|ENRICO PASTORE
Il corpo danzante, il corpo scenico è sempre, volente o nolente, corpo politico. Esposto allo sguardo in una componente extraquotidiana, diversa, aliena, straniera, si pone come differenza rispetto al canone del consueto. Anche quando utilizza gestualità riconoscibili è il contesto di separazione a inondarlo di una luce tagliente, rendendolo oggetto di interrogazione per l’occhio che osserva. Le declinazioni del pensiero artistico e politico degli artisti vengono trasformate e sublimate dal processo creativo della scena, e giungono, senza mediazione, allo spettatore che deve tradurre quei geroglifici corporei in una domanda cui spetta solo a lui rispondere. Le intenzioni quindi prendono il largo, si espandono, si trasformano, vengono fraintese, indignano e sconvolgono, oppure rasserenano e riempiono il cuore di gioia. L’opera, secondo John Cage, è una lettera a uno sconosciuto il cui linguaggio è però criptico, opaco. Non è un linguaggio da capire con la logica, ma con le viscere, e non c’è una giusta interpretazione, non esiste una chiave che apre le porte della comprensione, ma solo e semplicemente la molteplice e contraddittoria verità del proprio viaggio interiore. È così che si crea quel discorso critico in continuo movimento di cui parla Cristina Caprioli.
Ciò è tanto più vero di fronte a Tangent, opera di Shiro Takatani, eseguito in scena dalla performer Miyu Hosoi. Takatani, uno dei fondatori del gruppo Dumb Type di Kyoto, collettivo che riunisce diversi artisti impegnati nella ricerca di una nuova multimedialità, presenta questo lavoro da solista i cui prodromi risalgono al 2015. Tangent indaga i punti di contatto tra visibile e invisibile, tra corpo, oggetto e spirito. Nucleo primo di ispirazione è 12, l’ultimo disco di Ryūichi Sakamoto, amico e collaboratore in molti progetti di Takatani. Le dodici tracce sono il testamento sonoro del grande musicista, composte negli ultimi mesi della sua tremenda malattia. I suoni dilatati si susseguono sorgendo uno dalla dissoluzione dell’altro, come in certi lavori di Morton Feldman, in un sottilissimo punto di tangenza tra una scomparsa e un’insorgenza quando le armoniche si sono dilatate a dismisura nello spazio.
Le immagini che vediamo sul palco, accompagnate da alcune tracce di 12, sono danza in senso molto ampio, una coreografia come “composizione complessiva degli elementi”, per usare le parole del coreografo giapponese. Sul piano inclinato del palco, in quel paesaggio brullo, lunare, cosparso di piccoli sassi bianchi e neri, di un lungo tavolo, una sedia e una scala, si svolge una danza di luci e ombre, una danza di oggetti, proiettati sullo sfondo, ingranditi, duplicati. I chicchi di riso che cadono sul tavolo, i sassi raccolti e ricollocati. E da questi movimenti nascono interi universi, costellazioni, soli e pianeti. La cintura di Orione campeggia in una galassia di luce sempre più luminosa. E mentre sorgono sciami di stelle, la luce scorre su questa pallida luna, le ombre si allungano, le asperità si fanno più evidenti, fino a scomparire allo zenit, per riapparire nuovamente. Un giorno cosmico in cui trascorrono intere ere. Fino al giungere del buio. Scintille disegnano buchi neri, code di comete, esplosioni di supernove. E dalle profondità del cosmo ecco apparire il nostro mondo, i paesaggi dall’alto, le nostre fragili case, il modo ondoso delle maree e alla mente sovviene la terzina paradisiaca di Dante: «O insensata cura de’ mortali,/ quanto son difettivi sillogismi, / quel che ti fanno in basso batter l’ali».
Quella di Tangent è una danza minima, che invita alla contemplazione sul rapporto tra umanità e natura, un rapporto diretto ma anche mediato da immagini e dispositivi. Takatani dichiara di voler mettere in discussione la rappresentazione della natura e per farlo mette in relazione armonica i dispositivi meccanici, la performer, le luci, i suoni. Tutto danza sulla scena, una danza serena, esteticamente perfetta, che pone domande a una mente distesa, serena e distaccata.
Diversa e opposta è l’energia evocata dal colombiano Rafael Palacios e dalla sua compagnia Sankofa Danzafro in Behind the South: dances for Manuel. Qui a essere evocate sono le forze telluriche e ancestrali delle radici africane, gli antenati e gli Orisha, le divinità della religione Yoruba. Palacios si ispira al romanzo dello scomparso Manuel Zapata Olivella Champò, el gran putas, sulla diaspora africana nel continente americano. Palacios fin dal 1997, quando ha fondato Sankofa Danzafro ha cercato di recuperare le radici africane delle comunità nere di Colombia per ricostruire la storia volutamente cancellata dalla dominazione spagnola. La sua danza è fortemente politica e volta a ricostruire una narrazione degli oppressi, un’opera di decolonizzazione della storia tesa a rimuovere ogni esotismo, figlio di quel pensiero orientalista pronto ad addomesticare l’alterità delle culture non occidentali.
Il processo di decolonizzazione è intimamente legato alla volontà di erodere e contrastare il capitalismo neoliberista che, per esercitare le sue prerogative di sfruttamento oppressivo, necessita di separare, ridurre, silenziare. Per questo il coreografo colombiano oppone la parola africana Ubuntu, che definisce una persona solo grazie al suo rapporto con l’altro. Per la cultura africana l’uomo non è un ‘isola, ma un arcipelago di interconnessioni. Palacios dichiara: «danziamo per essere ascoltati, non per essere visti». La danza è quindi atto politico, è riscoperta delle radici per una riformulazione di un futuro che superi l’anacronistico pensiero razziale, un futuro senza confini e senza razze. Un pensiero tangente con quello di Takatani che afferma: «Sogno che la mia nazionalità scompaia, sogno che la mia razza scompaia».
I ritmi spasmodici delle percussioni, i corpi lanciati in movimenti convulsi traenti energia dalla terra, le maschere e i costumi provenienti da un mondo antico, tutto ci parla di un tempo in cui l’uomo era unito alla natura e agli dei. È questa dimensione di interrelazione che Palacios vuole recuperare in un mondo dominato da un sistema economico che ci vuole separati, isolati, inermi e soli.
Questo spirito gioioso, panico e ribelle si colloca all’opposto da quello che anima Still Life del norvegese Alan Lucien Øyen in cui si sente struggente la distanza tra uomo e natura, tra la contemporaneità e le proprie radici. Still Life si potrebbe tradurre con natura morta. Øyen, attraverso la stupenda interpretazione di Mirai Moriyama e Daniel Proietto, canta il disperato bisogno di comprensione, il dolore della separazione, la perdita di contatto tra sé e la natura. Si sente costantemente il sentore della fine, di un pensiero occidentale che ha perso la sua identità e non trova soluzioni per il futuro. E questo sentimento di separazione, di spaesamento è struggente grazie alla danza di Moriyama e Proietto che traggono forza ed espressività dalla tradizione della danza Butoh, in cui il danzatore deve sentirsi come un morto tra i vivi. Tale è la forza espressiva di questi due corpi danzanti che ogni altro elemento diviene superfluo e addirittura dannoso. Il ripetuto apparire del coro appare addirittura dannoso perché ci distoglie dalla comunione empatica con i corpi dei due danzatori, e questo avviene soprattutto quando viene inserita la parola, dura, assertiva, logica. Per voler troppo dire si finisce per confondere un discorso che era già chiaro con il semplice gesto. Nonostante questo si è assistito a momenti di danza toccante, impeccabile, commovente.
Deadlock di Cristina Caprioli ci trasporta infine in una differente condizione dell’umano, ancora più eterea. In uno spazio coreografico abitato da grandi schermi curvilinei che il pubblico è invitato a esplorare, appare l’interprete Louise Dahl. La danza del suo corpo androgino è replicata dalle proiezioni video sugli schermi e se il corpo vivo nello spazio si confronta con la gravità, il suo doppio digitale si muove come galleggiando nello spazio virtuale, senza peso, immateriale, addirittura spettrale. La coreografia, per quanto identica, assume due forme diversissime il cui dialogo è garantito dall’occhio dello spettatore. Reale e virtuale si confrontano senza astio o conflitto, convivono e coesistono nello stesso spazio prefigurando futuri possibili.
Questa diciottesima edizione di Biennale Danza ci ha proposto quindi molti motivi di riflessioni riguardo al corpo in un periodo in cui questo diventa sempre più un organismo politico. Fluidità di genere, espressione di identità e di appartenenza, luogo di rivendicazione e di rivolta. Tramite il corpo la società e l’arte provano a immaginare un’umanità futura lontana dai dualismi e dalle oppressioni e questo in un momento in cui la storia sembra far riemergere conflitti e dottrine politiche che si pensavano ormai sopite e sepolte. Proprio in questo momento buio dove sembra impossibile il sorgere di una nuova luce che l’arte, e la danza in particolare, rivendicano la loro capacità di immaginare futuri possibili. E questo alimenta la speranza in un’umanità diversa, più accogliente,magari unita al di là delle lingue, delle culture e delle nazioni.