Una delle più avvincenti saghe della fantascienza degli ultimi anni è Il ciclo di Hyperion di Dan Simmons. Nel mondo immaginato dallo scrittore statunitense la terra è collassata e l’umanità si è divisa: da una parte l’Egemonia sparsa in centinaia di pianeti in alleanza con le IA del Tecnonucleo e che vive, bene o male, come prima della diaspora spaziale adattata a contesti differenti; dall’altra ci sono gli Ouster, umani mutati dall’adattamento della vita nello spazio profondo, unici ad aver accettato la sfida dell’evoluzione senza l’aiuto invadente delle IA: essi sono liberi, irriconoscibili, odiati, sconosciuti, eppure saranno loro a vincere la guerra.
Quello che sta avvenendo in questo lungo e difficile 2020 è probabilmente uno degli spartiacque fondamentali nella storia dell’uomo e non per la questione sanitaria ma perché la situazione è miccia e innesco per cambiamenti epocali in tutti i settori di attività e tali mutamenti avvengono in gran parte per e a causa delle tecnologie digitali.
La chiusura forzata dei teatri obbliga a riflettere, non solo sulla natura del proprio agire artistico, ma soprattutto sul ricercare nuove strategie di sopravvivenza, molte delle quali, già nella prima ora, si sono rivolte verso la terra di frontiera digitale, attualmente, a causa della lentezza legislativa rispetto allo sviluppo delle tecnologie, molto simile a un Far West. Questa musa fredda, fino a ora e a parte rari casi, è stata usata come in megafono o come una televisione, quindi in maniera sostanzialmente conservativa, replicando appunto la modalità di media conosciuti e, in qualche modo rassicuranti. Qualcuno però prova ad accettare la sfida dell’evoluzione e come gli Ouster tenta la metamorfosi per sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio profondo.
Molto ci sarebbe da discutere se tale trasformazione sia o meno necessaria, se quello che ne verrà fuori sia ancora e sempre teatro, e via così, di domanda in domanda, ma resta il fatto che quando l’umanità inizia a usare uno strumento su larga scala difficilmente lo abbandona. Le cabine del telefono relitti negletti in qualche angolo di strada testimoniano questo processo. Indagare le funzioni del teatro in questo oscuro presente non è dunque questione di lana caprina né vuota osservazione di lanugini ombelicali ma un processo necessario per indirizzare la trasformazione obbligata in cui ci troviamo tutti immersi.
Un tentativo in questa direzione è il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro presentato il 19 novembre in video conferenza stampa dal direttore del Teatro Stabile di TorinoFilippo Fonsatti, insieme ai partner istituzionali (Scuola Holden, Comune di Torino, Fondazione CRT e Fondazione Compagnia di San Paolo). ARGO è la nave che porta Giasone e gli Argonauti. Nel nome quindi l’idea del viaggio in terre sconosciute su una navicella dell’ingegno in cui il Teatro Stabile di Torino ha voluto imbarcare ben settanta artisti della città.
Gli scopi di ARGO sono molteplici: il primo è quello di creare sette oggetti digitali a partire da altrettanti temi base, oggetti volti a prefigurare il futuro e a discutere le funzioni della scena nel nuovo nebuloso contesto, oggetti con valenze politiche e non direzionati a una produzione artistica. Gli artisti chiamati sono i più significativi del territorio cittadino, un territorio fortunatamente ricco, e da cui sono stati esclusi coloro che già percepiscono fondi del FUS o hanno cariche e funzioni all’interno di istituzioni teatrali. Si è privilegiato dunque gli indipendenti. Oltre a questi di cui fanno parte Il Mulino di Amleto, Piccola Compagnia della Magnolia, Domenico Castaldo e il suo LabPerm, Giulia Pont, Asterlizze Teatro, Girolamo Lucania, Simone Schinocca, Giorgia Goldin, Davide Barbato etc, a titolo di esempio perché lungo sarebbe l’elenco, oltre a questi dicevamo partecipano, a titolo gratuito, sette senior Eugenio Allegri, Valerio Binasco, Emiliano Bronzino, Laura Curino, Valter Malosti, Beppe Rosso, Gabriele Vacis, al fine di stimolare un confronto generazionale nel dibattimento dei temi. Si è dunque voluto essere trasversali in quanto a range di età e di esperienza. Peccato che da questo confronto sia esclusa la danza e il circo, pur ben rappresentati in città, settori che avrebbero potuto dare un notevole contributo.
Il secondo scopo è sostenere il settore in un momento di grande difficoltà. Tutti gli artisti sono assunti regolarmente. Terzo obiettivo è rafforzare l’identità artistica del territorio torinese. Lavorare insieme a un progetto potrebbe creare connessioni per ora impreviste e rendere più unito un ambiente non sempre pronto a sentirsi categoria unita da problemi ed esigenze simili.
Ma veniamo ai metodi di lavori. I settanta partecipanti verranno divisi in sette tavoli ciascuno dei quali è presieduto da un leader e affiancato da ”un editor-facilitatore, che ha il compito di elaborare e sintetizzare le idee e i contenuti affrontati nel corso del lavoro”. A ognuno dei sette tavoli previsti gli artisti convocati dovranno immaginare e produrre degli oggetti concreti: un manifesto, una mappa concettuale che racconti non solo il passato ma anche il futuro, un appello alla nazione, una campagna di comunicazione, un gioco/esperienza, una fake identity frutto di riflessione sull’autonarrazione di sé che accompagna l’esperienza digitale e infine un podcast per esporre il punto zero da cui si parte. Tutti questi oggetti esplorano le funzioni del teatro nel contesto politico e sociale, oltre al confronto con l’ambiente digitale.
Potenzialmente ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è un progetto che potrebbe avere un notevole impatto sul mondo teatrale italiano (paragonabile si spera a quanto avvenne a Ivrea nel 1967), sia per l’aspetto innovativo, sia nel generare un precedente di collaborazione fruttuosa e virtuosa tra mondo teatrale indipendente e Teatri Stabili. Dall’altra si rischia la nascita di un monopolio, e non lo diciamo per pregiudiziale diffidenza o sospetto ma solo come dato di riflessione. Da anni si assiste a questo fenomeno dove festival, formazione e innovazioni vengono assorbiti o nascono all’ombra dei Teatri Nazionali (un esempio sono gli esiti dell’ultimo Premio Scenario quasi tutti provenienti da scuole o progetti legati ai Teatri Nazionali, così come l’emersione di talenti come Liv Ferracchiati o Leonardo Lidi per fare due esempi). L’altra forza innovativa sono i Festival con le residenze, la possibilità distributiva e la visibilità offerta, forza però in possesso di molti meno mezzi rispetto agli Stabili e quindi sempre più ampia diventa la forbice nel panorama produttivo e distributivo italiano.
Il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro si muove dunque nella corrente di accentramento dei Teatri Stabili che già da anni si nota in un paese come il nostro in cui la cultura si è dimostrata sempre vitalissima proprio nell’essere policentrica, nel fiorire anche nella provincia più depressa e oscura, lontana dai centri di potere. L’accentramento quindi, se da una parte può essere fenomeno fisiologico, dall’altro genera dei problemi e solleva questioni. Speriamo dunque che ai tavoli di discussione tali temi emergano e vengano dibattuti, così come si spera che il Teatro Stabile di Torino e il suo direttore Filippo Fonsatti vogliano veramente battersi con e per i deboli e gli indipendenti per cercare di sconfiggere l’irrilevanza.
ARGO, come si è detto, è la nave degli Argonauti solido traghetto verso il vello d’oro, ARGO è una costellazione rappresentazione stellare del vascello mitico, ma ARGO, come racconta il film di Ben Affleck del 2012, è anche una mistificazione, certo volta a salvare dei reclusi da un destino ancora peggiore, ma pur sempre una manipolazione. L’augurio a tutti i partecipanti e attori di ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è che non si avveri l’ultimo scenario ma il loro lavoro possa offrire a noi tutti dei materiali di discussione che pongano veramente le domande giuste, che obblighino i legislatori e chi si occupa del teatro italiano a porre mano a una riforma attesa da troppo e sempre più necessaria, che possano disegnare davanti ai nostri occhi un futuro meno fosco di quel che appare al momento.
Per la quarantaduesima intervista de Lo stato delle cose rimaniamo a Torino eincontriamo Simone Schinocca, regista e fondatore di Tedacà. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Simone Schinocca, oltre a dirigere dal 2002 Tedacà di cui ricordiamo Sotto lo sguardo delle mosche, Il sentiero dei passi pericolosi entrambi di Michel Marc Bouchard, gestisce Bellarte, ex fabbrica trasformata in teatro a Torino, e Cartiera una ex fabbrica di carta trasformata in spazio polivalente con sale prova. Proprio a Bellarte e in rete con Acti teatri Indipendenti, Cubo teatro e il Mulino di Amleto, organizza il progetto Fertili Terreni Teatro.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
L’atto creativo dovrebbe avere inizio dalla necessità di interrogarsi e portare un punto di vista su elementi micro o macro dell’universo che ci circonda e ci avvolge. Avere la forza di una visione e di una prospettiva che si manifesta e diventa “carne” in una relazione. Una relazione fra gli artisti che se ne fanno portatori e che scelgono di condividere per un dato tempo e un dato luogo il processo creativo, e che a loro volta come “unità” si mettono in relazione con il pubblico a cui tutto è destinato e rivolto. Il pubblico non è un concetto astratto ma sono occhi, sono respiri, sono vite, sono esperienze, sono paure, sono aspettative, sono domande, è unicità. Necessità, visione, relazione, condivisione questi sono gli elementi che mi sembrano essere peculiari.
Il teatro, lo spettacolo dal vivo è il mondo delle “e” al contrario di quello che spesso si pensa e si afferma in cui si va alla ricerca del “giusto spettacolo”. E’ uno dei pochi spazi dove “questo” e “quello” hanno senso senza doversi porsi per forza nella scelta di “questo” o “quello”. Intendo dire che non esiste un’unica via “giusta”. Infinite le strade, infinite le modalità, infinite le possibilità di racconto, di mezzi e di strumenti. Questa per me una delle “bellezze” assolute dell’arte dal vivo. Sono “onnivoro” e scelgo di partecipare (non consumo, non vedo, non assisto…) a creazioni di nuova drammaturgia, di testi classici, di riallestimenti e riletture, di allestimenti tradizionali, di lirica, di musical, di spettacoli di danza, di concerti di musica classica e pop.
Adoro quando le creazioni sceniche partono dall’interrogarsi sul mondo che ci circonda, svelandone le contraddizioni, ribaltandone le consuetudini di percezione e di racconto, portando domande e punti di vista inaspettati sulle assurdità e sulle meraviglie del nostro tempo. E proprio questo approccio ha guidato il lavoro della nostra compagnia in questi anni. E’ una possibilità delle infinite possibilità di indagine.
Ma qualunque sia lo spunto che muove la creazione scenica, per essere efficace, penso che sia fondamentale lavorare, approfondire, non dare mai per scontata e svalorizzare la relazione che si va a instaurare fra gli artisti stessi e gli elementi, che condividono e costruiscono l’azione creativa, e il pubblico a cui è rivolta. Nella relazione, che prende forma fra artisti ed elementi della creazione allargandosi poi in una circolarità a tutta lo spazio teatrale, coinvolgendo, sconvolgendo, sollecitando, ascoltando e “respirando” il pubblico, sta il cuore, l’essenza dell’arte performativa.
Quella relazione, quella circolarità, spesso viene abusata, negata, rotta. A volte viene sbilanciata a favore del “respiro comune fra gli artisti” ma che diventa impermeabile a chi è in sala, o viceversa troppo orientata verso la quarta parete e non in ascolto e consonanza di quello che avviene sul palcoscenico. In questo equilibrio delicatissimo sta la “croce” e la “ delizia” della creazione scenica.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Quello a cui assistiamo quotidianamente nella produzione dello spettacolo dal vivo, è il tentativo di inseguire “l’idea” che viene lanciata dal finanziatore di turno. Si passano le giornate a ricercare le possibilità e i bandi. E in questa rincorsa spesso si rischiano di perdere alcuni elementi cuore del sistema produttivo della creazione scenica che si muove, per l’appunto, nella costruzione di una relazione essenziale, fragile e continuamente mutevole fra artisti e pubblico.
Prima di tutto il tempo. Siamo quasi sempre nella condizione di “non avere tempo”, e chi impone di prendersi il “giusto tempo” rischia spesso di giocare e cadere, proprio perché i mezzi sono pochi, nello sfruttamento degli artisti che entrano a far parte del processo creativo.
Ma non serve solo un “giusto” tempo, sarebbe necessario che gli artisti possano sperimentarsi, conoscersi, crescere insieme, con un lavoro costante e duraturo. Sono relazioni che richiedono tempo, costanza, fedeltà, perseveranza, la capacità, come collettivo, sia di costruire un comune respiro e sentire, sia di imparare gradualmente a discernere fra quello che è necessario e quello che è superfluo. La tendenza spesso è che per ogni nuova produzione, il gruppo di lavoro cambi riportando quasi a zero, il lavoro di conoscenza reciproca e di costruzione di senso comune.
In questi anni ho cercato per quanto ci è stato possibile di consolidare un gruppo di artisti di riferimento e in cui, lavoro dopo lavoro, poter andare in maggiore profondità nella relazione e nell’esplorazione delle possibilità. Questa scelta spesso però va nettamente in contrasto con il meccanismo di finanziamento dei progetti, che rispondendo a bandi insegue temi, modalità, tempi, regole, requisiti imposte dai soggetti finanziatori. Bandi e opportunità che spesso richiedono il “fare” e “mostrare” prima dell’ascoltare, accogliere e finanziare l’idea. Per le realtà produttive risulta difficilissimo riuscire a costruire una visione progettuale a medio e lungo termine, che si affianchi alla costruzione di un collettivo di artisti di riferimento con cui condividere la visione. E proprio su questo aspetto si fonda la fragilità delle realtà dello spettacolo dal vivo, che in questi mesi di emergenza Covid si manifesta in tutta la sua deflagranza. Realtà che dopo un mese di chiusura sono già in ginocchio e in cui l’instabilità economica, progettuale è un elemento ormai quotidiano della propria esistenza.
Sarebbe auspicabile andare verso meccanismi di finanziamento che premino proprio la capacità di proiezione non a breve termine ma con un respiro di due o tre anni. Passare dal meccanismo del finanziamento di “singole” azioni a quello di finanziamenti di linee progettuali e visioni che abbiano un arco temporale di più ampio respiro, in cui sia premiante la stabilità lavorativa per gli artisti del collettivo e il tempo di ricerca anche su più progetti e creazioni sceniche. Meccanismi di sostegno alla compagnia e alla sua traiettoria progettuale e non basati sul “fare”, “vedere” o sull’”esame a step” del lavoro per poter accedere alle fasi successive di finanziamento. Meccanismi che richiedono ai soggetti valutatori di entrare nel merito del progetto provando a esplorarne prospettive ed elementi possibili di sviluppo (andando ben oltre a quanto scritto in poche cartelle). Indubbiamente così facendo i finanziatori dovrebbero assumersi una dose maggiore di rischio (che è elemento imprescindibile della sperimentazione) e la responsabilità di investimenti e di tutoraggi che possano dare stabilità su più progetti e per lunghi periodi, ma potrebbero diventare catalizzatori allo sviluppo e consolidamento delle realtà produttive.
Si tratterebbe di una “rivoluzione” in cui viene spostato l’asse di valutazione per l’accesso alle risorse dalla “singola idea”, alle realtà nel suo complesso e alla loro visione e capacità di progettazione di lungo respiro, andando a cambiare completamente il rapporto fra realtà di produzione e i diversi enti pubblici
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Da anni tutti lo dicono e lo affermano, il vero “cancro” del sistema teatrale è la distribuzione. Tutto l’asse di valutazione e finanziamento del sistema è spostato sulla produzione. Nella ridefinizione dei diversi ruoli dei diversi enti, compiuta negli ultimi anni, la programmazione, che è una funzione di assoluta importanza, è quasi sempre rilegata ad essere attività accessoria o non valutata o rendicontabile. Inoltre le funzioni dei diversi livelli sono spesso poco chiare, sovrapposte e rendono difficoltoso, se non impossibile, l’accesso alle realtà produttive di “diversa categoria”. Gli interlocutori privilegiati, a volte quasi esclusivi, diventano le altre realtà nazionali “di pari livello ministeriale”. Anche i soggetti nati e sostenuti esclusivamente per la dimensione di programmazione, si vedono costretti a sostenere le attività di circuitazione dei diversi enti del territorio per aiutarli a rispettare le “quantità “dichiarate, lasciando ben pochi spazi di accesso alle compagnie di produzione e alle realtà più giovani. A tutto questo si aggiunge il fatto che per le compagnie di produzione disseminate sul territorio nazionale il criterio predominante di valutazione è quello produttivo. In questo quadro gli spazi di distribuzione diventano pochi e difficilmente accessibili.
A mio parere andrebbe legittimata, valutata e sostenuta l’attività di programmazione. Una compagnia in dialogo con il proprio territorio e che compia una attenta attività di programmazione può diventare un punto di riferimento per una comunità di artisti e cittadini.
Da tre anni come compagnia, in rete con altre tre realtà e altri due teatri, abbiamo lanciato il progetto Fertili Terreni Teatro che grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo e della fondazione Piemonte dal vivo ha creato uno spazio di programmazione fortemente in dialogo con il territorio in cui è inserito. In tre anni oltre 120 produzioni sono state ospitate, quasi tutte realtà che difficilmente sarebbero riuscite a trovare uno spazio di programmazione in altri luoghi cittadini o regionali. Riceviamo ormai centinaia e centinaia di proposte, che ci lusinga ma che con drammatica evidenza, ci dimostra quanto ci sia sete di spazi di rappresentazione.
Dall’altra come compagnia iniziamo a interrogarci anche se non si possa e non si debba provare a ragionare al sistema produttivo e distributivo in modo completamente diverso. Forse proprio grazie alla sperimentazione di questi tre anni di Fertili Terreni Teatro stiamo provando a mettere in campo azioni che possano sondare la possibilità di tenute più lunghe per gli spettacoli realizzati coinvolgendo, fin dalla fase ideativa, altri spazi e reti nazionali, in modo da prevedere, già nella fase di produzione, tempi di rappresentazione più lunghi e su più città.
Quindi da un lato ci dovrebbe essere un sistema di valutazione e finanziamento che valorizza l’attività di programmazione, dall’altro le compagnie dovrebbero accettare la sfida e l’impegno di mettersi in dialogo con un territorio, costruire un proprio pubblico di riferimento a cui destinare anche attività di programmazione di altre compagnie. La nostra fabbrica “Bellarte” che da 14 anni è la nostra casa, è diventata luogo identitario di un territorio e di un pezzo di città anche grazie all’attività di ospitalità di altre compagnie e confronto con altre poetiche, visioni e suggestioni che in questi anni abbiamo accolto.
Ultimo, ma non ultimo, elemento completamente da scardinare è la dimensione di “irraggiungibilità” che si vive nel sistema teatrale. Indubbiamente vi è una inflazione di produzione, e non tutto può e potrà ottenere spazi adeguati di circuitazione e rappresentazione. Ma tutto può ottenere almeno attenzione, lettura, ascolto e dialogo. Ricevere un feedback sui lavori inviati, un confronto fra professionisti è e dovrebbe essere elemento fondamentale del dialogo fra i diversi enti e le diverse realtà. Sembra di sottolineare l’ovvio. Ma purtroppo ovvio non è. E’ un lavoro immane, faticoso, sono più i “no” dei “si” che diciamo e subiamo. Ma quel dialogo è un elemento imprescindibile del nostro lavoro.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
L’esperienza artistica dello spettacolo dal vivo genera un legame di empatia fra il “creatore” e il “fruitore” (elemento comune con qualsiasi esperienza artistica) dando però la possibilità di instaurare una unicità di rapporto manifesto fra artisti e pubblico (vero elemento di differenziazione dalle altre arti). La vera unicità della fruizione dal vivo rispetto alla dimensione a distanza e virtuale è la creazione di un legame fra fruitore e creatore non ripetibile, tangibile e condiviso. Una esperienza collettiva, in cui gli stessi fruitori condividono la percezione dell’opera, l’entusiasmo, la perplessità, le domande e i pensieri che ne scaturiscono. E da questa condivisione nasce la possibilità di connessione fra le persone del pubblico che va oltre la visione dello spettacolo e che può invadere strade, piazze e case. Mi piace immaginare lo spazio teatrale come un innesco per una comunità che si ritrova in un determinato luogo e tempo, e che da quell’incipit parta un’onda di diffusione a cerchi sempre più larghi. Un sasso che cade in un bacino d’acqua. E proprio in quella condivisione e diffusione dovrebbe incarnarsi l’essenza stessa del senso dell’azione performativa.
Spesso viviamo l’esperienza scenica come momento di “vita” che nasce e muore all’interno delle mura degli spazi dove ha azione, dimenticando, non considerando, svalutando, non credendo alla forza potenziale di condivisione, diffusione, rivoluzione e cambiamento che partendo da quel luogo può e deve diffondersi all’esterno. In una società e in un tempo sempre più proiettata e basata su di una solitudine “non marginabile” delle nostre vite, lo spettacolo dal vivo, diventa nella sua semplicità, di per sé un atto rivoluzionario, non tanto per gli artisti ma soprattutto per il pubblico che sceglie di condividere quell’esperienze con altre persone e diventando esso stesso diffusore di quanto empaticamente vissuto.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
In un tempo e in uno spazio sempre più complesso, articolato, stratificato, inaccessibile, e deformato, ognuno di noi è desideroso di trovare strumenti di lettura, interpretazione e di appropriamento di quello che ci circonda. E in questo l’arte in tutte le sue forme diventa lente imprescindibile con cui poter vedere, reinterpretare, classificare, ordinare e scardinare il mondo.
E lo spettacolo dal vivo, anche grazie all’esperienza comunitaria in cui si manifesta, diventa una grande possibilità di lettura, reinvenzione, ripensamento del tempo presente.
Tutto può parlare all’oggi. Qualsiasi tempo, azione, scelta può diventare universale. Piccole storie che possano diventare capaci di donare a chiunque lenti con cui rileggere la propria esperienza e il proprio vissuto. Una ricerca che dal particolare porta all’universale.
Proprio in questa dimensione trovo che la creazione scenica manifesta una sua assoluta necessità e contemporaneità. E’ una grande occasione per chi la crea, per chi la progetta, la ospita, per chi la vive e la respira. Il teatro come luogo delle domande e non delle risposte, come luogo dove porre interrogativi, svelare il celato, trasformare lo scontato, offrire possibilità dove si vedono solo limiti. E se penso a questa dimensione dello spazio scenico mi chiedo come si possa immaginare che sia estraneo al reale, al tempo che lo circonda, come possa non essere in profondo ascolto, come non possa essere curioso di ricercare storie e vissuti che svelano punti di vista inediti, inaspettati, ribaltati, come non possa rileggere la tradizione come universo in cui quello che è stato ha la forza e la possibilità di parlare a quello che è, come non possa provare a immaginare, ribaltare e confondere gli scenari a cui aspirare. E in tutto questo penso che i collettivi di artisti non possano che partire, confrontarsi, mettersi in relazione e ascolto della comunità e dei territori in cui vivono e a cui fanno riferimento. Questo non significa limitarsi “al circondario” ma partire da questo per poter andare alla ricerca delle domande, delle storie e delle prospettive utili ad arricchire, sbalordire, interrogare, ripensare, re ideare il reale in cui siamo persi.
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