupaiolo, salvo il naso posticcio che gli viene gettato addosso quasi con spregio. Dalla porta centrale una masnada di maschere irrompe sulla scena come una danza macabra: ci sono il gatto e la volpe, ci sono due coniglietti, la lumachina e la fatina, avanzano con i movimenti di marionette guidate dal fato, non c’è bisogno di fili nè di un demiurgo. La morte è già di scena senza bisogno di presentazioni. In pochi passaggi siamo dentro la storia, meglio ancora, nella mente di Pinocchio che è già ventre della balena, e come fa percepire il suono amplificato del gocciolio di un rubinetto chiuso male, siamo nel bel mezzo di un incubo: quello del Gran Teatro di Mangiafuoco. A questa situazione iniziale si tornerà nel prefinale a chiudere il cerchio, mentre a livello sonoro (magistralmente curato da Hubert Westkemper) quel gocciolio di un rubinetto avrà a tutto tondo le dimensioni sensoriali del ventre della balena.

Se tutto accade nella mente di Pinocchio, l’unico dialogo possibile è quello con la fatina dai capelli turchini, che però a sua volta scaturisce dall’inconscio ed è condannata a morire e rinascere in eterno nella mente del burattino (“Rivivisci” singhiozza Pinocchio inginocchiato su una lapide fatta solo di polvere). Tutte le altre relazioni non sfociano mai in un confronto verbale, compresa quella con il gatto e la volpe nell’episodio degli zecchini d’oro che diventa un esilarante gioco dei mimi, dove Pinocchio interpreta a suo discapito la pantomima e appare come solo artefice dell’inganno, vittima dei propri incubi e delle proprie tentazioni, per diventare davanti al guidice l’unico colpevole. Anche l’incontro con Lucignolo, che lo spinge a deviare il cammino dalla retta via per seguire il miraggio del Paese dei Balocchi, è un monologo in cui Pinocchio si lascia pian piano convincere dalla tentazione fino al totale autoconvincimento (l’esito è però già preannunciato dal rimbalzo ripetuto di una pallina in funzione di memento mori e dall’apparizione di un Mangiafuoco trionfante alle sue spalle). Una giacca vecchia e logora è invece l’unico segno della presenza di Geppetto, metafora del bisogno e del senso di colpa. Siamo dentro al sogno dall’inizio alla fine, non c’è spazio per un genitore in carne ed ossa.

Nella visione di Maria Grazia Cipriani è un destino segnato fin dall’inizio quello di Pinocchio, già scritto in quel desiderio di Geppetto di fabbricare un burattino di legno che “deve ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali”, scritto nella polvere dell’arena del circo da cui non può uscire, in cui è condannato a ripetere e a ripetersi, a rappresentarsi all’infinito. Così il viaggio nella favola di Pinocchio diventa metafora del teatro e il finale in cui Pinocchio riconquista il proprio corpo, mentre il suo doppio Lucignolo con la testa di asino esala l’ultimo respiro, non è una vera liberazione dalla prigione del circo di Mangiafuoco, è un’uscita di scena provvisoria da una circolarità senza la reale possibilità di una via di fuga.

Pinocchio di Maria Grazia Cipriani è un autentico capolavoro di drammaturgia, frutto del lavoro di una compagnia (il Teatro del Carretto di Lucca) che alla povertà di risorse risponde con abilità tecnica, sapienza artigianale, qualità attorica e un lavoro di ricerca che scava letteralmente nelle profondità dell’animo umano.

Nicola Candreva

Ph: Filippo Brancoli Pantera

Maria Grazia Cipriani

BIANCANEVE di Maria Grazia Cipriani

Il viaggio ripercorso dalla Biennale Teatro nel mondo favolistico di Maria Grazia Cipriani e del suo Teatro del Carretto, nato dal sodalizio con lo scenografo e costumista Graziano Gregori, inizia con la Biancaneve del 1983, anno di nascita della compagnia e prima tappa di questo trittico di opere che attraversa tre decenni e che comprende Pinocchio e Le mille e una notte.

Biancaneve di Maria Grazia Cipriani è uno spettacolo che da più di trent’anni affascina il pubblico di tutto il mondo al punto che sembra di tornar bambini. Ci si emoziona davanti al teatro di burattini che apre le ante agli artifici delle sue macchine, tra quinte mobili, sipari in miniatura, effetti sonori e illuminotecnici e una profondità di campo che si addentra fin nel cuore del bosco, rivelando alle spalle di un microscopico burattino curato in ogni aspetto, dalle proporzioni al costume, la macroscopica presenza sullo sfondo di un lupo affamato che avanza seguendo le tracce della preda, mentre aleggia nella sala l’aria pucciniana “Sola… perduta e abbandonata” che prelude alla morte nel deserto della Louisiana di Manon Lescaut. L’incombere della morte si respira come un leitmotiv.

Il gioco delle proporzioni inserito in un contesto di cura maniacale dei dettagli regala sorprese anche dove sembrerebbe impossibile, data la conoscenza universale della favola dei fratelli Grimm (sebbene la versione Disney, ben più nota, ne abbia edulcorato gli aspetti più inquietanti). E così, mentre nella scatola scenica Biancaneve si addormenta in uno dei sette lettini, dopo aver mangiato e bevuto da una tavola in miniatura perfettamente imbandita, l’ingresso dei nani avviene, da una quinta del palcoscenico, su un trenino di monocicli legati tra loro e sono sette nani di cartapesta a grandezza naturale che, guidati da tiranti, entrano nel teatrino per riapparire poco dopo come minuscoli burattini. O ancora, la perfida matrigna si interroga su chi sia la più bella del reame in una scatola di specchi che moltiplica la sua piccola immagine, ma la sua ira è di carne e ossa e le dimensioni sono quelle della bravissima Maria Teresa Elena, unica attrice in scena, che appare gigantesca quando esce dal teatrino con l’espressività immobile di una maschera solo dipinta, con gli occhi di bambola spalancati, senza un battito di ciglia. Ecco che la regina cattiva appare più macchina dell’intero ingranaggio che si anima alle sue spalle, con una gestualità codificata come in una danza rituale di sapore orientale e alla seconda uscita ha già perso la sua carica orrorifica strappando sorrisi. Poi quando si arma di una maschera, questa volta di cartapesta, per diventare la buona vecchietta che porta i doni a Biancaneve (e sono doni minuscoli che porge alla marionetta all’interno del teatrino) il gioco è fatto, il personaggio ti ha conquistato e diventa la tua guida nei vari passaggi della favola, attraverso il suo travestimento e le sue azioni sempre identiche. La regina è però una guida cattiva e interferendo nella vita idilliaca di Biancaneve, che fa le pulizie domestiche in attesa dei sette nani di ritorno dal lavoro, si pone in mezzo tra il pubblico e la scena indossando le vesti, tanto care alla sensibiltà del romanticismo tedesco nei confronti dell’inanimato, di un autentico automa. Quello che accade all’interno del teatrino, grazie agli effetti scenici e all’abilità tecnica dei manovratori (Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani e Andrea Jonathan Bertolai), è invece di segno opposto: il mondo dentro la fiaba si colora di un realismo più autentico del vero, come la grotta dei minatori ricostruita con tutte le attività che vi si svolgono, con micoscopici picconi, scale e carriole. Un piccolo cinematografo in presa diretta che regala un mondo di sogno, popolato di angeli, come i nani, e demoni, come la marionetta della strega quando, su un piatto di grandezza sproporzionata a sottolineare l’importanza dell’oggetto, divora le interiora rosso sangue del capretto pensando di mangiare quelle di Biancaneve.

Tutto è doppio, ma la confusione tra vero e falso è tenuta sotto controllo da uno sguardo sempre ironico che limita la forza dirompente dell’incubo, così come la voce narrante (off) è la voce calma e rassicurante di una mamma che racconta una storia ai bambini per farli addormentare, non senza aver lasciato un segno.

Un utilizzo di grande effetto di scelte musicali che spaziano dalla sinfonica alla lirica, e mai a caso, regala perle come il ballo tra il principe e Biancaneve sotto le note di Madama Butterfly, che riesce a instillare un senso di precarietà anche al necessario lieto fine della favola.

Una macchina scenica perfetta questa Biancaneve di Maria Grazia Cipriani che dopo oltre trent’anni non ha perso smalto e non smette di far sognare.

Nicola Candreva

ph. @Tommaso Le Pera

Maja Kleczewska

THE RAGE di Maja Kleczewska – Leone d’argento 2017

Recensire The Rage di Maja Kleczewska, Leone d’argento alla Biennale Teatro, è una vera e propria impresa. È estremamente arduo rendere a parole un teatro di estrema complessità che tende all’abnorme. È come un’esplosione che genera onde che si espandono sempre più lontano ridondando la propria potenza di propagazione. Un teatro eccessivo come i testi di Elfride Jelinek e una tale dismisura è difficile da raccontare.

Assistere a The Rage è stato difficoltoso e non solo per la durata (165 min.). Uno spettacolo molto parlato con i sottotitoli disposti ai lati della scena rendendo difficile seguirli senza abbandonare la visione. Da ultimo una scena occupata per intero da svariate immagini simultanee sia sugli schermi che agite dagli attori dal vivo. Uno spettacolo quello di Maja Kleczewska che obbliga lo spettatore a crearsi un proprio montaggio delle attrazioni, ed è pertanto diverso per ognuno. Questa modalità mi affascina tremendamente perché fomenta una percezione attiva, partecipata, creativa. Lo spettatore opera scelte, si fa suggestionare dalla marea montante sulla scena, coglie frammenti di un universo in formazione, monta e smonta la sua propria visione.

Ma The Rage non è solo questo. È una cattedrale della composizione scenica, una vera e propria sinfonia degli elementi che compongono il linguaggio teatrale. Video, corpo scenico, suono (spesso spazializzato), uso degli oggetti, scenografie, illuminotecnica. Tutto concorre a creare un mondo. Quella di Maja Kleczewska è una regia totale e di grande maestria. La Polonia è stata nel Novecento una fucina di grandi registi. Non solo Kantor e Grotowski, ma anche Warlikowski, e Lupa, per citare i più noti. Maja Kleczewska è erede legittima di questo grande teatro. Si è molto accennato all’influsso di Kantor che traspare solo da un punto di vista visivo, nell’impiego del cardinale e del grande crocefisso che richiamano un immaginario, ma per quanto riguarda recitazione e l’uso degli oggetti di scena siamo molto lontani dal mondo teatrale kantoriano. Forse, per quanto riguarda la recitazione, siamo molto più vicini a Grotowski.

The Rage è una bestemmia, contro Dio e l’uso di Dio da parte degli uomini, che ne fanno strumento di violenza. È strumento di denuncia, un grido a sua volta rabbioso, che ben si intreccia con il testo della Jelinek che torna e ritorna, ribadisce, scandaglia furiosamente, eccede in verbosità come se non trovasse risposta a tutte le domande che pone. La rabbia è evocata in ogni dove, nella politica, nell’estremismo religioso, nelle vittime, in chi subisce e in chi offende, nelle chiese, nei lavoratori, nell’estrema destra come tra i moderati. La rabbia è semplicemente di tutti, è elemento costituente di una società che non trova altre aspirazioni, che non costruisce sogni se non di morte e distruzione anche auto inflitte.

The Rage nasce dalla violenza dell’attentato a Charlie Hebdo e dagli eventi del Bataclan. Indaga la rabbia che genera questi eventi e che segue gli accadimenti.

Si parte in una sorta di studio televisivo, dove nascono dibattiti e telegiornali che trattano della rabbia: immagini di clandestini che cercano di superare le barriere, di poliziotti che manganellano folle di manifestanti, diagrammi di flussi migratori. Ma presto questa modalità sfugge di mano, la scena deborda in platea, sugli schermi, in ogni angolo del teatro. Le scene sono simultanee come detto, ed è difficile da tenere a mente ogni cosa che avviene. Non è nemmeno necessario in una recensione. Basterebbe riuscire a evocare la bulimia di icone di violenza a volte esplodenti, come colpi di Kalashnikov che vengono effettivamente sparati, a volte più soffici e sottili, altre più simboliche e mediate. Una ragazza si strafoga di hamburger con grande gusto e piacere fino a svenire mentre una telecamera rimanda la sua bocca piena di cibo mal masticato su un grande schermo; una donna vestita bizzarramente come la Effie di Hunger Games, vaga sulla piattaforma girevole con due affilatissimi coltelli; un crocefisso viene annegato in una piscina, un cardinale si aggira sul fondo della scena, e così via. Le immagini proliferano come una cultura di muffe e di spore.

La seconda metà dello spettacolo prende poi una strada diversa. Le scene si fanno più focalizzate in un centro, partecipate da tutti gli attori, si individua un obbiettivo verso cui ci si indirizza. Sono tutte molto forti: una donna in elegante abito rosso che si arrampica su un quarto di bue appeso al soffitto; l’intero gruppo di attori a cui si unisce un nano con la gorgiera e palloncini dorati che ridono, ridono a crepapelle, e le risate sono amplificate e rigettate dalle casse come eco inestinguibile, sono le risate di tutti i morti e che non finiranno mai; l’elenco delle vittime del Bataclan, e così via. I finali si susseguono perché non c’è mai una fine.

È difficile raccontare uno spettacolo così debordante che tracima dal palcoscenico come un’inondazione. La rabbia è ovunque e dappertutto. Forse le parole più giuste le ha pronunciate proprio Maja Kleczewska. «The Rage è un requiem per l’Europa, per questo continente tragico, indifferente, indifeso e vuoto. Questo vuoto è riempito dalla rabbia».

Ph @Natalia Kabanow

Nathalie Beasse

ROSES di Nathalie Beasse

Chi è Riccardo? Al calar delle luci di sala, Roses di Nathalie Bèasse conduce subito là dove vuole, in quel luogo fisico che è la scena dove la sospensione del tempo e dello spazio si attuano attraverso una delicatezza di immagine che cela il duro lavoro dell’attore nel controllo del proprio corpo. Una ouverture che già mette in campo uno degli aspetti che ritengo più rilevanti del teatro della Bèasse: la leggerezza. E’ una leggerezza che non toglie nulla alla gravità, la sfida solo nella percezione dello spettatore: è una leggerezza riconquistata, come un mare in tempesta che si placa dopo aver travolto ogni cosa quando inizia a restituire, uno alla volta, i frutti della distruzione.

Una manciata di minuti in cui si fa vuoto, ed è un vuoto che già parla, e le luci di sala si riaccendono. Un grande tavolo, un enorme drappo di velluto grigio, calici di vino rosso, sedie, bauli di costumi e di attrezzeria scenica e luci da set fotografico sono gli elementi a vista. Si gioca a carte scoperte, come dire. Tutto ciò che serve a comporre e a scomporre la scena è a portata di mano. Mettere a nudo il teatro è togliere ossigeno alla rappresentazione, chiuderla con tutti i suoi alibi fuori dalla porta.

Gli attori, mescolati tra il pubblico, raggiungono il palco e si scambiano un brindisi di benvenuto. Un incontro familiare che segna il vero punto di inizio, che ci riporta in quella dimensione della quotidianità che è campo di indagine privilegiato di Nathalie Bèasse. Qui non si rappresenta il Riccardo III di Shakespeare, qui si indaga la natura umana, qui ci facciamo delle domande su noi stessi.

Roses di Nathalie Bèasse, il cui titolo si rifà evidentemente alla sanguinosa lotta dinastica della Guerra delle Due Rose tra la casa degli York e quella dei Lancaster per la corona d’Inghilterra, substrato storico nel quale Shakespeare pianta radici per dare alla luce il suo Riccardo III (riprendendo del personaggio storico poco più del nome), è un tiro alla fune tra leggerezza e forza di gravità, tra il gioco del teatro e quello della vita, in un continuo scambio di ruoli tra i bravissimi attori, indomiti nel loro frenetico cambiar pelle attraverso continui cambi costume a vista.

Non c’è un Riccardo III, ce ne sono quattro che in momenti diversi dello spettacolo rispondono alla domanda: “Chi è Riccardo?” E ogni volta questa domanda ci riporta alla realtà, spezzando con ironia l’inganno della scena (che ci vede spettatori senza alcun ruolo attivo) e riportandoci al tavolo della discussione: la ricerca sul personaggio, attraverso l’analisi del testo e il lavoro dell’attore, si è tramutata in ricerca del personaggio, con uno slittamento di senso carico di ironia. Ed è la natura critica e autoironica di questo fare teatro che continua a svelarsi, ad autodenunciare se stesso, che conquista forse di più nel lavoro di Nathalie Bèasse. La capacità di passare con leggerezza, senza forzature, da un’azione scenica di rara poesia al dibattito, trascinando l’attenzione dello spettatore, attaverso il frammentato racconto del trionfo e della caduta di Riccardo III, fino alla follia dell’interrogatorio nel totale sdoppiamento fisico tra Riccardo e la propria coscienza.

In continua mutazione, la scena prende forme curate in ogni dettaglio, dall’aspetto scenografico a quello coreografico, alla musica e alle luci, il cui impianto delicato resistuisce un’atmosfera da sala prove quasi sempre presente, a ricordarci dove siamo.

Secondo appuntamento dei quattro dedicati dalla Biennale Teatro alla regista francese, Roses di Nathalie Bèasse al Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia è un gioiello di 80 minuti in cui nulla è fuori posto.

Nicola Candreva

Ph: © Wilfried Thierry

Nathalie Bèasse

LE BRUIT DES ARBRES QUI TOMBENT di Nathalie Bèasse

Quello di Nathalie Bèasse è un universo teatrale a bolle. Il suo non è un racconto univoco, lineare ma uno spargere frammenti di uno specchio, pezzi di puzzle di cui, come nel libro di George Perec La vita istruzioni per l’uso, manca sempre un elemento per completarlo. L’immagine completa ci sfuggirà sempre.

Come afferma la stessa Nathalie Bèasse: «esploriamo senza rendere le cose leggibili». E così si ha in un primo tempo l’idea di confusione, di trovarsi di fronte a un oggetto sconclusionato, fumoso, che via via chiarisce la sua natura: come gli agenti in incognito ne Un oscuro scrutare di Philip Dick, lo spettacolo indossa una tuta disindividuante, lasciando trasparire di sé mille immagini sovraimpresse nascondendo la sua vera natura. Proteo redivivo.

La Biennale Teatro dedica a Nathalie Bèasse una piccola personale di quattro lavori, Le bruit des arbres qui tombent, Roses, Tout semblait immobile, Happy Child.

Il titolo del primo spettacolo in scena ieri sera al Teatro Piccolo Arsenale è Le Bruit des arbres qui tombent, ed è preso da una raccolta di poesie e canti di Indiani d’America, e letteralmente significa: il rumore degli alberi che cadono. Un titolo che sussurra parole di morte, un franare inevitabile tra rumori di schiocchi di rami infranti e frusciar di foglie. E questo sussurrar parole in un mondo perennemente sul filo del rasoio tra la vita e la morte incombente si ha da subito con la prima immagine: un enorme telo nero mosso dai quattro attori agli angoli del palco, che aleggia ora rabbioso ora soave, oscurando le luci, nero sipario, creatura viva e terrifica come il fumo nero di Lost mentre si diffonde l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler già tema de La morte a Venezia di Luchino Visconti.

Da questo incipit pieno di dolce tristezza e incombente ineluttabilità si dipana un universo di immagini che i quattro attori in scena (Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Erik Gerken, Clèment Goupille) raccontano usando immagini ora lievi, ora divertenti, o struggenti e melanconiche, attraverso lingue diverse (Arabo, Inglese, Danese, Francese e qualcuna che forse non ho riconosciuto) piccoli frammenti narrativi.

Si racconta di una famiglia povera costretta a vivere insieme e che sogna di poter vivere finalmente separati; si enumera la genealogia di Gesù mentre un attore si spoglia e viene inondato d’acqua, – la genealogia si disperde, così come l’acqua -; si racconta di una lince che vivendo impara e quel che impara scompare con lei. Ma i racconti non sono fatti di sole parole, le immagini da sole si snocciolano e snodano sul palco costruendo un labirinto figurativo dove ritorna l’immagine famigliare, la morte e la solitudine. Bellissima quella dei vestiti gettati furiosamente in alto che si gonfiano quel tanto da far intravedere una figura umana che svanisce in un attimo, o come quella dell’uomo albero che vaga sul palco alla ricerca di radici. Molte sono le immagini e non serve qui descriverle ed elencarle tutte. Basta un accenno per comprendere il mondo narrativo-compositivo di Nathalie Bèasse, un universo delicato e deciso, che parla degli argomenti ultimi, di vita e di morte, di solitudine e melanconia, di struggimento che sorge dalla ricerca affannata di noi tutti di un oggetto d’amore che ci scaldi il cuore nel breve istante che ci separa dalla morte.

Il merito di Nathalie Bèasse è di usare un tono lieve e leggero, mai asseverativo, totalmente fuori dal mondo della rappresentazione e che evoca il mondo di François Tanguy e del Theatre du Radeau.

A tal proposito vorrei terminare questo piccolo racconto con un omaggio a un attore, Erik Gerken, che in un lontano passato insegnò moltissimo a me e ai miei compagni di viaggio nel periodo di residenza a La Fonderie di Les Mans. Ricordo questo straordinario attore che con estrema umiltà ci consigliava strade e percorsi possibili, insegnandoci esercizi di training, mostrandoci possibili interazioni con gli oggetti di scena. Lo ricordo in scena durante Orpheon, proprio durante la Biennale teatro del 1999 quando ci conoscemmo e per un breve tratto di strada ebbi l’onore della sua amicizia. Il suo pezzo di Amleto con Frǿde Bjornstad mi fece innamorare del teatro, amore che dura tutt’oggi.

Ph: ©J.Blin

Ene Liis Semper

ENE LIIS SEMPER – NO42 EL DORADO: THE CLOWNS’ RAID OF DESTRUCTION

Ene Liis Semper resuscita sul palco della Biennale un mondo antico, terribile, inquieto e demonico che come un virus dormiente è rimasto seppellito nelle pieghe profonde del teatro, dimenticato nei magazzini sotto teli di fondali muffiti e vecchi costumi di scena.

Orderico Vitale riporta nelle sue cronache del secolo XII il racconto di un monaco testimone, in una lontana e fredda notte normanna, del passaggio della Masnada di Arlecchino: teoria di demoni e d’anime sofferenti condotte verso nessun luogo da Harle King, con il suo volto dipinto, la sua mazza, i suoi goffi e deformi aiutanti. Dietro la maschera del clown c’è un mondo infero, tellurico, assolutamente pagano, che ancor oggi inquieta. It è solo l’ultima manifestazione del potere terrifico di queste maschere. Dietro al suo volto sformato, alle sue gag ridicole e crudeli, dietro al riso che ci strappa controvoglia, c’è la terribile e assurda violenza della vita e la misera e patetica parte che noi recitiamo in questa commedia.

Il clown è disteso su un tavolaccio. A terra un candelabro. Siamo subito nel funereo. Non c’è dubbio: quello disteso è un cadavere ch’eppur si muove. La morte c’è e non c’è, è evocata ma non troppo, quel tanto che basta per sentire il suo gelido fiato sul collo. Poi il clown si alza e un mondo di voci come di sirene anima lo spazio. Come Prospero il clown zittisce e comanda le voci, e con loro evoca nel cerchio magico della scena la sua deforme e tremenda masnada.

Ecco che appaiono i clown, spingono carrelli della spesa colmi di oggetti sporchi, vili, insulsi relitti di una misera vita, e spingono con tremenda fatica, con le facce deformi, le bocche stirate in un riso che non risuona, le membra rigide, i sessi ambigui, non morti e non vivi. La loro lunga e oscena processione si reitera in un eterno ritorno, in un circolo vizioso che per quante assurde variazioni possa permutare risulta senza scopo alcuno. Gli oggetti vengono mostrati, impiegati, smontati e rimontati in nuove combinazioni, mentre la scena scorre, ruota su se stessa su questo palco mobile.

E da questo giro della morte, da questa teoria di maschere che ricorda riti magico misterici dei monasteri tibetani, si sviluppano episodi che conducono quasi sempre a una menomazione del protagonista, un’amputazione, una violenza fisica mentre il clown capofamiglia osserva e urla: non basta! Un appetito di vita e di morte che non si esaurisce mai, che cerca nuovo eccesso. Si evirano a vicenda i clown, si percuotono, si lacerano i corpi di dannati e nell’esplicare così tanta e sacra violenza ci strappano risate, le strappano da noi con le lame delle loro azioni sconclusionate e precisissime.

E la ruota gira, continua a girare inesorabilmente lenta, portando con sé nuovi episodi, nuove violenze. La clown/bambola gonfiabile continua a partorire cuscini dal suo ventre, e lei ride, ride come un carillon incantato; il clown/boia defeca oggetti che attirano l’attenzione della masnada che in un impeto di gioia incontenibile finisce per lacerargli il ventre; il monaco nel preparare la cena si amputa tutte le dita/carote facendo banchetto di sé; il clown in calza maglia dopo aver acquistato i testicoli viene evirato per sbaglio e rimontato con lo scotch; un diluvio costringe la banda e rimontare la carovana prima di una folle ultima cena davanti a una croce montata alla carlona e infilata in un secchio.

Episodi osceni ed equivoci si susseguono, tanto da dimenticarci che questo era il funerale del clown. Si torna al punto di partenza, il clown torna sul tavolo autoptico, il clown boia con una sega elettrica alimentata da una spia nel culo gli lacera il ventre, apre la ferita, denuda gli intestini mentre il moribondo urla l’inutilità di ogni agire, l’insensatezza di una vita cieca e senza scopo dove nulla rimane se non la ferita e il dolore che l’accompagna. La compagnia intanto ha sgombrato il palco, restano solo boia e torturato, seppelliti da un diluvio di palle dorate che piove dall’alto da un chapiteau montato al contrario. Un sacca ovipara di insetto malvagio che seppellisce i corpi di palline.

Quello che Ene Liis Semper ha messo in scena è un mistero pagano di una forza sconvolgente, un rito misterico in cui i clown sono come le assurde e mostruose divinità dei miti di Chtulu, un rito illecito seppur necessario per gettare uno sguardo lucido sull’insensata nostra misera vita. Per quanto millenni di evoluzione ci abbiano spinto in avanti, restiamo animali ciechi mossi da insensata brama, da istinti voraci che ci precipitano in un abisso di violenza e dolore senza fine. Sotto la patina sottile che le civiltà usa per addolcire e indorare la pillola, s’agita il mondo dei clown di Ene Liis Semper.

Nell’osservare rapito come non mi succedeva da anni questo teatro potentissimo fatto di gesto, azione, spazio e corpo, non potevo non pensare alle processioni di tanto teatro di Kantor, agli oggetti dalla realtà dal rango più basso, alle iterazioni, ai meccanismi ripetitivi e ossessivi, alle macchina di tortura del grande maestro polacco.

Ene Liis Semper sembra esserne l’erede, questo suo NO42 mi ha scioccato positivamente tanto quanto Crepino gli artisti. Era dai tempi di Orpheon del Theatre du Radeau che non provavo così intense emozioni legate alla scena e se potessi rivederlo altre 10 volte lo farei senza mai stancarmi. Questo di Ene Liis Semper è grandissimo teatro, di altissima qualità, un teatro che utilizza tutta la sua ancestrale potenza di rito per creare immagini che non hanno quasi bisogno di parole, ma che sono talmente potenti da non necessitare di alcuna spiegazione. Dal palco scaturisce la vita, erutta violenta tutta la crudeltà che accompagna l’esser vivi, tutta la lacerante sofferenza che comporta l’esser comparse in questo vasto mondo che respira.

Ph: ©Tiit Ojasoo

Mara Oscar Cassiani

MARA OSCAR CASSIANI Spirit THE INVISIBLE CITY di Daniele Bartolini

Performance. È forse il termine più fluido e ambiguo delle arti contemporanee. Se alla sua nascita individuava una categoria di artisti proveniente dall’ambito delle arti visive, oggi è decisamente usato e abusato in tutte le Live Arts. Performance è indefinibile, e per quanto ci abbia provato negli ultimi vent’anni non sono riuscito a trovare una definizione che mi soddisfasse appieno.

Una forse, di Attanasio De Felice: Performance is a flexible testing ground for ideas. Una piattaforma flessibile per testare delle idee. Questa semplice frase individua da subito degli ambiti interessanti. Innanzitutto la flessibilità che si espleta nella dinamicità di un processo e non nella staticità dell’oggetto; e poi nell’essere un test che di volta in volta da esiti diversi. Si testano delle idee, le si mette alla prova, non si dimostra un teorema. Fluidità, dinamicità, sperimentazione, processualità. Tutti elementi che fanno della performance un genere ambiguo, una generazione equivoca, che ha radici su piani artistici e filosofici diversissimi. È un universo magmatico, privo di genere, proteiforme. Mutua procedure e linguaggi da tutte le arti dal vivo, le mescola, le ripropone ibridate divenendo una sorta di mitica creatura mostruosa delle arti contemporanee.

Seppur indefinibile o poco definibile (e non lo ritengo certo un difetto), alla Performance, come luogo artistico di territorialità smisurata, si pongono fin dalle origini del genere dei paletti, seppur molto ampi.

Primo confine esterno: The Untitled Event primo Happening di John Cage. Black Mountain College, 1952. Un processo indeterminato all’interno di frame temporali. Niente è stabilito, non c’è punto di vista, il pubblico è libero di crearsi il suo proprio montaggio della visione e dell’esperienza.

Secondo confine esterno: New York 1959 18 happenings in six parts di Allan Kaprow. Partitura di eventi rigidissima. Il pubblico è come costretto a divenire esso stesso materia dell’opera. Visione orientata, intenzionalità artistica determinata. Si recupera l’oggetto benché esperito nel flusso di un’esperienza.

Tra questi due estremi subito si scatena una reazione termonucleare. Il dibattito si incendia e non è ancora terminato. Processo vs. oggetto. Punto fermo: l’idea che l’opera d’arte sia qualcosa da esperire, da vivere e non da osservare distanti e distaccati. E in questo si ritorna all’alba di ogni ritualità. Si vive non si osserva.

La qualità di una performance non si misura, seppur misurabile, in qualità estetica che pertiene forse più all’oggetto, quanto in qualità dell’esperienza proposta, nella profondità di visione che essa provoca e produce nello spettatore/partecipante.

Dopo questa lunga ma necessaria premessa parlerei di due performance: Spirit di Mara Oscar Cassiani vista a Santarcangelo, e The invisible city di Daniele Bartolini a Kilowatt.

Nella prima, Spirit di Mara Oscar Cassiani, l’intento è chiaro richiamare o ricreare una ritualità originaria e metterla a confronto con il contemporaneo: la musica da club, un immaginario superflat e anime (non a caso all’inizio si ascolta il pezzo di Kenji Kawai di Ghost in the shell). Delle ossa su una coperta, delle maschere dipinte sul volto, e poi tanta musica e ballo a cui il pubblico alla fine si unisce. Ripetitività, ritmi ossessivi, luci strobo. L’impressione netta è che più che trovarsi di fronte a un rito ci si trovi dinanzi alla dimostrazione di un teorema. Le ossa, le maschere, i campanelli che richiamano i mamuthones sardi, e poi la musica da club, le danze circolari intorno al pubblico indirizzano senza dubbio la visione e l’esperienza verso un risultato sicuro. Non c’è nessun processo esperienziale vero, ma un allineamento con il pensiero dell’artista che diventa oggetto artistico. È un seguire le molliche di pane dell’artista/Pollicino. Il pubblico è strumento di verifica. Poste queste premesse avviene questo e quest’altro. L’unica scelta che rimane al pubblico è accettare quest’immersione forzata, e quindi partecipare alla danza e passare una serata in questo club allestito ad hoc, oppure andarsene.

Anche nella seconda performance, The invisible city di Daniele Bartolini, chiaro è il riferimento al noto libro di Italo Calvino, non solo nel titolo ma anche nelle differenti sezioni della performance. Cinque spettatori sono invitati a entrare in un palazzo abbandonato e deserto di Sansepolcro, per iniziare un percorso di conoscenza reciproca e di immaginazione di paesaggi reali o immaginari determinati dai propri ricordi, desideri, esperienze. Ora il processo potrebbe essere anche suggestivo se lasciasse la possibilità di compiere il proprio percorso, stabilire il proprio tempo di sviluppo, invece tutti gli eventi sono rigidamente compartimentati nei tempi e nei modi, tanto che per esempio, nella prima parte in cui i partecipanti, attraverso una serie di domande, vengono portati a parlare di sé a esplicare il materiale proveniente dalla propria interiorità, materiale che serve nello sviluppo del percorso, viene bruscamente interrotto per passare ad altro.

Dette queste poche cose su entrambe le performance, e tralasciando le facilonerie con cui sono state eseguite, le sciatterie nei modi di esecuzioni, nella presentazione del materiale e nelle procedure (non bastano quattro ossa a terra e delle facce dipinte di nero per fare un rito – e parlo di Spirit -, così come enunciare un desiderio per fare una città del desiderio), quello che mi pare fatalmente frainteso rispetto alla performance, è la processualità condivisa con il pubblico.

In entrambi i casi il processo non è condiviso ma subito. Si è burattini nelle mani dell’artista che ti accompagna dove vuole lui e se non sei disposto, o quell’esperienza non ti interessa, non ti resta che andartene o subirla di malavoglia. Non c’è apertura a una reale interazione con un terzo elemento – il pubblico – portatore di esperienza a sua volta e fattore di indeterminazione. L’artista vuole il controllo del risultato e poco accetta la possibilità di compiere insieme al pubblico un percorso di esperienza arricchente comune generato dalle interazioni casuali all’interno di un processo scatenante.

Sia Mara Oscar Cassiani che Daniele Bartolini producono oggetti tendenti più alla staticità che alla dinamica propria della performance. Premesso che questo è il mio personale punto di vista e che si può assolutamente non essere d’accordo, anzi spero di generare un dibattito anche con gli stessi artisti, trovo che questo modo di approcciarsi alla performance, a questo flessibile terreno di prova delle idee di cui parla Attanasio De Felice, sia alquanto lontano da una reale flessibilità. Di fronte a oggetti artistici di questo genere è netta la sensazione di non essere per niente distanti dal mondo della rappresentazione da cui in fondo si vuole scappare. Si ripresenta un quadro, un’immagine più che un territorio esplorabile insieme a una comunità riunita per condividere un’esperienza. Non siamo dunque nel campo di una prassi filosofiche che si esplica nell’atto artistico condiviso, ma nel quadro consueto dell’osservazione e fruizione dell’oggetto d’arte. E credo personalmente che questo risultato sia alquanto deludente.

Marco Martinelli

INTERVISTA A ERMANNA MONTANARI E MARCO MARTINELLI

Quest’intervista è stata realizzata insieme a Tessa Granato a Borgo Sansepolcro durante la prima giornata di Kilowatt davanti al Palazzo delle Laudi. Non posso che ringraziare Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per la loro disponibilità e per la capacità di donarsi e raccontarsi con estrema generosità e sincerità. Abbiamo parlato di Maryam, loro ultimo lavoro, della ricerca sulla voce, di ribellione e delle nuove generazioni.

Enrico Pastore: Partiamo da Maryam: com’è nata l’idea di questo spettacolo, da quale esigenza? E quali sono state le fonti?

Ermanna Montanari: Ci siamo trovati a parlare con Luca Doninelli che ha scritto il testo dopo un processo drammaturgico fatto principalmente con Marco. Noi eravamo partiti con l’idea di affrontare un lavoro su Santa Teresa D’Avila ma a un certo punto non abbiamo trovato la chiave, ma volevamo assolutamente affrontare delle questioni rimaste ancora aperte con Rosvita. Fu allora che Luca Doninelli ci parlò di questa sua visita alla Chiesa della Natività a Betlemme dove aveva visto questa devozione delle donne mussulmane per Maryam. Una devozione che era preghiera e racconto per chiedere vendetta per le morti di figli, sorelle, per quello che si era subito nella vita. Luca Doninelli ha incominciato a scrivere sotto nostra pressione perché subito ci siamo detti: questo è quello che dobbiamo fare, è qui che dobbiamo andare. Ci ha aperto una luce che trovavamo fortissima e altamente vera in un mondo come questo. C’era sia l’abbraccio religioso sia, d’altra parte, una tremenda ferocia. Una preghiera non è solo un’Ave Maria o un Padre Nostro ma è anche una confidenza di tipo violento. Così abbiamo iniziato a lavorare con Luca Doninelli e con Luigi Ceccarelli per il suono e a cui abbiamo chiesto di creare una musica di stile nordafricano.

A un certo punto abbiamo cominciato a lavorare in una visione nera, scura, solo con un microfono e un performer. Abbiamo anche chiesto al poeta tunisino Tahar Lamri, che vive a Ravenna, di darci una mano con tutto il materiale relativo a queste donne che sono soprattutto palestinesi e siriane. A un certo punto abbiamo pensato di usare anche la lingua araba come scrittura. Il pubblico è separato da un velo e su questo velo sono proiettate le parole di tutto il racconto, che appare quindi sopratitolato ma per noi è soprattutto un’immagine. È come essere dentro a un libro religioso, un libro che porta le parole di queste donne. Io dietro il velo faccio tutto, nel senso che faccio tutte le voci. In realtà non c’è scena. È tutto nero, c’è solo un corpo immobile ma ciò che danza sono la musica, la luce e le parole. La luce è importante, perché quello che chiedono le donne, la domanda che fanno a Maryam è soprattutto una richiesta di luce anche se è una luce di tenebra. La luce c’è anche nelle tenebre se no non potremmo vedere né l’una né l’altra. È un lavoro dove tutto è sfocato.

Alla fine appare Maryam che dice delle cose molto potenti. Quando abbiamo fatto le prime anteprime al Sud, tra Bari e Napoli, la gente piangeva. Sono luoghi dove la Madonna è nel quotidiano. Le parole di Maryam, non so come dire, è come se io portassi veramente quelle parole. Non c’era spazio per la critica. È stato per noi qualcosa di sorprendente. A Milano invece è stato completamente diverso. Ognuno poteva dire la sua sulle parole di Maryam. In realtà Maryam dice tre cose fondamentali: cosa posso darvi io che non ho potuto nulla di fronte a mio figlio in croce? Non ho nulla da darvi: né riscatti, né vendette. E dice anche che non ha perdonato Dio, perché il dolore non si dimentica anche nella gloria eterna. E comincia a parlare dei pianti. Dio conosce il pianto, l’amore conosce il pianto. L’amore è pianto. È potenza e insieme impotenza. L’ultima frase, molto potente, dice: voi sarete sempre con me là dove nessun figlio muore. Non c’è nulla. Parla del mistero. Un mistero doloroso. Perché le tre donne di cui si parla vivono nella dimensione del dolore. Sono donne che hanno subito una perdita. E la perdita è qualcosa di molto terreno che ognuno di noi prima o poi prova.

Tessa Granato: Il fatto che in Maryam lei reciti dietro un velo, sempre, mi fa pensare al suo essere una Voce, bagno sonoro e atto concreto, materiale. Mi fa pensare anche alle guaritrici africane, che lei so avere incontrato nel suo viaggio in Senegal, e che proprio nascoste da un velo emettono canti e formule che portano, in certi casi, alla guarigione. Lei ritrova una vicinanza tra il potere della sua voce e quello di alcuni rituali magici?

E.M.: Quando siamo stati in nella savana senegalese ho assistito ad alcune guarigioni. Le voci provenivano da una persona che mai si rendeva visibile, perché tutto avveniva dietro un telo, che spesso era sporco, annerito, su cui sopra vi avevano magari poco prima dormito degli animali. Il potere di questi suoni, e vibrazioni, era palpabile. E sì, Marco ha volutamente ideato per Maryam un luogo nero, oscuro, da cui escono voci di donne (Zeinab, Intisar e Douha), che poi in realtà diventano una sola voce, la voce del femminile, ma anche del maschile, dell’umano, dell’universale, di un quotidiano esemplare. Se a qualcuno viene stuprata un’amica, l’istinto è di rivolgersi a una entità superiore per chiedere giustizia, e vendetta. Chiaramente questo disturba, ma io credo che sia allo stesso tempo una forma di preghiera naturale, seppur feroce, e che in chiesa si possa inveire, bestemmiare. Un controsenso, come anche i mostri che vi troviamo raffigurati, dipinti o scolpiti, quasi ci suggeriscono. Penso a quella stessa spinta contrastante che c’è in Testori, ad esempio, e senza la quale non avremmo avuto tutto quello che di meraviglioso ha scritto.

EP: vorrei farti una domanda tecnica: come si sviluppa la tua ricerca sulla voce anche rispetto all’utilizzo della tecnologia? Ti faccio questa domanda pensando, per esempio, a quanto diceva Carmelo Bene, su quanto la tecnologia potesse aiutare la ricerca, e come permettesse alla voce di uscire dal dire, potesse aiutare a depensare la voce.

EM: Il lavoro sulla voce inizia ben prima che noi stessi scoprissimo tutto di questo lavoro, ben prima di immaginare un involucro sonoro che contenesse e avviluppasse anche la platea. Qui all’Auditorium di Santa Chiara forse non riuscirete a vederlo e ad averlo nella sua sontuosità. C’è un impianto audio costituito da molti diffusori posti sia intorno alla platea che all’interno del palcoscenico, solo che in spazi così piccoli, come qui a Sansepolcro, tutto è compresso. La regia del suono è di Marco Olivieri che lavora con noi già da qualche tempo, ha curato anche la regia del suono di Inferno. È lui a decidere ogni volta lo spazio sonoro, così come noi decidiamo lo spazio scenico. E qui. in questa piccola chiesa, che contiene solo 80 spettatori, ha creato un spazio compresso, ma nonostante questo ci si trova immersi in questo orecchio. Questo lavoro è un grande orecchio perché a Dio giungono i pianti dei padri e delle madri. Tecnologicamente questo è un lavoro estremamente raffinato e sontuoso così come lo era L’isola di Alcino, Lus, Inferno. Sono tutti dei bozzoli sonori. La ricerca sulla voce è un processo estremamente complesso. È ciò che si ascolta, ciò che si da e ciò che la voce genera. Marco Olivieri però non mi ruba la voce e me la restituisce in altro modo. Io lavoro solo con un microfono, e Marco con i diffusori. Non c’è nessuna alterazione vocale.

Marco Martinelli: Sì, direi che è Ermanna che fa tutto il lavoro con la voce, che genera le alterazioni e i toni. Marco Olivieri pensa a portare questa voce, a farla viaggiare intorno e per gli spettatori.

EM: Il lavoro con il microfono è estremamente importante. Esso genera la voce. È uno strumento, una sonda. Ti faccio un esempio: Marco Olivieri mi ha suggerito un nuovo microfono che le prime volte mi imbarazzava tantissimo. Non sapevo proprio cosa farci. Era come non saper muovere i tasti di un pianoforte o suonare le corde di una chitarra. Poi ti alleni, provi e cominci a capire come suonarlo. Capisci che questo strumento può dare al tuo strumento qualcosa di imprevisto e allora puoi volare, puoi creare una dimensione. Questo microfono prende tutte le cose più piccole, al limite dell’udibile, dove magari, per esempio, puoi non chiudere una vocale. Prende il resto, ciò che resta. Rende tutte le sottigliezze, puoi quasi sussurrare, parlare come una sonnambula. Così come la luce posso diventare quasi impalpabile.

EP: possiamo dire rubando le parole a Demetrio Stratos che è un modo per suonare la voce?

EM: Sì, è così. È assolutamente così. Demetrio Stratos è un maestro per me.

T.G.: Le vorrei chiedere come si prepara per la costruzione di uno spettacolo: ha un metodo, un procedimento a lei caro per concentrarsi, e cercare la chiave per entrare nel lavoro che deve venire alla luce?

E.M.: Tra tutti i luoghi chiusi, le chiese sono spesso i luoghi dove passo del tempo, sono il mio luogo. Ci vado perché lì vi scorre il mondo, ed è dove restano le voci del mondo. Ci vado per ascoltare, nient’altro. Lì non sono solo custodite le voci presenti, ma anche quelle passate e future, è lì che le pietre suonano, perché racchiudono miracoli, racchiudono i secoli. La voce è avere un grande ascolto, la voce è ascolto, è un atto spugnoso. Tutti ne abbiamo una, perché tutti noi abbiamo un piccolo o un grande ascolto, e questo determina l’avere una piccola o una grande voce.

Per raggiungere lo stesso scopo amo anche stare negli spazi aperti, come il mare, le terre sconfinate. Ho smesso di condurre i laboratori vocali proprio perché estremamente difficoltosi, dato che presuppongono il passare giorni e giorni in silenzio e in spazi ben precisi, in totale ascolto. Non si tratta infatti, nel mio caso, di cercare una figura, calarsi in un personaggio e imitarne una voce, no – perché tutti in fondo siamo bravi a fare le imitazioni. Per me si tratta di un altro tipo di ascolto, interiore, quello di cui parlano Carmelo Bene e Antonin Artaud. è come produrre icone: la tecnica, i passaggi giusti, perfetti, sono necessari, ma dopo un po’ si viene posseduti da una smania, dal bisogno di farsi attraversare da più movimenti, più voci. Si sente l’urgenza di non pensarsi.

EP: Nella vostra lunga carriera avete attraversato un periodo di grande fioritura del teatro italiano, forse l’ultimo grande periodo di grande sviluppo in Italia e in un regione che ha dato tantissimo. Ecco rispetto a questo vostro percorso, alla vostra storia cosa vedete nel nuovo teatro che sorge? Vi faccio questa domanda perché parlando spesso con i giovani artisti sento in loro un grande senso di solitudine nella ricerca, fanno fatica a prendere contatti con i maestri che li hanno preceduti. Ma non solo il loro agire è molto più imbrigliato nei bandii, nel rispondere a delle call precise che indirizzano il lavoro più nell’assolvere a queste richieste che sono l’unico sbocco produttivo più che seguire un’urgenza personale. Questa per esempio è la netta sensazione che ho riscontrato nell’osservare le ultime finali del Premio Scenario. Ecco voi cosa vedere nel nuovo teatro che sorge anche rispetto alla vostra storia personale?

Marco Martinelli: È una bella domanda. Innanzitutto penso che tu veda molte più cose di quelle che vediamo noi. Noi facendo tanto, lavorando tanto non abbiamo molte possibilità di vedere. È un po’ come diceva Gadda quando gli chiedevano dei romanzi suoi contemporanei e lui rispondeva: faccio così tanta fatica a scrivere i miei che non ho proprio tempo di leggere quelli degli altri, come faccio a essere così informato? D’altra parte noi conosciamo e collaboriamo con diversi gruppi giovani con cui abbiamo collaborazioni e rapporti di amicizia e forse ci troviamo con loro perché nessuno di questi parte dai bandi. Il nostro è uno sguardo limitato. Noi siamo in sintonia con i ribelli di oggi e per noi questi sono un segno di grande speranza e di grande bellezza. E c’è da dire un’altra cosa. Ogni epoca ha il suo conformismo, non è che la nostra fosse diversa. Magari non aveva certi tratti che oggi sono così micidiali però c’era lo stesso un conformismo. I veri ribelli non erano la maggioranza neanche allora.

Ermanna Montanari: Nella nostra generazione tutti facevano teatro all’università. C’era il voto politico, tutti lavoravano con i bambini. Mi ricordo che era stato fatto un censimento e c’erano più di seicentocinquanta compagnie solo nel Nord Italia. E questo quando siamo nati noi, Valdoca, i Magazzini Criminali, la Societas Raffaello Sanzio. Non eravamo soli quindi. C’era un Humus da cui qualcuno riesce a emergere, a sfuggire dalle urgenze della propria epoca.

T.G.: Rispetto alla vostra esperienza con gli adolescenti di Scampia, che avete iniziato al teatro con il metodo della non-scuola (ormai esportato anche nel Bronx di New York, o nel quartiere portoricano di Rio de Janeiro, o nella comunità afroamericana di Chicago), avete seminato qualcosa che può davvero germogliare per i partecipanti in uno sbocco professionale?

Marco Martinelli: Questi ragazzi sono il nostro orgoglio. Molti di loro hanno cominciato a lavorare con noi, nel progetto Arrevuoto a Scampia, quando avevano 14/15 anni; e dopo 3 anni di esperienza, quando questa stava volgendo al termine e loro avevano più o meno 17/18 anni, abbiamo pensato che non avremmo potuto lasciarli soli. Abbiamo quindi ideato un’altra sorta di scuola, della durata di tre anni, chiamando anche Danio Manfredini e Armando Punzo, mettendoli in relazione reciproca, per far conoscere ai ragazzi altre modalità di lavoro rispetto al nostro, farli confrontare con altro teatro contemporaneo. Dopo quindi un periodo formativo durato 7 anni, c’è stata la spinta, da noi supportata, di fondare una Compagnia: la Compagnia Punta Corsara, un gruppo indipendente che potesse costruire la propria poetica. Perché per noi lavorare nel teatro è questo – più che fare provini per registi e compagnie altrui. Seguendo l’esempio del Teatro delle Albe, in una felice operazione di buona mimesi, si è creato un gruppo divenuto una realtà forte e concreta, che ha ottenuto anche premi e riconoscimenti. Posso dire che ai ragazzi di una zona penalizzata come Scampia, il teatro ha cambiato la vita, ha dato un senso al loro stare al mondo.

T. G.: Lo scopo quindi è cercare le fessure, le crepe del sistema, e allargarle per fare entrare le proprie idee creative ed espressive?

M.M.: Sì, è questo il concetto che cerchiamo di passare agli adolescenti. Non so se vi ricordate quella perla cinematografica che è Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, quando a un certo punto Otello/Ninetto Davoli chiede confuso quale sia la verità, se quella di Otello, di Desdemona, o quella del burattinaio che lo manovra. E Totò/Jago (che morirà proprio pochi mesi dopo la fine del film) risponde, “ma cosa senti dentro di te? Prova a sentire. Ecco, quello che senti è la verità. Però non dirla, altrimenti scompare.” La cosa che parla e risuona nella testa, nel corpo, e che dobbiamo provare ad ascoltare, ecco quella è la nostra forza. Aldilà di bandi e terrorismi. Ciò che urge e pulsa dentro di noi, dobbiamo metterlo in atto, con determinazione d’acciaio. Ripensando anche al concetto di speranza, come recita il titolo di Kilowatt Festival, Principio speranza, proprio come il libro di Ernst Bloch: speranza è un rigagnolo che sopravvive anche alla siccità più estrema; è prezioso, e va alimentato e tenuto in vita.

Ermanna Montanari

LE MINIATURE CAMPIANESI di Ermanna Montanari

Immaginate il porticato del Palazzo delle Laudi a Sansepolcro, immaginate l’eleganza di quelle volte di pietra nel borgo di Piero della Francesca. E ora immaginatele abitate da genti raccolte intorno a Ermanna Montanari. Non è lei che recita, niente performance per la madrina del festival. A proferir parola poetica è la comunità tutta che legge l’ultimo libro di Ermanna Montanari Miniature Campianesi edite da Oblomov Edizioni. Bambini, donne incinte, madri di famiglia, anziani, giovani. Tutti loro si mettono in fila dietro il microfono e un pezzo per uno leggono e restituiscono a Ermanna le sue parole. Le loro voci non impostate, piene di difetti, a volte balbuzienti e insicure, oppure sicure e baldanzose, sempre devote, restituiscono il racconto di una vita in mille tonalità, gradazioni, modulazioni e volumi. La voce squillante della ragazzina, quella timida della bambina che lancia occhiate timorose alla grande attrice, il signore balbuziente e timido con la mano tremula che non riesce ad alzare gli occhi dal foglio, la signora anziana che da toscana fatica nel dialetto romagnolo, l’anziano con la voce baritonale. Tutti questi toni si fanno suono, si fanno vita. Nessuna rappresentazione, nessuna intenzione, solo omaggio sentito. Tale freschezza così spesso lontana dai palchi del nostro teatro commuove e rinfranca. Ermanna Montanari è lì che ascolta elegantemente seduta sul bracciolo di un divano, insieme a Marco Martinelli. Segue con gli occhi intensi tutto quello sfilare di voci e di corpi che la circonda e la lascia alla fine con la voce rotta di commozione.

Non è spettacolo, non è neanche teatro, è qualcosa di diverso. Giustamente nel programma è indicato come Rito iniziale, e rituale è questa teoria di voci che sotto il portico antico ritorna all’autrice il suo dire sfuggente alla sua autoralità.

Un rito collettivo e commovente consumato insieme alla comunità che accoglie l’artista, mentre si ascolta, si beve, i bambini giocano, la gente passeggia e curiosa si ferma. Questo evento mi ha ricordato l’amato Tibet in esilio durante lo Shötön, il festival del teatro tibetano. Anche in quelle lontane terre martoriate la comunità si stringeva intorno agli artisti, si beveva il thè, si mangiava, si partecipava al rito della scena che si consumava nei giorni. Vi era qualcosa di antico, che faceva pensare ai primi giorni quando la comunità si raccoglieva e rifletteva per immagini sul mistero della vita. Un percorso che si è perso e solo raramente riappare, presi come siamo dall’imperio dell’enterteinment e della selfexpression. Invece sotto il Portico del Palazzo delle Laudi, non c’è niente di tutto questo, solo le parole di Ermanna rifratte dalle mille voci della comunità che si fa corpo/voce unico, quasi legione. Un’esperienza rinfrancante di quelle che vorresti veder più spesso e che accogli nel cuore come ricordi indelebili della potenza del vero teatro.