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Peeping Tom

VATER (FATHER) – di Peeping Tom

Siamo in uno scantinato. Nessuna percezione del mondo esterno. Dalle finestre in alto e sul soffitto penetra una luce uniforme, sempre mortalmente uguale. Qui il tempo non passa mai. La moquette rosso vivo e le pareti azzurrognole ricordano un po’ un sogno di David Lynch. Un mondo sospeso per chi non è ancora morto, per chi è già definitivamente escluso dai vivi. Questo luogo è una scalcinata casa di riposo. Qui si sviluppa l’ultima avventura del padre. Abbandonato dal figlio vive tra i ricordi, le proiezioni dei propri desideri e le terribili consuetudini di questa clinica per vecchi, consuetudini portate all’estremo con feroce ironia, consuetudini che non paiono mai innocue.
Più passa il tempo e ci si addentra nella performance, più si comprende che il padre che si staglia sempre più al centro della scena, non è solo un padre, ma incarna Kronos, evirato perché depotenziato, non può fare ciò che vuole non può andarsene da questo Tartaro. Subisce dal figlio lo spodestamento venendo relegato sulla sedia a rotelle in balia di questi assurdi infermieri. Mantiene però suo malgrado la facoltà di ingoiare i figli, di condannarli alla sua stessa condanna, e benché questi lo escludano, lo sfidino, lo combattano, sono fatalmente destinati a subire la stessa fine: farsi cambiare i pannoloni, subire l’oltraggio di essere dipendenti da altri per fare i propri bisogni.
Quella creata da Peeping Tom è una piece di teatro danza piena di domande sospese, questioni irrisolte, di piani di esistenza problematici, di ineluttabili catastrofi affrontate con efferata ironia. In questa danza di corpi molli, schizoidi, incontrollati ci riconosciamo. Agiti come siamo dal tempo che fatalmente ci spinge verso la vecchiaia e alla decadenza del corpo che l’accompagna, avvertiamo il pericolo che si annida laggiù in fondo alla nostra esistenza: vivere di ricordi, aspettare la morte, subire le violenze dei giovani che non si curano di noi, battagliare per riuscire a fare il poco che ancora riusciamo a fare.
È una battaglia frenetica quella che si svolge sulla scena. Soprattutto contro un esercito di scope che costantemente appaiono e spazzano tutto ciò che vive sulla scena, oggetti o corpi che siano, comprese le poche tracce che lasciano. A un certo punto ne appare anche una gigante che pericolosamente minaccia il pubblico e si agita sulle sue teste. Nello spettacolo di Peeping Tom non vi è la rappresentazione della storia di un vecchio padre abbandonato da un figlio, c’è soprattutto l’evocazione di forze mitiche che minacciano la vita di tutti, perché tutti siamo condannati a divenir vecchi e a finire in quello scantinato.
Peeping Tom con ironia feroce evoca forze che vorremmo dimenticare, che si nascondono nell’ombra minacciando il nostro presente e il nostro futuro.

Ph: ©herman_sorgeloos

TRUMPETS IN THE SKY di Collettivo T.I.T.S. (Norvegia)

L’inizio è da film horror. Musica elettronica ossessiva. Una figura allampanata vestita di bianco avanza a scatti inesorabile fino al proscenio nel semibuio della scena. Ondeggia. A destra e a sinistra, impercettibile come un lento metronomo che via via aumenta il ritmo, e scopre una seconda figura dietro alla prima, altrettanto inquietante. Questo Trumpets in the sky gioca insistentemente sull’inquietudine e sull’ansia. Senza pause, continuamente. Tanto che alla fine ci si immunizza, ci si stanca di questo persistere.
Il tema è l’esplorazione dell’Apocalisse, ma sembra un pretesto, per un gioco di visioni, di paesaggi e atmosfere. È un’Apocalisse che sa più di Ragnarok, la battaglia che si consuma nel crepuscolo e dove tutto viene ingoiato nella bocca vorace del lupo Fenrir. L’apocalisse di Giovanni è tutto uno sfavillare di luci abbaglianti, è il fuoco, è il sole bruciante, e l’abbagliante bianco delle vesti dell’Agnello, le stelle cadenti e il cielo che si accartoccia su se stesso. Invece siamo in una penombra da inverno boreale, dove si intravede l’azione, in una luce fredda e glaciale. Perfino nei materiali di scena c’è freddezza: tubi di alluminio, latte di conserva, biglie di vetro. Una continua tendenza al metallico anche nelle flebili luci: il led di una torcia, il neon balbettante, la tinta fredda dei fari al minimo di potenza.
Questo spettacolo del collettivo T.IT.S., giovane gruppo norvegese formato da H.Kornatova, Juli Apponen, Björn Hansson e Ann Sofie Godø, ospitato nella rassegna Permutazioni curata da Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, punta tutta sulla visione e sull’emozione. Paesaggi evocativi, come il freddo deserto di colonne di alluminio, o la città di barattoli invasa da legioni di biglie mentre una figura in angolo, come un sopravvissuto a una cataclisma, si nutre di pesche in conserva. Il problema di questo spettacolo è che non c’è altro. Le immagini che si specchiano sul pelo dell’acqua non nascondono un lago profondo, ma una pozzanghera creata da un’acquazzone estivo. Manca la profondità. E manca la capacità di cambiare ritmo. Tutto rimane fermo costantemente sul gradiente ansiogeno, spaventoso, come la quinta marcia in un viaggio in autostrada. Non c’è una minima variazione, un sussulto che per un attimo arieggi lo spazio asfittico della scena. Il risultato, ripeto, è che dopo mezz’ora si è stomacati e indifferenti.
Gli spazi sono ben congegnati rivelando quadri e paesaggi si sicuro impatto visivo. La luce è al limite del visibile e a lungo andare infastidisce questo dover scorgere a tutti i costi ciò che pare avvenire sulla scena. Nel complesso un lavoro con più difetti che pregi, nonostante l’ottima fattura dell’insieme, la precisione del gesto e della costruzione. Manca profondità, manca spessore e manca la variazione.

SOSTERRÒ LE RAGIONI DELLA LEGGEREZZA di Francesca Cola

Francesca Cola è un’artista che abbiamo molto seguito perché ha il raro pregio di evocare mondi toccando emozioni forti con delicatezza e raro senso del gusto. Nei suoi lavori l’immagine non si impone mai, non è mai dura, è qualcosa di flebile, debole come un ramo di salice che si piega al vento e alla corrente. Sorge sul palco e dalla scena umile e fragile come un germoglio. Compito dello spettatore è accogliere questa immagine, prendersene cura dentro di sé, lasciarla crescere. Ci vuole uno sguardo attento, accogliente. La sua arte non è un martello che si infrange sull’anima-incudine dello spettatore, è una carezza gentile, un bacio sfiorato, un sorriso sfuggente. In sosterrò le ragioni della leggerezza, per ora un primo studio in residenza nel progetto Permutazioni a cura di Zerogrammi e Fondazione Piemonte dal Vivo, non si smentisce questa attitudine, anzi, se mai, si accentua.
In scena un bambino e un adulto, una danza in erba e una formata. A lato una pietra, rotonda e pesante, grave. È un monito e un pericolo. È presente e minaccia una presenza. È una possibilità a cui sfuggire. Come la morte quella pesantezza può raggiungerci in ogni momento. Solo la fuga leggera, la danza veloce dei piedi che sfiorano la terra può darci la levità che è il sale della vita.
L’adulto e il bambino. La loro danza, l’adulto che fa volare il bambino, lo sostiene, lo libra nell’aria, ma può anche inavvertitamente farlo cadere a terra, tenerlo giù. È il pericolo della pesantezza e della gravità. E allora ci si muove, si danza, si scongiura questo pericolo nel danzare insieme, nell’essere motori di movimento gli uni degli altri, lasciandosi coinvolgere, accogliendo il movimento dell’altro, sostenendosi con leggerezza librandosi in un volo gentile.
Il bambino sta in equilibrio sulla pietra, precario, giocando con la gravità. Il bambino accoglie la pietra, la abbraccia e le sfugge allo stesso tempo. Il bambino consegna la pietra all’adulto. È lui che se ne deve occupare, è lui che deve spingere a lato della scena quel pericolo incombente.
Questa danza, piccolo saggio sull’arte della fuga dalla gravità, è accompagnato da silenzio e da musica, e quest’ultima non è mai accompagnamento ma segno ulteriore di questo gioco a nascondino con la pesantezza, come quando si spandono dolci e feroci le parole della poesia di Robert Pinsky When I had no father I made/ Care my father. When I had/ No mother I embraced order. Certo c’è anche questo nel piccolo studio di Francesca Cola, i genitori e i figli, un rapporto difficile che può far volare come schiacciare a terra. La pietra sulla scena incombe sempre. È il pericolo che sta a lato della vita di ognuno. È lì. Non si può dimenticare, bisogna sfuggirle, sempre in movimento, sempre attenti. Tempo fa intervistai Laurent Chétouane e mi colpì una sua frase:” la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità”. Ecco questo è, penso, il senso ultimo del lavoro di Francesca, affrontato con profondo rigore e cura, con lo sguardo sempre rivolto ad evitare la durezza e la forza, in un elogio taoista alla debolezza, strumento principe per lasciar fluire l’azione del Tao.
C’è un solo pericolo in questo lavoro: che nello sviluppo futuro, nella lievitazione, assuma un carattere troppo zuccheroso, come un dolce troppo dolce. Come in un ottimo piatto, il segreto è il bilanciamento dei gusti, acidità e dolcezza, asprezza e salinità. Ma Francesca è un’ottima chef, saprà evitare il pericolo.

M!M di Laurent Chétouane

Quella di Chétouane è una danza in cui protagonista è l’ambigua insita in ogni prossimità. Quanto poco ci vuole perché l’amicizia si trasformi nel suo contrario? Quanto sottile il confine tra amore e odia? Se si spezza il legame che tiene insieme un atomo, l’energia che si libera può essere devastante. M!M con delicatezza e grazia lascia intravedere il sorgere di tutte queste tensioni inerenti all’amicizia, non solo a livello di sentimenti, anche a livello pratico. Come condividere un spazio insieme? L’occupare uno spazio è gesto carico di tensioni. Un gesto semplice che porta con sé gravi implicazioni. Ogni volta che si muove un passo nello spazio che condividiamo con gli altri, corriamo un rischio: guerra e pace sono sempre dietro l’angolo.
Nato come una commissione all’interno delle celebrazioni dell’amicizia franco-tedesca, M!M riesce ad andare al di là dell’occasione istituzionale, insinuando, quasi con tenerezza, le gravi ombre che si nascondono dietro a un termine, amicizia, usato ed abusato. Le dinamiche tra i due bravissimi danzatori sono estremamente sottili nel camminare sul bordo, sulla linea del confine in cui ciò che è chiamato amico, può, da un momento all’altro tramutarsi nel suo contrario. Un camminare su un filo sottile, per la pericolosità, più una lama di un rasoio, dove un gesto un po’ più carico, un superare, anche di poco la soglia, produrrebbe un lavoro di cattivo gusto, esagerato, retorico. Invece Chétouane, con garbo e grazia, fa danzare letteralmente le tensioni, facendole apparire lievemente dietro il velo, quel tanto da percepirle e restarne turbati, senza calcare la mano e rendere il tutto evidente e scontato. Come negli affreschi del Tiepolo, campione dell’opera d’arte su commissione, l’essere tutto abbagliante di luce, l’essere tutto gloriosamente abbracciato da una luce meridiana e onnipresente non impediva di palesare l’ombra, l’inquieto agitarsi delle cose, così Chétouane diffonde su un paesaggio, quasi sereno, leggere increspature che fanno intravedere come sotto la superficie s’annidino i mostri.
Una danza a tratti ariosa e maestosa, a volte delicata, lievemente sentimentale, che dimostra, quando mai ce ne fosse il bisogno, che il gesto leggero, usato con maestria, è più potente dell’urlo e del grido. Come dicevano gli antichi taoisti, l’acqua è il più morbido degli elementi, ma frantuma la roccia più dura e resistente.

Intervista a Laurent Chétouane

EP: Che tipo di spettacolo è M!M? Qual’è lo stimolo che l’ha fatto nascere?
LC: M!M è un pezzo sull’amicizia, sulla relazione amicale tra Mikael e Matthieu (Matthieu Burner e Mikael Marklund, i due interpreti di M!M ndr.) non a livello privato ma in quanto uomini. E questo nasce in parallelo alla commissione che mi è stata proposta di creare un lavoro sulla relazione franco-tedesca nell’occasione del cinquantesimo anniversario della riconciliazione tra questi due paesi. M!M quindi nasce dalla coincidenza di un lavoro di commissione con un percorso di ricerca che volevo affrontare con i miei due danzatori. Amicizia tra due uomini, amicizia a un livello più politico, dunque un pezzo su amici, nemici, che cosa è prossimo? Che cos’è un amico? Il nemico è un amico con cui si è sbagliato qualcosa? Riflessioni che che fa Derrida nel suo libro Politiche dell’amicizia, opera che mi ha fortemente ispirato nella creazione di M!M.
Amico è un termine molto chiaro ma che allo stesso tempo è molto fragile.

EP: Ho visto una tua intervista rilasciata durante l’ultima Biennale Danza a Venezia durante la quale tu dici una frase che mi ha molto colpito: la tragedia di essere umani si esplica nella guerra continua alla gravità. È questa, forse, la natura della danza?
LC: Ma diciamo che la danza mi permette di confrontarmi con la gravità, una cosa essenziale contro cui ci si batte tutto il tempo senza saperlo. Si è sempre a un passo ma qualcosa vi impedisce di cadere, e poi, voilà, si cade. I vostri muscoli vi sostengono perché hanno imparato da soli le leggi e così, senza saperlo, siamo immersi in un conflitto costante con la gravità. Per me dunque la danza è un modo di relazionarmi con la gravità. D’altra parte è una cosa che è già stata fatta da sempre, la danza classica ha, in qualche modo, dominato la gravità, una danza più postmoderna come quella di Thisha Brown si diletta con la gravità, William Forsythe da parte sua dirà che è tutta questione di cadute, che danzare è, in effetti, un gioco con la gravità. É un modo di considerare la caduta nella sua totalità. Nel senso che non bisogna considerare la caduta come una decisione del corpo, della parte del corpo che controlla ancora ma sentirla a livello della verticale, quando siete giusto all’inizio: la caduta. Dunque ci sono sempre due direzioni nel corpo che danza. Ed è interessante questo non solo a livello estetico ma anche politico, nel pensare il movimento come un riparare alla caduta, come dire che il movimento è una reazione alla caduta.

EP: Questo tuo lavoro può essere considerato un lavoro politico? Oppure tutta l’azione artistica in fondo può considerarsi come un’azione anche politica?
LC: Io credo che l’arte e la politica siano due cose che si incontrano ma che sono, in effetti, separate. Credo, come Jean-Luc Nancy, che la politica sia l’arte che crea gli spazi dove l’arte può arrivare, e l’arte, ovviamente, deve interrogare la politica. L’arte deve disturbare e scombussolare la politica, il che non vuol dire assolutamente che l’arte fa della politica.

DI ALCUNI GRAVI PROBLEMI DEL TEATRO ITALIANO

Qualche giorno fa è uscita la notizia che gli abbonamenti del Piccolo di Milano superano quelli di Inter e Milan. Questo ha fatto ovviamente scalpore convincendo alcuni a cantare il peana della rinascita culturale e del ritorno del pubblico a teatro. Non dovrebbe stupire. Ogni volta che un qualche dato confortante appare alle cronache o ogni volta che si vince una statuetta agli Oscar o un premio a Cannes, immancabili sui giornali l’apparizione di inni di lode. Si dimentica però che l’eccezione non fa sistema. Il sistema culturale italiano, soprattutto quello del teatro, e per esteso delle live arts, versa in grave crisi strutturale, e tale crisi, è vero che non impedisce che qualche volta l’eccelso appaia all’orizzonte, ma impedisce un buon livello generale e uno stato di salute terreno obbligato perché il mondo culturale possa mantenersi in uno stato florido.
Benché lo spazio di un articolo non permetta una disamina estesa del problema ci limiteremo ad accennare alcuni nodi cruciali di questa crisi strutturale del sistema cultura, lasciando ad altri analisi più sistemiche.
Partiamo dal Piccolo Teatro di Milano. Una gestione sana in un teatro è cosa rara, se non rarissima. Quasi tutti i teatri stabili e gli enti lirici italiani sono barche che affondano in un mare di debiti. I costi del personale in molti casi assorbono il 70% delle spese, e dietro queste spesso si nascondono privilegi e sprechi. La parte artistica non è la voce di spesa principale e questo non può che inficiare la qualità della proposta. Il Piccolo con la Fenice di Venezia costituiscono l’eccezione alla regola. Ma attenzione: far quadrare i bilanci non significa sempre qualità. Nel caso del Piccolo, benché molte proposte siano di alto livello, il repertorio (con questo intendo sia le riproposte di lavori storici sia la presentazione di testi della tradizione) sono la parte preponderante. La ricerca (che non per forza significa lavori distanti dal gusto di un potenziale pubblico) è spesso assente. Le scelte, benché di alto livello, comprendono nomi molto noti e di facile vendibilità (vedi Martone, Tiezzi, Philip Glass, Bob Wilson, Dodin). Il rischio è bandito proprio a causa degli abbonati che non vanno mai delusi. Questo comporta che anche i nomi giovani che si inseriscono nel cartellone sono comunque assimilabili a un insieme coeso, che non si discosta da una linea mediana. L’aurea mediocritas di beniana memoria. Certo siamo d’accordo che un cartellone di un grande teatro come il Piccolo non possa essere completamente dedicato alla sperimentazione, ma certo, sarebbe possibile la creazione di nicchie di programma che consentano alla vera ricerca di comparire e di essere coltivata. Una certa apertura viene ad esempio praticata dal Teatro Stabile del Veneto, ma sicuramente si deve fare di più. Gli Stabili potrebbero essere un volano di visibilità per giovani artisti e per la ricerca se solo lo volessero, perché hanno la potenza di comunicazione e le strutture per poterlo fare. Manca la volontà di rischiare, di approfittare della crisi economica e dei finanziamenti per osare scelte drastiche, e spesso questo freno è proprio lo strapotere dell’abbonato.
Parlando del Piccolo parliamo comunque del vertice di un sistema che nel complesso si limita all’ovvio, alla proposta scontata, al teatro vecchia maniera per l’abbonato geriatrico. Per la gran parte i teatri Stabili sono il simbolo della stasi e della palude, nonché di gravi dissesti economici.
Ma la crisi sistemica non è solo colpa dei Teatri Stabili e delle loro scelte. È il sistema produzione-distribuzione ad esserne la causa principale.
Partiamo dalla produzione: che non si sostenga la ricerca è cosa sotto gli occhi di tutti. Non solo nelle università e nella ricerca scientifica, nemmeno in ambito culturale si fa molto. Quasi tutti direbbero che è a causa della mancanza cronica di fondi, ma non è così. Questo potrebbe al limite rallentare il sistema, non metterlo completamente in crisi. Spesso in Italia ci si autoproduce, con pochi soldi, alla garibaldina. L’accesso ai fondi e ai bandi è in moltissimi casi fattibile solo per enti o compagnie che hanno già curriculum e struttura adeguata. Chi inizia è per molti versi tagliato fuori. Certo alcuni diranno c’è il sistema delle residenze, messo in campo da enti e festival per sostenere la ricerca, ma questo, come è concepito, è solo un palliativo. Concedere a degli artisti una settimana o due di residenza non risolve il problema. La ricerca ha bisogno di tempo. Il sistema di residenza dovrebbe essere esteso nel tempo, si dovrebbe prendere esempio dall’estero in cui a certi artisti meritevoli viene concesso lo status di artista residente per un periodo lungo, concedendo loro il tempo e il supporto per un vero lavoro di ricerca. Per molti quindi si sceglie l’autoproduzione con il crowdfunding, con sistemi precari a volte di grande inventiva, ma che non garantiscono risultati certi. Anzi spesso queste campagne non raggiungono l’obbiettivo oppure lo raggiungono in maniera parziale. Certo questo vuol forse dire che non meritavano, ma può anche voler semplicemente dire che con le poche forze di comunicazione che l’indipendente mette in campo è difficile se non impossibile ottenere un risultato decente.
Inoltre quello che latita nel sistema produttivo italiano è la coproduzione internazionale. Nei lavori degli artisti europei non è per niente inusuale, anzi potremmo dire che è abbastanza la norma, la coproduzione tra enti di diversi paesi. Questo garantisce tre cose fondamentali: la diminuzione dei costi di produzione, una migliore distribuzione e l’accesso ai bandi e ai fondi della Comunità Europea. L’Italia da questo punto di vista è decisamente assente. Molte sono le ragioni di questa latitanza. Per la maggior parte potremmo dire che è per insipienza, per altra per l’incapacità di molti lavori italiani di essere vendibili all’estero perché non pensati per un pubblico europeo ma per il mercato italiano interno.
Molti artisti italiani si limitano a trasferirsi all’estero, ma d’altra parte come dargli torto: è anche difficile trovare enti disponibili ad affrontare la difficoltà dei bandi europei, soprattutto perché vanno fatti in inglese!
Ma se latita la produzione, o comunque è ferma a modelli superati e obsoleti, quello che manca quasi totalmente è la distribuzione. Anche per gli artisti e i gruppi noti e di successo, fare venti date all’anno è un successo. Se prendiamo ad esempio compagnie come Fibre Parallele, inondata da Premi Ubu, o un gruppo storico come i cantieri Koreja, vediamo che i loro calendari di spettacolo sono meno della metà di gruppi esteri come She She Pop o Peeping Tom e soprattutto limitate al mercato italiano contrariamente ai colleghi stranieri che contano numerosissime trasferte in Europa e non solo. Certo ci sono le eccezioni come la Societas Raffaello Sanzio, ma ripeto le eccezioni non fanno sistema.
Ma la vera domanda è: ci sono effettivamente dei circuiti di distribuzione? Gli Stabili fanno quasi circuito a sé, i festival se ne creano degli altri, i piccoli teatri per lo più praticano scambi con altri enti così da dimostrare una certa mobilità delle produzioni. Mancano quasi totalmente le occasioni di mercato. I festival che potrebbero operare in questo senso invitando i buyers, italiani e esteri, non si specializzano in questa funzione limitandosi spesso a essere semplice vetrina. Certo qualcuno potrebbe obbiettare che ci sono dei circuiti come Anticorpi nella danza o il Premio Scenario, ma tali circuiti hanno un difetto: sono chiusi agli enti che li sostengono e ai loro satelliti, inoltre hanno una vita breve e limitata. Non ci sono occasioni continuative per presentate progetti. Nel campo cinematografico, soprattutto nei maggiori festival, la vetrina si accompagna al mercato, in ambito teatrale raramente. Molto si potrebbe fare in questo senso dando respiro a un mercato asfittico.
Ma i festival italiani devono affrontare un grave problema: i fondi per il loro sostentamento sono assolutamente instabili, rinegoziati anno per anno, soggetti a tagli improvvisi e spesso postumi, infine i soldi arrivano con un ritardo imbarazzante quando arrivano. Questo impedisce un’attività serena e una programmazione a lungo periodo che permetta una concorrenzialità con i festival esteri i quali godono molto spesso di finanziamenti a legislatura (è il caso di Svizzera, Belgio, Slovenia per esempio). Se i finanziamenti sono così incerti e spesso deliberati dopo l’evento (da direttore di festival ho avuto modo di subire personalmente questa pratica indegna) è quasi impossibile fare una programmazione veramente di qualità e creare occasioni di mercato che necessitano di iniziative continuate durante tutto il corso dell’anno e, inoltre, per lavorare con l’estero, si necessità di una certa stabilità, di una sicurezza che agevoli l’iniziativa di programmazione e coproduzione.
Da ultimo accenniamo alla mancanza di incentivi al finanziamento privato. Manca una seria legislazione sul tax shelter, e sulla donazione. Il finanziamento privato potrebbe supplire laddove manca o latita il pubblico, ma iniziative in tal senso sono carenti. Le fondazioni bancarie sono quasi gli unici enti a fornire bandi alternativi e spesso sono motivati all’intervento dal sostegno già dato dal pubblico. Non sono veri canali alternativi. Il sistema prevede l’accumulo non l’alternanza.
Questi alcuni dei motivi del dissesto del sistema cultura nell’ambito delle live arts, motivi semplicemente accennati e non esaminati a fondo come meriterebbero. Li accenniamo perché pensiamo sia necessario avere presente cosa affligge veramente la cultura italiana e non crogiolarsi in piagnistei inutili, né sperticarsi in falsi inni di giubilo. Se il sistema produzione-distribuzione è così precario e non funzionale, anche se ci fossero idee e lavori meritevoli, essi non avrebbero la vita e la visibilità che meritano. Inoltre un sistema sano non prevede che ci siamo solo i geni, ma anche un ottimo numero di lavori di buon livello. Se pensiamo alla produzione cinematografica degli anni ’60 e ’70 nel nostro paese ne avremo un esempio. A fronte di un gran numero di western, polizieschi, horror, commedie e commedie erotiche, che irroravano il mercato non solo italiano di prodotti da botteghino, (generi, lo ricordiamo, ora estremamente lodati da registi del calibro di Tarantino, ma non solo) il sistema poteva permettersi l’emergere dei Fellini, Pasolini, Scola, Leone, Monicelli ecc.
Oggi in ambito non solo teatrale, manca un sistema culturale sano che garantisca un livello standard di eccellenza da cui possano emergere i capolavori. Come diceva Carmelo Bene si è pensato alla mediocrità, si vivacchia puntando al meno peggio in arte come al voto. Non c’è un sistema ambizioso che guardi a mete elevate. Ci basta sopravvivere pensando che in fondo nella vita basta la salute.