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Teatro dei Venti

CONCENTRICO Festival: Moby Dick del Teatro dei Venti

Per la quarta edizione dell’ancora giovane Festival di Teatro all’aperto Concentrico la sterminata piazza di Carpi si trasforma in un brulicante palcoscenico a cielo aperto: a salutarne e celebrarne l’ampiezza, le azioni pubbliche firmate dal Teatro dei Venti di Modena e il loro Moby Dick, del polacco Teatr Ósmego Dnia, del Teatro Due Mondi di Faenza. Un gioco di dimensioni, almeno in un caso su tre, decisamente spettacolari.

Molte le proposte nazionali e internazionali che si sono susseguite a partire dal 13 giugno con Concentrico, Festival che si dimostra in grado di guardare felicemente alla propria realtà cittadina fatta di amatori ancor prima che di frequentatori assidui di teatri, puntando sulla trasversalità e orizzontalità dei linguaggi. Teatro (con compagnie come gli Omini e Baby Walk), circo (Paolo Nani, Teodor Borisov e altri), sperimentazione (con R.OSA di Silvia Gribaudi), narrazione “classica” (Ascanio Celestini) e teatro per bambini (il Molino Rosekranz) coesistono fianco a fianco nei luoghi del centro e finiscono col non lasciar fuori proprio nessuno.

La varietà corrisponde all’ampiezza, la delicata intimità della sala e la vorticosa apertura dello spazio di piazza si affiancano ed equivalgono, diventano gregarie. A servizio di un invito: quello all’attenzione.

Invito denunciato dallo stesso logo scelto da Concentrico (un fossile spiraliforme che lo sguardo più attento può già trovare incastonato fra i marciapiedi e i portici della città di Carpi), oltre che primariamente inscritto già nella radice linguistica di quella pratica che a scapito delle settorializzazioni è teatro: invito sì, ma all’allenamento dello sguardo. Attivo, fuori dal rischio della dispersione.

Sotto questa luce parliamo dello spettacolo di piazza in anteprima nazionale che ha avuto luogo sabato 16 giugno in Piazza Martiri: Moby Dick del Teatro dei Venti. Perché il brulichio della piazza non si ferma mai, è palestra aperta 24h, dove direzionare lo sguardo è una scelta ben precisa. E a starsene nel mucchio si finiscono per capire molte cose.

La piazza è gremita, fin dalla sua anteprima nelle scorse settimane a Modena, sede operativa del Teatro dei Venti, la risonanza per l’operazione Moby Dick è stata altissima e ci sarebbe quasi da lamentarsi per le poche sedute messe a disposizione: se non fosse che l’imponenza della struttura in legno trainata tramite corde da marinai a torso nudo (probabilmente arruolati volontari per questa prima nazionale, un peccato per la loro funzione di sola cornice), permette che non si perda nulla delle coreografie, delle musiche e dei testi messi a punto per la schiera di 25 attori che su questa solcano la pianura come oceano aperto.

Moby Dick è prima di tutto un capolavoro di falegnameria e artigianato. Il carro (di 12 metri per 8 di ampiezza) verrà trasformato nel Pequod, leggendario bastimento melvilliano, direttamente dall’azione degli attori acrobati del Teatro dei Venti: la cura e l’allenamento, la spettacolarità data dalla preparazione fisica degli attori portano a un livello ancora più alto quello che da anni è il lavoro di ricerca della compagnia, il cui interesse è stavolta di pari misura artistico quanto organizzativo. La macchina è perfetta, una sfida dal sapore epico che non vuole essere puro intrattenimento ma soddisfa anche le esigenze di chi, nella grandezza dello spettacolo di piazza, ha necessità di essere stupito.

Ismaele il sopravvissuto si presenta, il ponte viene lavato e fatto risuonare a suon di secchi e stracci mentre il complesso su cui di lì a poco si installerà il claudicante Achab dà il ritmo a poppa. Si alzano i pennoni, si spiegano le vele, si costruisce in tempo reale. È una bambina aggrappata alle transenne che delimitano la scena di piazza a darmi una lettura bellissima nella sua semplicità del grande Leviatano del Teatro dei Venti: “ho capito cos’è! È una nave mangiata da una balena!”.

Il Teatro dei Venti è consapevole di quanta semplificazione possa darsi negli spettacoli di strada, ma il cetaceo che divora la nave non è certo stilizzazione né fatto di tecnica o spettacolarizzazione. Piuttosto è il fondo oceanico, sostiene. Con Moby Dick la compagnia ha voluto, cercato e portato sul ponte del Pequod e nella piazza di Carpi il vuoto insito in qualsivoglia ricerca e lo ha fatto attraverso lo scheletro legnoso del cetaceo. Con un fantasma. Con quella casellina mai piena che porta al movimento inesausto, necessario proprio in quanto frustrato e votato al fallimento: la balena è figura a un tempo dentro e fuori e fra il suo scheletro di legno, portato da braccia umane sul ponte che lo costruiscono pezzo dopo pezzo con la bocca protesa verso prua, si affacciano a ritmo d’onda gli attori; Achab resta l’anti-eroe, divorato dalla stessa coscienza di non poter seguire un altro e più sicuro percorso: in caccia da milioni di anni, sicuro della ricorsività di un’inquietudine che sia lui che il Leviatano portano già costruita dentro, opera di braccia umane o di altre braccia. La balena va inventata, ricostruita di volta in volta.

Con Moby Dick assistiamo a un archetipo il cui timbro dominante vuole raggiungere le profondità del rito. Chi ha avuto la fortuna di riemergere dalla lettura del romanzo melvilliano forse potrà avvertire la mancanza di quell’ironia e leggerezza che – non lo si penserebbe mai eppure è così – pure vive nel fondo archetipico della storia, che è insieme tante storie e storie di tanti. Allo stesso modo in cui questo rito finisce per creare in chi guarda un ulteriore vuoto nel finale, nel faccia a faccia dell’uomo con questa enormità: qui intenzione, ma non potenza del gesto. Una possibile traccia, forse, in quanto la scia che nell’immaginario ha il colore bianco del Leviatano e adesso risuona del legno del Teatro dei Venti sembra una nuova forma di invito per lo sguardo: verso l’ampiezza e verso la ricerca che anche se non muove in avanti, muove.

Di Maria D’Ugo

Ph: @Chiara Ferrin