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L’ultima parola: l’ibrida creatura della Compagnia Barletti/Waas

Strana creatura teatrale quella evocata dalla Compagnia Barletti/Waas sul palco (e platea) del Teatro Astra di Torino. Non è un mostro mitologico – tipo il Minotauro per intendersi – nato da illecite congiunzioni; non è un dio bifronte e, forse, non è nemmeno una coppia di gemelli siamesi. Non è un freak show. È uno strano effetto di rispecchiamento, come nella serie Fringe, dove i personaggi si guardano da due universi paralleli in cui le cose sono non proprio identiche e nemmeno agli stessi posti. Ci sono minime, ma significative differenze, con il potere di mutare radicalmente i percorsi di vita. L’ultima parola della Compagnia Barletti/Waas regala questa sensazione.

Due testi in partitura: L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e Finché il giorno non vi separi di Peter Handke. Due spazi scenici differenti ospitano le due parti di un dialogo mai avvenuto ma possibile nell’infinita serie di universi paralleli: il palco per il testo di Beckett e la gradinata per il monologo di Handke. Il pubblico è sul palco come in un mondo alla rovescia.

Werner Wass accoglie gli spettatori seduto su una semplice sedia, Indossa un rigido vestito sporcato di gesso rappreso e, con la nobiltà di un re, mangia una banana. Il frutto è l’unico oggetto di scena ed è significativo, perché l’azione, come in Tenet di Nolan, anticipa l’evento. Sì, avete capito bene: la vicenda di Krapp viene raccontata successivamente e gli occhi e le mani racconteranno di quella banana già mangiata, sbucciata e buttata appena siamo entrati in scena.

L’ultimo nastro di Krapp è detto, semplicemente, senza enfasi. Non uso il verbo recitato perché non si finge un bel niente e non ci si prova neanche a farci credere che quell’uomo seduto è Krapp. L’attore dice il testo scritto da Beckett con tutte le didascalie comprese le pause. Il motivo lo scopriremo più avanti. Il corpo di Werner Waas ci mostra dei barlumi di Krapp, della sua fisionomia, dei suoi gesti ripetitivi e insensati, delle sue espressioni vacue e asettiche, efficaci come quelle di un clown, ma subito se ne distacca proseguendo nel suo dire.

Si giunge così al finale di partita. L’attore recita l’ultima didascalia: «sipario», esce di scena e le tele che ingabbiavano il palco cadono a terra mostrandoci la gradinata in cui è comodamente seduta Lea Barletti ed è situata la postazione del musicista Luca Canciello. Siamo dall’altra parte dello specchio in questo mondo di Alice. Ci troviamo di fronte a quella donna sconosciuta di cui ci ha raccontato Krapp nel suo ultimo nastro, quella su si è steso sulla barca nel canneto dopo averle confessato che di non aver più niente da dirsi.

Eppure la donna sconosciuta ha tanto di cui parlare. E quello che vuole dire a tutti i costi non è soltanto la sua versione dei fatti. Sarebbe troppo semplicistico e sarebbe ridurre la partita a nient’altro che una ripicca, una lite tra ex amanti. Tra la donna e Krapp vi è una distanza incolmabile generata dalla distanza delle rispettive visioni del mondo.

Facciamo un solo esempio: le pause e il silenzio. Per Krapp sono calcolate, studiate per fare effetto, per farci ridere, per farci intendere senza ombra di dubbio che tutto quello cui stiamo assistendo è senza scopo alcuno. E il silenzio è solo il preludio a un’altra frase, è l’anticamera del verbo, non vale da solo. La donna sconosciuta invece ama il silenzio di per sé, non vuole colorarlo d’attesa, se lo gode così com’è. Quando lo descrive ci ricorda John Cage quando affermava che la pausa nella musica tonale è solo un ponte e un legame tra una nota e l’altra, non è il silenzio. E poi il silenzio non esiste, è solo l’assenza del nostro blaterare. Appare quando l’io tace e quello di Krapp non tace mai: non solo parla con se stesso, ma si ascolta parlare in un loop eterno.

Una seconda differenza è il dialogo con l’improvvisazione musicale. La parola deve trovare il varco tra i suoni, deve scoprire un piano di coesistenza con la musica. Se prima Krapp è stato un dittatore assoluto, signore del tempo come Crono, la donna sconosciuta danza tra il suono e il silenzio senza un piano prestabilito. Ciò che avviene non è sempre uguale a se stesso, prevedibile e ripetibile, ma è eternamente cangiante. E questo coesistere con l’improvvisazione musicale evoca sulla scena un’altra pièce di Beckett, Words and Music, un radiodramma musicato da Morton Feldman in cui sono proprio parole e musica a contendersi lo spazio.

La donna sconosciuta è legata a Krapp, così come Krapp è avvinto a lei. Non possono lasciarsi. Lui la evoca, lei parla con il suo fantasma, con il manichino dei suoi vestiti abbandonato in scena sulla sedia. Uno non vive senza l’altra. Ordine e caos, improvvisazione e riproducibilità, in perpetuo dialogo. Forse è questa la chiave di questa strana creatura scenica: come nelle dispute filosofiche tibetane, tesi e antitesi hanno la stessa consistenza del fumo. Bianco e nero sono uno l’eco dell’altro e il loro dialogo consiste nel vicendevole trascolorare.

Teatro Astra, Torino | 22 maggio 2025

regia: Compagnia Barletti/Waas

con Lea Barletti, Werner Waas

musiche originali eseguite dal vivo: Luca Canciello

scene e costumi: Ivan Bazak

aiuto regia: Paolo Costantini

produzione: Compagnia Barletti/Waas, TPE (Teatro Piemonte Europa), Teatro della Tosse, Florian Metateatro, TD-Berlin

con il sostegno di: Goethe Institut Culture Moves Europe / CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Itz Berlin e.V.

Il frutto del fuoco: Giovanna D’Arco di Paolo Costantini e Federica Rosellini

|Enrico Pastore

Giovanna D’Arco, pulzella d’Orleans, santa vergine guerriera, è salita sul palcoscenico infinite volte da quel 30 maggio 1431 quando il fuoco del rogo ne uccise la carne ma perpetuò il mito. Lo ricorda anche il regista Paolo Costantini, autore di questa novella incarnazione di Giovanna attraverso l’opera meravigliosa dell’attrice Federica Rosellini. La storia ci ha dunque consegnato una legione di diverse versioni della giovane santa da chiedersi chi sia stata veramente e quale di queste si avvicini a colei che visse e patì la guerra e la (in)giustizia degli uomini.

In questa Giovanna D’Arco andata in scena al Teatro Astra di Torino, Paolo Costantini e Federica Rosellini provano a restituirne l’umanità nascosta dietro il belletto della leggenda. È impresa difficile se non impossibile perché la donna che vediamo agire e patire in scena, è già un frutto del fuoco, è immagine agente, corpo glorioso, non abituale o normale, assolutamente non naturale ma extra-ordinario. Questa Giovanna è infatti ennesima incarnazione e non può non aver inciso nelle sue carni i fantasmi delle sue innumerevoli apparizioni. Per usare le parole di Nezval è donna plurale e multipla. Giovanna ha recitato per Brecht, ha sfilato nei pageant suffragisti di Edith Craig, ha posato in armatura sexy e sguardo angelicato nelle fattezze di Cléo de Merode, ha subito il martirio cinematografico attraverso la carne di Renée Falconetti, è stata figlia delle visioni allucinatorie di Milla Jovovich. Tutti questi fantasmi, e mille altri ancora, sussurrano tra le quinte i loro suggerimenti al corpo dell’attrice, spingono oltre il buio della scena per irrompere davanti agli occhi dello spettatore e non deve essere facile ricacciarli indietro.

D’Annunzio ne Il fuoco scrive: «il carro di Tespi, come la barca di Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini». Il teatro e la morte vanno a braccetto. I vivi possono solo osservare lo spettacolo, non farne parte, per quanto si voglia oggi a tutti i costi farli partecipare alla danza. Come diceva Carmelo Bene, in scena bisogna morire molte volte.

La Giovanna che appare ai piedi di quel fascio di tavole e tronchi – albero delle fate dal cui fusto inizia la sua leggenda, ma già, in nuce, catasta per il rogo -, è pronta per queste molte morti, le anela quasi, vuole il fuoco che la trasformi, desidera l’incendio e perfino lo chiede alla fine: bruciatemi! Ah, se fosse uscita di scena dopo aver semplicemente esclamato: «ho caldo», sarebbe stata un’uscita degna di una santa capace di incidere segni tra le fiamme, invece è tornata in scena con un fucile e ha sparato due volte. Chissà perché.

Federica Rosellini è stata capace di dar vita a una Giovanna nuova, ardente, rabbiosa, disperata, fidente e sfidante, pur nutrendosi delle infinite variazioni di sé che la hanno preceduta. Taglia da sé l’albero delle fate da cui giunge al popolo; costruisce da sé la catasta di legna del suo proprio rogo. E nel farlo spacca la legna con un’accetta proferendo la sua invettiva e in questa furia in cui la parola prende corpo dall’azione emerge l’immagine di Artaud che come lei usava l’accetta per spaccare legna mentre proferiva parole di fuoco.

Federica Rosellini regala al pubblico una grande prova d’attrice e non serve scomodare la performance, che è altra arte con altri valori e intenti. Anche il performer parla per immagini attraverso il corpo, ma si rifiuta di evocare fantasmi, di agitare il mondo delle larve di fronte all’occhio dello spettatore. Evocare un mondo attraverso la maschera è arte dell’attore e sua soltanto. E Federica Rosellini lo sa fare molto bene.

Giovanna D’Arco torna sulla scena senza la pretesa di guidare le folle e gli eserciti, e vorrebbe tanto non essere una bolla di vetro incandescente nelle mani di un vetraio nascosto e udibile solo a tratti e con mille voci. Eppure, nonostante questo, nonostante vorrebbe essere altro, Giovanna rivendica la sua unicità e la sua missione. Che la brucino, o le taglino la testa, quei vecchi dalle lunghe barbe che si ergono davanti a lei come giudici, quegli ipocriti che agitano valori da essi stessi traditi. Giovanna li sfida, non li teme, non ha paura del fuoco perché lei stessa è frutto del fuoco. Giovanna non guida più gli eserciti oggi, può solo sfidare ancora e ancora ,con il corpo e con l’animo, il potere infido e ipocrita. Viene ancora una volta immolata. Non poteva essere altrimenti, niente è cambiato da allora se non la forma del potere, ma non la sua ipocrisia, la sua falsità, la sua abiezione. Il valore di Giovanna sta nell’essere sconfitta eppure nella morte risultare vincitrice. È nel suo divenire rogo che ci parla con forza. La sua sfida è il vero valore, la sua sfida rende ridicola la vittoria del potere. Giovanna, come Jan Palach, vivono nell’estremo sacrificio di sé, spingono altri a imitarli, a ribellarsi e fanno sì che la vittoria del potere non possa mai dirsi definitiva.

Teatro Astra, Torino | 7 maggio 2025

Too late: perturbazioni esistenziali secondo Jon Fosse

Too late. È la scritta che campeggia all’apertura del sipario nella penombra della scena. Non è tanto un ammonimento quanto una sentenza. O un epitaffio su una lapide. Non c’è scampo a qualcosa di filato e reciso dalle Moire. La sensazione che si prova di fronte a questa insegna luminosa pur accattivante nella sua ineludibilità è di perturbante spaesamento. È strano che all’inizio di uno spettacolo si dica apertamente che è ormai troppo tardi. Di solito si comincia lasciando ai personaggi tutte le strade aperte allo sviluppo, anche quando si è nel tragico laddove all’eroe non è dato scampo, oppure quando si tratta di una trappola per topi si lascia cullare l’illusione che qualcosa si possa pur fare. Qui no. È troppo tardi. Ed è strano.

La stranezza di cui si parla pertiene a quello che Mark Fisher definisce come weirdness, ossia quella qualità che identifica qualcosa che non dovrebbe essere come appare, qualcosa che è fuori posto o addirittura non dovrebbe esistere, qualcosa che: «segnala il nuovo, quello che non torna, quello che necessita di nuovi strumenti di interpretazione». Quest’ultimo aspetto è il più importante per ottenere una chiave di lettura per Too late di Jon Fosse, spettacolo andato in scena prima al Nazionale di Genova e in seguito al Teatro Astra di Torino, magistralmente diretto da Thea Dellavalle e ottimamente interpretato da Anna Bonaiuto, Irene Petris, Roberta Ricciardi, Emanuele Righi, Giuseppe Sartori.

Tre grezze mura. Un letto, una panca, qualche tela. È questa la scena su cui si svolge una vicenda il cui esito è già dato. Too late. Ma se il finale è già rivelato, se non c’è niente da svolgere, da dipanare o risolvere qual è il fine di quello a cui andiamo ad assistere? È una forma di teatro che mette in questione il nostro modo di vivere le relazioni, dove vengono poste delle domande scottanti nei cui riguardi non abbiamo strumenti validi per fornire delle risposte, perché non c’è soluzione allo stato attuale di sviluppo della nostra società, ma andrebbe cercata. Siamo di fronte dunque a una forma di teatro alla ricerca di nuovi strumenti di interpretazione del reale, che non ha risposte ma domande, che non ha ricette ma le cerca insieme al proprio pubblico.

Quello che avviene in scena è la messa in discussione delle scelte di Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, colei che abbandona marito e figli per intraprendere una nuova vita non più scontata, né ingabbiata dalla convenzioni, né tanto meno obbediente ai dettami della società di fine Diciannovesimo secolo in cui la donna era o madre o prostituta. Ma è veramente così? O i riferimenti a Ibsen sono una trappola interpretativa? Perché tutto lascia pensare che la vicenda di Nora si ripeta ancora e ancora senza via di scampo.

La Nora matura (Anna Bonaiuto) sulla soglia della terza età guarda se stessa giovane (Irene Petris), vede se stessa amare il marito ed essere imprigionata dai suoi doveri di madre e di moglie, si vede essere gelosa di altre donne più giovani. Si vede il marito (Giuseppe Sartori), con la sua ombra (Emanuele Righi), cercare di chiudere gli occhi e dormire senza pensare al tempo che passa e alle difficoltà che insorgono. Si sentono di lontano i pianti dei bambini, quei palloni sgonfi e pesanti che capitano in scena.

La Nora di oggi osserva quella di ieri che non è quella di Ibsen anche se potrebbe esserlo e in effetti per qualche istante lo è apparendo in scena con il suo vestito ottocentesco rosso fiamma. Tutto sembra ripetersi come è già stato, eppure vi è il rimpianto, il dubbio che forse sarebbe potuto essere diverso.

Anche l’amante giovane del marito (Roberta Ricciardi) avrebbe potuto non essere. Se Nora non fosse stata gelosa, se non avesse posto ogni istante l’attenzione sulla gioventù delle altre donne, forse il marito non avrebbe volto gli occhi altrove? Se lo chiedeva anche la Foscarina, alter ego della Duse, nel Fuoco di D’Annunzio: sono stata io a spingere Stelio Effrena nella braccia di Donatella Arvale? Ma è una falsa prospettiva. La questione è più sottile, meno scontata.

La Nora odierna si domanda se la scelta di andarsene sia stata giusta. In fondo, si dice, i suoi quadri non sono granché, quasi nessuno li compra, i figli la ignorano, il marito è morto, Resta la solitudine. Nora però si riscuote e afferma con un certo orgoglio: io ho fatto la mia vita, non mi sono abbattuta, sono stata me stessa contro tutto e tutti. Anche questo risultato è una falsa prospettiva. La questione non è il successo o il fallimento di una vita.

Infatti è proprio qui, alla fine del percorso, quando quelle mura che fanno gabbia si aprono e scompaiono, ecco ancor più forte la weirdness di cui si parlava all’inizio, quel perturbamento che necessita di altri strumenti interpretativi per placare l’inquietudine che crea. Ciò che è fuori posto, ciò che è ma non dovrebbe essere come appare, sono le relazioni sentimentali e la loro mancanza di adattamento al mutare delle condizioni nel tempo. Come scrive Fisher: «gli esseri umani sono fin dall’inizio – da prima dell’inizio, prima della nascita dell’individuo – intrappolati in strutture mitiche. E va da sé che la famiglia stessa è un’altra di queste strutture mitiche». Too late.

Ciò che Ibsen metteva in questione nel 1879 era una società maschilista e capitalista che vedeva la donna sposata come ninnolo in una casa di bambola, malaticcia e totalmente dipendente dal marito. La Nora del 2025 nonostante i mutamenti si trova ancora immersa in quel tipo di società, ma è anche parte di un mondo in cui l’emancipazione solo sognata a fine Ottocento dovrebbe essere ormai acquisita e non lo è. L’istituto di famiglia e le modalità di negoziazione dei desideri in una coppia sono obsoleti e finché rimarranno tali sarà sempre troppo tardi qualsiasi sia la scelta effettuata. La norma e la consuetudine sono la trappole che uccidono qualsiasi desiderio. Rimanere? Andarsene? Il risultato non cambia. Se tutto rimane quello che è, se non ci dotiamo di nuovi strumenti di relazione e di comprensione del reale, per Nora e per tutti noi sarà sempre troppo tardi.

Teatro Astra – Torino | 25 marzo 2025

Maguy Marin apre a Torino Palcoscenico Danza

Iniziare il proprio festival con due pezzi d’annata di una grande riformatrice come Maguy Marin può sembrare una scelta azzardata da parte di Paolo Mohovich, direttore di Palcoscenico danza, soprattutto oggi dove ogni cosa che guarda al passato è vista come nostalgica. Tutti sono rivolti verso il futuro, uno qualsiasi, anche se ancora non si è capito quale sia.

Partire dalla memoria sembra invece un ottimo auspicio per la nuova edizione della rassegna torinese. Capire da dove si viene, per comprendere meglio che strada intraprendere, magari per ribellarsi al sentiero posto sotto i nostri piedi, ma consapevoli di quale sentiero ci ha portati fino a qui. Come diceva Benedetto Croce: «la storia è sempre storia contemporanea».

Merito di questa operazione di recupero dai fondali della memoria è da attribuirsi a MM Contemporary Dance Company di Michele Merola che ha deciso di riproporre al pubblico questi piccoli gioielli della danza. Peccato che tra il pubblico ci fosse un’esigua partecipazione di giovani danzatori a cui principalmente sarebbe stato utile uno sguardo profondo nel recente passato.

Duo d’Eden (1986): un uomo e una donna entrano sulla scena. Indossano una tutina color carne. Il costume è anche maschera. I volti sono inquietanti, deformi, con i capelli fulvi e arruffati. Potrebbero richiamare un mondo primitivo, forse innocente, sicuramente più animale, ma anche alludere ai volti dolenti dei progenitori cacciati dall’Eden dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze. L’aria si riempie di suoni di pioggia e di tuoni e questo ci spinge ancor di più verso un cammino che vede nel duetto un’eco di immagini. Il tuono ci fa balenare sulla retina un’immagine persistente da La tempesta di Giorgione, quadro misterioso, allusivo delle vicende dell’eden, dove i progenitori sono già stati cacciati. E se il sodato è Adamo, in riposo dal duro lavoro, quella zingara seminuda con il bambinello tra le braccia altro non è che Eva dopo aver partorito con dolore. E la città sullo sfondo è proprio l’Eden da cui ormai sono esclusi.

Duo d’Eden, potrebbe aver quindi un’atmosfera meno serena ed erotica di quanto si è immaginato. I due corpi, così materiali ma anche pieni di grazia, si inseguono ma ricercano spasmodicamente quell’unione ormai persa, quell’essere una sola carne avanti l’incidente della mela. I corpi lottano contro la gravità e la fatica. Si avvinghiano l’un l’altro, ruotano come stelle binarie in perenne rivoluzione una sull’altro.

La grazia perduta viene dalla sprezzatura, quell’attitudine che Baldassare Castiglione diceva aver qualità di far sembrar facile quello che non è. Tutto trama contro di loro. Gli elementi vogliono la loro caduta, non importa se già avvenuta, perché avverrà, non si potrà in eterno battere la fatica. La bellezza di questa danza vive di instabilità, finitezza, precarietà. Forse proprio perché i due progenitori sono caduti nelle sabbie del tempo, nella tempesta segnata da un prima e un dopo il tuono, e solo nel tempo può vivere la bellezza, pienezza destinata a sfiorire. Nell’eternità dell’Eden, al contrario, tutto si equivale nella perfezione.

Grosse fugue (2001) è un confronto con Die Grosse Fuge op. 133 del grande Ludovico Van. Il pezzo, prima di divenire un numero di catalogo a sé stante, sarebbe dovuto essere l’ultimo movimento del quartetto d’archi n.13 in si bemolle maggiore op. 130. Gli esecutori dell’epoca lo trovarono superiori alle loro forze. Tutte quelle dissonanze, i cambi di tonalità, quella ritmica così balzana ma fortemente innovativa era impossibile da eseguirsi. Il maestro ormai sordo e incamminato verso la dissoluzione delle forme classiche, soprattutto della sonata, urlò e protestò ma alla fine riscrisse un finale più sereno e la grande fuga divenne un pezzo autonomo.

Inutile dire che oggi è considerato un capolavoro, così avanti sui suoi tempi da essere considerato dai suoi contemporanei un orrore e un’aberrazione dovuta alla sordità.

Maguy Marin si confronta con il pezzo di Beethoven non solo dal punto di vista linguistico, contrappuntando la musica con la danza, ma infondendovi nuove immagini, una vena ironica, e messaggio politico.

Quattro donne vestite di rosso entrano in scena, come le quattro frasi melodiche che si rincorrono in questa grande fuga. L’ardita composizione spinge al virtuosismo le danzatrici, costrette a rincorrersi, a stare al passo. Sia l’ascolto come la visione anelano a un momento in cui il ritmo conceda almeno un leggero calare. Improvviso ecco giungere un breve attimo di pausa, quel meno mosso e moderato racchiuso da due parentesi costituite da due allegri molto e con brio, le donne quasi si rilassano, rilasciano un sospiro di sollievo che dura troppo poco e ci strappa un piccolo sorriso. Ed ecco nuovamente a intrecciarsi con brio, a correre dietro il tempo. Non possiamo non pensare a questa vita pazza che ci siamo autoimposti, schiavi per volontà, supini al diktat di essere sempre produttivi e performanti prima che il buio cali su di noi.

Ciò che più sorprende in questi due pezzi di Maguy Marin è la loro attualità, il non essere per nulla datati, freschi come uova di giornata. Una danza tecnica, ma capace di liberarsi dal virtuosismo fine a se stesso regalando nuove immagini. Questi due pezzi brevi non si chiudono su se stessi, ma aprono porte e finestre nel palazzo della nostra memoria, facendo irrompere immagini e associazioni. Una danza di corpi coinvolgenti, mai autoreferenziali, corpi liberi perché capaci di andare al di là della tecnica, padroni del tempo, dello spazio e della gravità. Portare nuovamente sulla scena questi due piccoli capolavori di Maguy Marin, è stato un gesto di grande generosità di cui non si può essere che grati.

Torino, Teatro Astra | 21 gennaio 2025

Come gli uccelli de Il Mulino di Amleto

Il 10 ottobre 2023, anteprima del Festival delle Colline Torinesi, ha debuttato nella sua prima italiana Come gli uccelli, la nuova creazione de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi da un testo di Wajdi Mouawad. Prima di inoltrarsi nell’analisi di questo complesso lavoro teatrale è necessaria una piccola premessa. Quanto si esplora in questo pezzo non è frutto della visione dello spettacolo al suo debutto, ma dell’intensa frequentazione delle prove dai suoi inizi nella sede della compagnia a San Pietro in Vincoli a Torino fino alla generale tenuta al Teatro Astra il 7 ottobre. Chi scrive non ha dunque visto l’esito, ma il processo creativo che ha portato alla forma finale. È stato un enorme privilegio poter seguire da vicino i primi passi, i tentennamenti, i prudenti approcci a un testo complesso e difficile, passare attraverso le fasi di comprensione delle singole scene, ammirare le metodologie adottate per arrivare alla creazione, e infine osservare la crescita fino alla forma finale, da non considerarsi mai conclusa in un arte fluida come il teatro.

Vi parlerò quindi di questo viaggio a partire dal testo di Wajdi Mouawad, di cui dovrò dire senza rivelare, per non togliere il gusto della scoperta di un’opera costruita su un mistero che deve essere svelato solo agli occhi di chi guarda e non di chi legge.

Come gli uccelli è una dramma in quattro atti che si configura come un tragedia contemporanea dove al fato degli dei si sostituisce la correlazione quantistica. Come due particelle mantengono il loro legame anche a distanze siderali al di là del tempo e del principio di realtà, così i personaggi sono costretti a incontrarsi e vivere le loro storie per un vincolo conseguito fin dal Big Bang, e per quanto possano opporsi niente potrà impedire che si incontrino. Ma le forze della fisica collidono con quelle della storia e così il conflitto israelo-palestinese, in questi giorni tornato alla ribalta per la sua cruenta e irrisolvibile tragicità, spezza quei legami e riporta le particelle umane allo stato di solitudine.

Come gli uccelli presuppone e sviluppa due modelli. Il primo è Antigone (ma sullo sfondo vi è anche l’intera Orestea e il tema del perdono) nel rappresentare l’antagonismo tra una legge antica, come quella del sangue, e una nuova legge che Eitan e Wajida provano a scrivere. Il secondo è Romeo e Giulietta, nella narrazione delle vicende di Ethan, ebreo, e Wajida, araba statunitense, uniti dall’amore e divisi non da faide familiari ma da un muro, non solo fisico ma storico e sociale, che scinde due popoli in guerra per la stessa terra. Il loro rapporto è ostacolato molto prima del loro venire al mondo, fin dalla guerra del 1967, quella Guerra dei sei giorni cui quella di oggi tanto somiglia, fin dalla strage di Sabra e Shatila del 1982. Il testo si sviluppa come un film di Nolan, scorrendo avanti e indietro nel tempo, e muovendosi furiosamente nello spazio. É un testo complesso, non solo per lo sviluppo temporale e spaziale, ma nell’uso di diverse lingue (l’ebraico, l’arabo, il tedesco e l’italiano) e per la durata (nell’originale messa in scena di Mouawad si superarono le quattro ore).

Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto hanno accolto la sfida e la ricchezza di quest’opera e si sono immersi fin dal settembre dello scorso anno, in un processo di scavo per trarre una propria drammaturgia e una personalissima e originale opera teatrale che non è una messa in scena ma una riformulazione del materiale originario.

Nelle prove si sono indagati i presupposti, i sottotesti, le premesse non esplicitate per giungere a dar vita sulla scena a personaggi consistenti, profondi e continuamente lacerati nei propri sentimenti dagli eventi storici e dalle identità imposte dalla società.

Tale processo si è distillato con l’uso di diversi strumenti, dalle improvvisazioni, agli Etudes, ossia studi fisici sugli antecedenti e le motivazioni nascoste, alla discussione a tavolino. Ma il primo scopo era costruire un sentire comune al gruppo di attori, un rispondere agli stimoli come in una partita di tennis, tenendo viva la pallina che passa da un campo all’altro. E a questo si è giunti attraverso l’uso di una serie di esercizi e giochi volti a scardinare o bypassare il pensiero razionale per giungere a una risposta istintiva sostenuta dalla saggezza del corpo.

Facciamo un semplice esempio: la scena iniziale nella biblioteca a New York, che vede l’incontro straordinario, e apparentemente casuale, tra Eitan e Wajida grazie a un fatidico libro, è transitata attraverso varie fasi e stati d’animo: la letteralità fin nell’espressione diretta delle didascalie, la dilatazione inclusiva di un prima non detto dal testo ma necessario per la creazione di un contesto, infine asciugandosi fino a giungere all’osso, all’essenziale, scartando il superfluo, l’ovvio, il teatrale, fino a una fisicità che parla oltre le parole. Il materiale testuale è stato quindi gonfiato e poi scarnificato senza pietà, con la precisione del cacciatore che eviscera la preda con grande rispetto. Il pubblico non si è trovato di fronte a una messa in scena ma a una vera e propria opera autonoma in cui il teatro esprime il proprio linguaggio al di là e attraverso il testo letterario.

Tutti i materiali impiegati tendono a questa essenzialità, dove non vi è un elemento che sottolinei l’altro, ma tutti si rafforzano congiungendo in coro armonico segnali diversi. La scenografia si configura in pochi, semplici elementi: il muro enorme, di una matericità alla Anselm Kiefer, il letto d’ospedale, i tavoli della biblioteca, una poltrona, delle valigie. Questi oggetti parlano una propria lingua insieme agli attori, assumono diverse funzioni, diventano luoghi diversi. Il muro per esempio non solo divide, ma crea gli spazi, determina le luci, si fa schermo per le proiezioni, diventa un calendario.

Il suono sussurra i luoghi e i tempi, parla delle stragi e degli atti di guerra, racconta gli spazi degli incontri, diventa preghiera e scatena il dolore, il tutto senza parole al di là delle parole, rispondendo in contrappunto al gesto, alla scena, al racconto. Le proiezioni non sono solo lo strumento per palesare il sottotitolo, ma configurano fisicamente la distanza dei linguaggi e delle scritture, e creano spazi non fisici, aprono finestre su altri mondi.

Tale lavoro di trasfigurazione alchemica delle parole in atto fisico che implica più linguaggi agenti in sinfonico accordo, ha avuto bisogno di tempo, un elemento essenziale alla creazione a cui Lorenzi si sta dedicando da molti anni. A partire dai vari cantieri Ibsen, sottotitolati Art needs time, Marco Lorenzi e la sua compagnia hanno cercato di guadagnare tempo per il processo artistico. Un atto politico in opposizione a un sistema produttivo sempre più frenetico che spinge alla creazione in soli diciotto giorni di prove. Per gli uccelli è stato preparato tra quest’anno e l’anno passato con più di sessanta giorni di prove. Una conquista dovuta anche alla disponibilità e lungimiranza dei vari produttori e che ha dato i suoi frutti. Si spera che questo non sia un caso sporadico ma finalmente diventi la norma per sostenere gli artisti e la qualità del loro lavoro.

Concludo ringraziando Marco Lorenzi e tutta la compagnia de Il Mulino di Amleto per avermi accolto per molti giorni durante un processo così delicato. Accedere alla loro bottega in questi ultimi anni mi ha fatto comprendere molti aspetti del loro approccio, non voglio chiamarlo metodo perché in teatro ogni metodo smentisce se stesso nella pratica. È stato un privilegio assistere alla nascita di un’opera tanto complessa e profonda e attraversare con loro il Mar Rosso, un segnale forte di fiducia e stima che apre degli spazi profondi alla critica per andare oltre la recensione dell’opera e la visione della creazione finale. Una conversazione che si instaura fin da prima del processo per sospendersi un attimo prima del debutto, per continuare oltre, insieme, nel prosieguo di un dialogo franco volto alla crescita di entrambi al di là dei giudizi.

COME GLI UCCELLI durata 3h con intervallo di 15′

Visto durante le prove dai primi di settembre alla generale del 7 ottobre 2023
di Wajdi Mouawad / consulente storico Natalie Zemon Davis / traduzione Monica Capuani del testo originale “Tous des oiseaux” / adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi / regia Marco Lorenzi / con Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Lucrezia Forni, Irene Ivaldi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Federico Palumeri, Rebecca Rossetti / assistente alla regia Lorenzo De Iacovo / dramaturg Monica Capuani / scenografia e costumi Gregorio Zurla / disegno luci Umberto Camponeschi / disegno sonoro Massimiliano Bressan / vocal coach e composizioni originali Elio D’Alessandro / esecuzione al pianoforte de La marcia del tempo e Valzer per chi non crede nella magia Gianluca Angelillo / video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte / consulente lingua ebraica Sarah Kaminski / consulente lingua tedesca Elisabeth Eberl / un progetto de Il Mulino di Amleto / produzione A.M.A. Factory, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova / in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Festival delle Colline Torinesi / con il sostegno di ART-WAVES e Fondazione Compagnia di San Paolo.