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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – V PARTE

:«L’autenticità si rivela ostile alla società. Per via della sua natura narcisistica, essa opera contro la costruzione stessa della comunità. Decisiva per il suo contenuto non è la relazione con la collettività o un altro ordine superiore, bensì il suo valore di mercato, che bypassa tutti gli altri valori»

Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

:«Lo spirito commerciale è dotato solo di intelletto calcolante, gli manca la ragione e, perciò, privo di ragione è lo stesso sistema, dominato esclusivamente dallo spirito commerciale e dalla potenza del denaro»

Byung-Chul Han L’espulsione dell’Altro

:«Nel principato come nelle repubbliche la libertà si perdette sempre, perché vi fu una minorità audace ed una maggiorità inerte»

Massimo D’Azeglio Scritti politici

Il teatro delle origini greche oltre a essere “luogo da cui si guarda”, era insieme rito e agone, festa e gioco. Si esercitava quindi lontano dalla ferialità del quotidiano. Erano presenti gli dei, le forze dirompenti che agivano sull’uomo, ma era anche una festa, un momento in cui il lavoro era sospeso e non si faceva nulla di utilitaristico. Anche nella rinascita medievale il teatro si era sviluppato nella dimensione del sacro e della festa, dal sagrato della chiesa ai carri della fiera. Vi partecipava non un pubblico ma una comunità, fosse quella della chiesa, del castello, del villaggio. E così nel Rinascimento, dove il teatro era festa, trionfo, rito, nelle piazze come nelle corti. E su fino al XVIII sec. dove cominciò, con la Rivoluzione a trasformarsi in festa e rito civile e non più religioso, ma sempre luogo di ritrovo di una comunità. Nei diari di Casanova si legge dell’intensa vita che fiorisce intorno al teatro: si gioca, si fa società, si cena, si fa politica e si intessono relazioni sentimentali. Lo spettacolo era il perno su cui ruotavano innumerevoli altre attività. Ancora nel Novecento il teatro aveva una centralità civile e rituale, dall’avanguardia alla tradizione e persino nei regimi totalitari, perfino nei campi di sterminio. Pensiamo a Marinetti dove la scena diventava agone di sfida al pubblico, o a Brecht e al suo teatro epico. Ma pensiamo anche a Il Maestro e Margherita di Bulgakov, dove Woland sceglie proprio il teatro per manifestare la sua potenza per poi partecipare alla festa nella Notte di Valpurga. A teatro si è inneggiato al potere cosi come sì resistito e combattuto il potere. In questo il pubblico è sempre stato un organismo comunitario, e il teatro il luogo dove palcoscenico e sala riunivano il mondo e il suo specchio, in un dialogo che proponeva e immaginava possibilità. In questi lunghi mesi di chiusura quello che è apparso purtroppo evidente è che il Teatro è mancato più a chi lo faceva che a chi lo vedeva. Perché questo? E forse perché l’agire dell’artista si è allontanato dalla società? O perché il teatro è diventata arte obsoleta non più capace di tenere il passo coi tempi e con il mondo digitale? Forse è giunto per quest’arte millenaria il tempo di diventare ancor più effimera e lasciar per sempre il mondo analogico?

Oggi l’andare a teatro non ha niente di festivo e certo non è più un rito. Tutto scorre. È la perenne danza di Siva che crea e distrugge i mondi. Niente dura in eterno, ma dobbiamo pur rilevare che qualcosa è radicalmente cambiato, qualcosa che fino a oggi non era mai accaduto: viviamo un tempo e una civiltà basata su un sistema economico che vuole atomizzare la società più che riunirla. Ciò che conta è monetizzare qualsiasi azione, tutto deve diventare lavoro, in un flusso senza pausa alcuna, nell’indifferente presente del h24 sette giorni su sette.

René Magritte, Latraversata difficile, 1963

Lo spettatore (dal latino spectare, guardare, quindi egli è colui che guarda) in questo contesto e nella maggioranza dei casi è chiamato a teatro semplicemente per incrementare i parametri necessari all’algoritmo per determinare e confermare la crescita dell’attività proposta dall’ente richiedente i sostegni. L’algoritmo ministeriale misura solo per il 30% la qualità, per il restante è meramente quantitativo. Le presenze in sala, i biglietti venduti sono diventati quindi l’ossessione di ogni operatore che aspira ai fondi del FUS o delle fondazioni bancarie. Dietro l’ipocrisia dell’Audience engagement, ossia il coinvolgimento dei nuovi pubblici – e per farlo ovviamente si utilizza un termine di derivazione militare -, vi è soltanto un pensiero computazionale volto alla verifica della crescita. Nemmeno i festival oggi sono più una festa, ma per lo più vetrine commerciali dove si fanno sfilare i nuovi modelli davanti a operatori e critici e ovviamente al pubblico, ma più per incassi e borderò che per attuare insieme una vera festa o sviluppare un rapporto vero e duraturo.

L’unica dimensione in cui incontriamo davvero una reale comunità è nel piccolo, nelle periferie, nel provinciale, laddove la community degli habitué difficilmente si dirige e si incontra e stabilisce un rapporto con la cittadinanza. In questi luoghi i teatri sono generalmente luoghi frequentabili al di là dello spettacolo. Sono spazi dove i ragazzi, le categorie deboli, gli anziani vanno a fare delle altre cose insieme agli artisti, sono luoghi in cui si fa teatro ma esso è anche motore per altre attività e legami sociali, dove ci si riunisce e ci si incontra. L’abbiamo visto anche durante la pandemia laddove, in alcuni casi, i luoghi teatrali provinciali e di periferia sono diventati anche luogo di sostegno materiale oltre che spirituale, case dove scambiare storie (per esempio al Teatro Caverna di Bergamo dove sono state distribuite poesie e scorte alimentari, ma anche i vari casi, sparsi da Nord a Sud, di Teatro in delivery, dove la preoccupazione era tenere il filo con la società civile nonostante la pandemia). Ed è in queste realtà che le chiusure dovute al Covid faranno più danni, dallo sfilacciarsi dei rapporti umani ai danni economici che non verranno riparati da nessun fondo specifico. Non saranno i grandi teatri a chiudere, ma le piccole realtà e con loro il lavoro di tessitura sociale in ambienti difficili. Domandiamoci cosa è teatro e a cosa serve prima sia troppo tardi.

René Magritte La reproduction Interdit

I grandi luoghi deputati al teatro, quelli che si stagliano solenni nei centri cittadini, sono, anche in tempi normali, per lo più chiusi al pubblico se non per la rappresentazione. I loro bar sono aperti giusto poco prima dell’inizio della rappresentazione e durante il quarto d’ora di intervallo. Non ci si può soffermare a fine spettacolo, non si può arrivare troppo presto. Si deve guardare e andare via. Non c’è proprio modo di fare comunità. Intorno allo spettacolo non c’è più molta vita. Milo Rau nel suo manifesto di Gent ha provato a riportare l’intero processo produttivo al centro di un vortice che coinvolge l’intera città. La cittadinanza può partecipare alle prove, perfino aspirare a far parte dello spettacolo, frequentando l’ambiente teatro in momenti diversi dalla performance. Gli spettacoli di Rau sono anch’essi volti a ripristinare una ritualità civile dove lo spettatore si trasforma nuovamente in una piccola agorà (pensiamo ai “processi” ma anche al La passione di Matera). In Italia Virgilio Sieni, sia durante la sua direzione alla Biennale di Venezia, sia nei progetti come Altissima Povertà, ha cercato di far risorgere intorno al processo creativo e alla danza un nucleo volto a coinvolgere l’intera comunità, I questi casi citati a cui si potrebbero affiancarne molti altri (Cuocolo e Bosetti, Drama Teatro e Teatro dei Borgia per esempio) si sente ancora la volontà non di fare engagement ma di incontrare e costruire con l’occhio del pubblico un mondo a partire dal mondo. Ma siamo nella minorità.

La maggioranza del mondo dello spettacolo italiano vive dipendendo dal computo dei biglietti e dei borderò. Nel numero non c’è nessuna comunità. L’annuario SIAE del 2019 riporta che nel settore teatrale si sono svolti 132201 spettacoli per 23.328.382 ingressi con 1.180.638 presenze e un volume d’affari di 499.935.318,98 €. Ecco i numeri. Ovviamente non dicono nulla. Li possiamo leggere in svariate modalità, confrontarli con gli anni precedenti (con i successivi registreremmo solo l’enormità di un’assenza), vedere gli incrementi e i decrementi, ma i numeri non ci dicono nulla su quello che chiamiamo pubblico e nemmeno sul perché dovrebbe frequentare i teatri. Se il teatro infatti non è più rito e nemmeno festa e gioco, cos’è diventato? Ha una valenza nella vita delle persone? Gioca un ruolo oltre all’intrattenimento? Veramente come dice Binasco, e non Conte, il compito è non più politico ma limitato a far ridere e piangere? Sono domande che dobbiamo porci prima che riaprano i teatri perché non aver chiaro questo punto significherebbe una catastrofe ben maggiore delle chiusure attuali.

La cultura oggi è presa dalla bulimia e dall’obesità comune a tutti i settori della civiltà neocapitalista. Al supermercato si espone sugli scaffali ben più di quel che si consuma, si laureano più persone di quelle che effettivamente troveranno lavoro e così a teatro di produce più di quello che si può vedere. Le nostre pupille sono invase dal mattino alla sera di immagini, video, post e siti. Siamo in overdose visiva e stanno sorgendo vere e proprie malattie relative alla visione come il binge watching, la dipendenza da serie. Nel visualizzare (non vedere) noi produciamo lavoro e denaro. Paghiamo servizi per le piattaforme, facciamo guadagnare Youtube e chi posta i video alzando il numero di visualizzazioni e così su Facebook con i nostri like. La visione di oggi è un’attività ben lontana dalla sospensione della festa e da qualsiasi otium generante riflessione, siamo nel feriale, nel lavorativo, nel quotidiano agire/patire. Ora anche a teatro questo sta avvenendo appunto con i parametri di crescita: più produzione, più pubblico, più incassi, più fondi. Nessuno si fa una domanda sul perché? Nella società dei metadati e degli algoritmi si contano le teste, si vedono i flussi, ma le intelligenze artificiali non ci dicono mai il perché, ci dicono solo il come e il quando. Come dice Byung-Chul Han: «i numeri contano ma non raccontano». È dunque solo una questione commerciale e di quantità o intorno al teatro vogliamo costruire altri valori? L’occhio di chi guarda deve veramente essere ingozzato come l’oca da fois gras o possiamo immaginare una visione diversa in cui sia possibile anche chiudere gli occhi?

RenÈ Magritte, DÈcalcomanie, 1966, © PhotothËque R. Magritte / Banque d’Images, Adagp, Paris, 2016

Cosa avverrà alla riapertura? É difficile rispondere a questa domanda. Non è mai facile indagare le nebbie del futuro, e ancora di più lo è in questa situazione del tutto nuova per il XXI secolo, ma è senz’altro probabile che alcuni degli effetti di questa pandemia estremizzeranno le pratiche descritte. Aumenterà il divario tra Teatri Nazionali e Tric da un lato e le piccole realtà dall’altro. Almeno quelle che riusciranno a sopravvivere. L’iperproduzione di certo non si arresterà visto che non si è placata nemmeno durante le chiusure (alcuni teatri hanno “in congelatore” più di una produzione), quindi è facile prevedere fin dall’estate un eccesso di eventi e prime. Per i giovani resterà un contesto di concorrenza feroce ed estrema dove le occasioni al ribasso saranno per molti l’unico orizzonte. La digitalizzazione porterà nuove sperimentazioni ma allontanerà ancor di più il pubblico dai palcoscenici, non in termini numerici, ma in termini di qualità del rapporto. Infine Il distanziamento necessario ad arginare la pandemia unita alle strategie di atomizzazione della società messe in atto da capitalismo, rendono il panorama sociale ancor più difficile per chi vede il teatro come luogo di incontro di un corpo comunitario. Come reagirà il pubblico è senz’altro una delle maggiori incognite. Come cantava la canzone, scopriremo queste cose solo vivendole. Vero è che tutti questi mali sono opportunità per ripensare il sistema, per immaginare e provare a implementare strategie diverse, ardite, persino utopistiche. Molti tavoli di discussione si sono aperti in questo disgraziato paese, ma si sta replicando la parcellizzazione dei punti di vista, e il comparto non è stato in grado di agire di concerto. Si è persa forse l’occasione di fermarsi e di riflettere con attenzione su dove la sfrenata corsa al produrre ci stava portando. La speranza è riposta nei giovani, nella loro capacità di ribellione, nelle loro energie capaci di smuovere la massa adiposa e inerte che grava sull’edificio antico del teatro. Solo loro potranno essere capaci di riallacciare i rapporti col mondo e perfino, speriamo, di inventarne uno diverso.

Ringraziamenti

Per questi articoli numerosi e doverosi sono i ringraziamenti. Solo grazie al confronto e al dialogo, informale e amichevole, è stato possibile cercare di analizzare, seppur a volo d’uccello, l’intera filiera teatrale.

Un grazie sentito ai colleghi Walter Porcedda, Elena Scolari, Alessandro Toppi e Michele Di Donato per le lunghe chiacchierate e il fruttuoso scambio di punti di vista. Riconoscenza e gratitudine vanno agli operatori che mi hanno indicato le anomalie sistemiche: Danila Blasi, Magda Siti, Lorenzo Vercelli, Mimmo Conte, Carlotta Vitale, Simonetta Pusceddu, Girolamo Lucania, Damiano Grasselli, Matteo Negrin, Valentina Tibaldi. E ultimi ma non ultimi gli artisti senza i quali non ci sarebbe teatro: Marco Chenevier, Marco Lorenzi e il Mulino di Amleto, Massimo Sgorbani, Gli Instabili Vaganti, La Piccola Compagnia della Magnolia, Liv Ferracchiati, Silvia Battaglio, Erika Di Crescenzo, Nicola Di Chio, Alba Porto, Thea Dellavalle e Irene Petris. Spero di non aver dimenticato nessuno.

Elena Cotugno

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A ELENA COTUGNO

Per la ventesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo Elena Cotugno. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Elena Cotugno e Giampiero Borgia danno vita nel 2013 a Il Teatro dei Borgia. Nel 2019 Elena Cotugno è stata candidata al Premio Ubu come Miglior attrice under 35 per l’interpretazione di Medea per strada.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica è l’obiettivo di ogni artista. L’atto di creazione è qualcosa di estremamente intimo e personale, un atto d’amore puro e complicatissimo, che va rispettato in ogni sua fase e in ogni sua incertezza. Soprattutto, creare, comporta commettere numerosi errori ed errare è umano. Per questo l’attore, o l’artista, devono essere considerati esseri umani prima di qualunque altra cosa. Dunque se creare è errare, potremmo dire allo stesso tempo che creare è umano. Ecco qual è per me la peculiarità della creazione scenica: l’errore umano e chi lo compie cioè l’attore. Io e Gianpiero Borgia, con il quale da anni portiamo avanti un percorso di ricerca artistica personale, crediamo nel lavoro dell’essere umano attore come centro della creazione artistica.

Una distinzione che spesso marchiamo è quella tra creazione scenica e materiali preesistenti o collegati ad essa (testo, tema, musica..). Ci piace considerare il lavoro dell’attore e la sua performance come elemento principe ma allo stesso tempo un lavoro che non discende da questi elementi preesistenti, ma che si serve di essi.

Per cui crediamo che la creazione scenica si concentri essenzialmente sulla gestione del tempo/esperienza che l’attore passa con gli spettatori e sull’attore come creatore, domatore , gestore di questo tempo relazionale. Teatro come tempo gestito ed esperienza condotta dall’attore con gli spettatori.

Elena Cotugno
Elena Cotugno Medea per strada

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so cosa sarebbe possibile fare, immagino però cosa si dovrebbe fare e forse non si farà mai. Il problema è un ribaltamento di paradigma; la creazione artistica dovrebbe essere una frontiera del sapere umano e la parte essenziale del lavoro artistico dovrebbe essere quella che banalmente in ogni contesto aziendale serio viene chiamata fase di R&D (Research and Development). Paradossalmente in Italia, nella fase di creazione artistica, questo argomento è residuale: la ricerca si fa con gli avanzi invece di essere la struttura della creazione. Come si possa cambiare questo paradigma culturale rispetto a contesti europei dove invece questo aspetto è acquisito, francamente non lo so. Bisognerebbe pensare che se si dedicassero il debito tempo e le debite risorse strutturali e finanziarie alla ricerca e all’innovazione, succederebbe che la produzione artistica al posto di essere retroguardia di una comunità, diventerebbe avanguardia. È a questo che noi artisti e operatori dovremmo lavorare: a un ribaltamento dei pesi.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Anche qui la ricetta è complicata. Credo che il problema della distribuzione sia anch’esso legato a un problema di sistema. Mi pongo spesso domande come “perché si distribuisce poco?”, oppure “dove vanno le risorse?”

I circuiti distributivi e tutta la sfera del teatro pubblico sono finanziati da risorse pubbliche ministeriali e territoriali per promuovere la cultura teatrale. Dovremmo chiederci se le risorse vengono effettivamente impiegate per la distribuzione o se invece vengono impiegate per confermare dati di botteghino attraverso per esempio l’arruolamento di artisti della televisione e quindi la colonizzazione di uno spazio di consumo culturale che dovrebbe essere dedicato al teatro e che invece diventa, anche dal punto di vista del linguaggio e dell’espressione artistica, di tipo televisivo, con codici della televisione traslati a teatro. Oppure se per caso le risorse vengono utilizzate per salvaguardare l’apparato del teatro, cioè la parte più burocratica e amministrativa e non quella di creazione artistica. L’impiego dei finanziamenti pubblici e i motivi per cui lo stato finanzia la cultura andrebbero riconsiderati senza prendere scorciatoie che ci portano alla situazione illustrata nella domanda.

Un altro aspetto riguarda il fatto che le realtà di cui faccio parte anche io rappresentano delle nicchie del settore. Forse adesso, da quello che posso osservare della mia generazione di artisti, le cose stanno un po’ cambiando: spero che un’ondata di nuovi artisti riesca a dar vita a un sistema di vasi comunicanti più facilmente di come non abbiano fatto le generazioni precedenti che invece si sono un po’ chiuse in segmenti e settori. Basterebbe forse una maggiore laicità.

Nei mercati esteri è più semplice fare un discorso di travaso da un settore all’altro perché si ha una visione più industriale del sistema, per cui un buon prodotto off può diventare un prodotto mainstream, e questo rende i luoghi deputati allo scouting più interessanti ed efficaci per l’industria. Penso, per esempio, ai Fringe festival dell’estero, nei quali l’industria del business va a cercare prodotti off da acquisire per l’industria mainstream. In Italia si potrebbe cominciare con eliminare un po’ di pregiudizi che rendono impossibile il travaso tra una nicchia e l’altra.

Elena Cotugno
Elena Cotugno Medea per strada

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La risposta è nella tradizione del teatro. Non è la prima volta che il teatro deve affrontare una rivoluzione in termini di diffusione e comunicazione. Il teatro ha già affrontato l’avvento della stampa, della fotografia, della radio, della televisione, del cinema e affronterà anche il confronto con i social media e internet. Come può farlo? Più che mai oggi ciò su cui il teatro deve lavorare è il suo peculiare, cioè la costruzione di un’esperienza unica e irripetibile che valorizzi la dimensione dell’esperienza teatrale come un’esperienza non trasferibile sul piano social, come è successo in passato con altri media. Ragionare quindi sul rituale di condivisione momentaneo ed effimero che si consuma nel rito teatrale. Noi teatranti dobbiamo lavorare sull’esperienza condivisa e momentanea con il pubblico senza vivere con complesso d’inferiorità il confronto con nuovi strumenti di comunicazione, che possono essere inglobati nel teatro diventando pezzi di scenografia o strumenti linguistici a servizio della poetica teatrale, e non suoi sostituti.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il momento ci sta lanciando una sfida bella e accattivante.

Purtroppo tanti degli strumenti che erano propri del teatro (fiction, mistificazione, artificio retorico, spettacolarizzazione) sono diventati strumenti del vivere comune. Per esempio molti politici italiani hanno acquisito know how tipici del teatro e li hanno utilizzati nel proprio operare quotidiano. La sfida bella di questo momento è che finalmente il teatro può avere un rapporto paritario e frontale con la realtà. Io credo che il teatro non debba imitare la realtà, che non sia subalterno ad essa e che non debba precederla o conseguirne. Teatro e realtà possono dialogare tra loro.

Si possono utilizzare abbondanti pezzi di vita quotidiana in questa nostra ricerca e in questa nostra sfida; l’obiettivo che i teatranti devono avere è quello di incidere con il proprio operato sulla realtà, mettendo a confronto le due cose senza un rapporto di subalternità o di confronto. Non è la vita che imita l’arte né l’arte che imita la vita, il fatto è che l’arte ha i suoi diritti e altrettanto la vita. Dobbiamo tener conto di una e utilizzare pezzi dell’altra come sintagmi delle nostre creazioni, sia da un punto di vista stilistico, che di immagine, che di linguaggio.

Ambendo a incidere con le nostre azioni sulla realtà dobbiamo costruire spettacoli che abbiano delle conseguenze su di essa e quindi sulla coscienza delle persone che vi assistono e sulla loro vita.

E infine dobbiamo nutrirci di realtà, cioè smettere di parlare di noi stessi attraverso il teatro ma saper leggere la vita attorno a noi per trovare gli argomenti cogenti e utilizzare il teatro per approfondirli e discuterli con il pubblico; cogliere argomenti che sono già universali e dai quali ci distraiamo quando non siamo abbastanza attenti a quello che sta succedendo attorno a noi. Parlare dell’universo, senza imitarlo.

Per chi volesse confrontare tutte le interviste pubblicate finora:
https://www.enricopastore.com/lo-stato-delle-cose/

Inequilibrio

Il gioco e il ruolo della rappresentazione. Alcune visioni a Inequilibrio Festival

Durante la permanenza al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, è sorta insistente una domanda, un rovello insistente, quasi un personaggio pirandelliano che reclamava attenzione, ossia se l’opera d’arte come oggetto piuttosto che come processo avesse ancora una credibilità. A questa ne seguiva una seconda e più urgente: quali ruoli e funzioni sono ancora possibili per il gioco della rappresentazione? Nel Doktor Faustus di Thomas Mann si può leggere un passo che richiama il quesito posto: «vien fatto di chiedersi se allo stato attuale della nostra coscienza, della nostra conoscenza, del nostro senso della verità, questo gioco sia ancora lecito, ancora spiritualmente possibile, ancora da prendersi sul serio, l’opera come tale, la forma autonoma in sé conchiusa abbia ancora qualche relazione legittima con la mancanza completa di sicurezza e armonia, con la problematicità delle nostre condizioni sociali, e se qualsiasi apparenza, anche la più bella e proprio la più bella, non sia oggi diventata una menzogna». Declinata teatralmente la questione diventa: la rappresentazione di una dinamica narrativa, di un racconto in cui in qualche modo bisogna credere abbandonandovisi è un fenomeno inadatto al contemporaneo? Non è forse più efficace, e quindi anche più necessario, il dispiegarsi, il rendere palese il gioco di finzione, il rendere visibile il meccanismo al fine di ottenere non un processo di immedesimazione ma piuttosto di conoscenza e critica del reale?

Il quesito è diventato vero tormento in seguito alla visione di Cirko Kafka di Roberto Abbiati e Claudio Morganti e della prima traccia di Pelléas e Mélisande della Compagnia Abbondanza Bertoni. In entrambi i casi veri e propri maestri del teatro e della danza hanno presentato dei lavori di grande levatura tecnica e bellezza visiva. Il primo si presenta come un giocoso, ma non per questo meno terribile, meccanismo di tortura. Un processo che Josef K. subisce nella piccola stanzetta di un sottotetto e non riesce mai a farsi tragico ma nemmeno pienamente comico. L’ingranaggio in cui cade Josef K, costituito da una finissima partitura di azioni e suoni, procede come un carillon inceppato, a scatti, per piccole farse ed episodi, sempre in bilico tra una trasognata levità e l’inquietante ineluttabilità dell’insensato procedimento. Pelléas e Mélisande, sulle note dell’omonima opera di Schönberg, presenta invece una danza dal sapore classico seppur contaminata con movimenti sgraziati e quasi parodistici che si sviluppa in ricamo dietro a una serie di proiezioni: tre melograni che spandono pian piano il loro succo inzuppando di rosso il bianco telo su cui son posati, le acque in movimento focoso o cullante a raccontare l’intensa vicenda emotiva e tragica del triangolo Pelléas, Mélisande e Golaud.

Entrambi i lavori, seppur uno finito e l’altro in fase di lavorazione, rimandano a una concezione dell’opera d’arte come risultato estetico di una ricerca sul linguaggio espressivo del corpo sia esso quello di un attore o di un danzatore, frutto di tecnica e ingegno, e destinata a essere ammirata con gli occhi e compresa con l’intelletto. Un’opera d’arte dunque come oggetto opaco, da decifrare, che rimanda a un mondo letterario a sua volta prodotto di cultura e di ricerca linguistica ed estetica, la cui funzione dovrebbe essere principalmente di presentarsi come oggetto dello spirito che allo spirito ritorna e lo modifica essenzialmente. Questo gioco prevede una certa dose di ingenuità che porti a credere in ciò che si vede, a immedesimarsi e compatire, nel senso proprio di sentire insieme. Questo è ancora possibile? Possiamo ancora abbandonarci a un atto di fede? O come diceva Carmelo Bene dovremmo piuttosto chiamare la Croce Verde? La rappresentazione può essere ancora intesa come mezzo per comunicare prodotti dello spirito frutto di ricerche linguistico/estetiche?

Qualcuno potrebbe pensare che il discorso sia ozioso. Altri ancora invece potrebbero dire che il dibattito filosofico ha già analizzato la questione e già da molti decenni (lo stesso passo di Thomas Mann risale al 1947), e che già Duchamp aveva posto le basi per concepire l’opera d’arte come frutto di conoscenza e prassi di una filosofia. Nonostante queste obbiezioni lecite e legittime, credo che il problema si stia ripresentando con una certa urgenza, come se il dibattito avvenuto durante il corso di tutto il Novecento non abbia risolto il problema: quali funzioni sono ancora possibili per l’opera d’arte? L’opera di rappresentazione come oggetto culturale ha ancora una ragion d’essere? È essa stessa necessaria alla nostra società?

Se per esempio prendiamo Atlante dell’attore solitario di Marcello Sambati, dove un grande interprete dotato di maestosa tecnica si presenta come corpo quasi addormentato, trasognato, ma anche in qualche modo torturato e attraversato da dolori e dissidi e che dà voce a tutto questo con sussurri, mormorii, afflati poetici e tragici, ecco di fronte a questo dispiegarsi di mezzi espressivi di alta scuola, si rimane pur tuttavia freddi, distaccati, privi di empatia, come se non ci si credesse a questo gioco, come se mancasse un terreno comune tra pubblico e opera viva. Si ha l’impressione che tutto sia un inganno. Non a caso il Novecento teatrale si aprì proprio con il famoso :”Non ci credo!” di Stanislavskij.

La rappresentazione può ancora giocare sul terreno di questa fiducia dell’occhio che guarda, in questa immersione in un mondo alieno, frutto di tecnica e abilità? Oppure oggi quell’occhio è stato tagliato e violato così tante volte che necessita di altre regole d’ingaggio? Voglio precisare che la questione che sto cercando di porre non mette in discussione la qualità dei lavori, anzi forse a maggior ragione si pone proprio a causa del loro esito di alto livello. Il problema sono le funzioni attribuite e attribuibili alla rappresentazione. La domanda prevede multiple se non infinite risposte che vanno ricercate.

Tra le opere viste a Inequilibrio e che aiutano a gettare uno sguardo sul problema vi sono One mysterious thing, said and cummings, What can be said about Pierre e Olympia, tre pezzi brevi di Vera Mantero, danzatrice e performer portoghese, che si presentano non come oggetti estetici ma come veri e propri atti di pensiero in movimento. Vera Mantero utilizza la rappresentazione come messa in questione della funzione dell’arte stessa. In One mysterious thing, said and cummings affronta la dicotomia tra cultura e natura o, se volessimo utilizzare un vocabolario desueto, tra cultura e civilizzazione, dove la prima può tranquillamente convivere con l’origine animalesca, crudele e ctonia, mentre la seconda tende ad ammantare i prodotti dello spirito di un vapore di positività didascalica ed educatrice. A partire dunque dal volto truccato e splendido nella sua bellezza ecco la luce illuminare gradualmente un corpo i cui piedi sono zoccoli fessi di fauno. In What can be said about Pierre ci si chiede come possa avvenire l’atto conoscitivo attraverso l’accostamento tra una lezione radiofonica su Spinoza di Gilles Deleuze e una danza che tende a esplorare tutte le possibilità espressive. Da ultimo, in Olympia, ispirata dal celebre quadro di Manet, si mette in discussione attraverso una lunga citazione da Asphyxiating Culture di Jean Dubuffet, il ruolo dell’arte come espressione del potere politico e che ricorda, non poco, l’avversione di Carmelo Bene nei confronti dello Stato quando si occupa di cultura e la asserve ai suoi fini snaturandone la carica eversiva.

Vera Mantero utilizza i linguaggi artistici non per esibire un pensiero, né per presentare un prodotto estetico, ma come piano di dissezione del materiale al fine di generare un processo che demolisca gli idoli del pensiero stesso. I lavori messi in scena sono degli anni ’90 ma presentano una modalità valida ancor oggi e delineano una possibile funzione del gioco della rappresentazione.

Medea per strada del Teatro dei Borgia, e di cui abbiamo già trattato durante il Festival delle Colline Torinesi, testimonia un altro possibile esito: la finzione si dimostra per quello che è, non finge di essere realtà. Tutti sanno che chi parla è un’attrice e non una vera prostituta, ma quella maschera che ci accompagna in viaggio sul furgone sgangherato fa parlare attraverso di sé tutta una realtà che tendiamo a rimuovere e che riappare davanti ai nostri occhi proprio grazie al meccanismo di finzione. Si recupera dunque la funzione greco tragica dove la rappresentazione permetteva di trattare un argomento incandescente altrimenti intoccabile e intangibile. Solo attraverso la maschera della finzione appariva aletheia, la verità che velando disvela. Questione questa che attraversa tanto teatro di Milo Rau soprattutto nel suo lavoro dal titolo The Repetition e il reenactment nel suo complesso. Quello che vediamo non è certo l’atto originale, ma nel rimetterlo in scena, nell’attuare i fatti ancora una volta si svela e analizza il processo che lo ha generato.

Questi pochi esempi tratti proprio dalle opere viste a Inequilibrio indica quanto sia vasto il campo di ricerca e attuale il problema e come siano diverse le possibili risposte al quesito. Stando di fronte all’opera d’arte tradizionalmente concepita si avverte ormai un senso di disagio che affligge anche i migliori esiti. Si avverte come la necessità per l’arte di essere qualcos’altro, e dell’esigenza di dotarsi di altri strumenti oltre alla bellezza e alla tecnica nell’affrontare e dissezionare il reale.

Per concludere un’altra citazione da Doktor Faustus di Thomas Mann: «l’apparenza e il gioco hanno già oggi la coscienza dell’arte contro di sé. L’arte non vuole più essere apparenza e gioco, ma intende diventare conoscenza». Forse è su questo campo che si gioca il ruolo della rappresentazione.

medea per strada

Medea per strada: Euripide rivive nelle vie della prostituzione

Al Festival delle Colline Torinesi è in programma fino al 22 giugno Medea per strada del Teatro dei Borgia, regia di Gianpiero Borgia, drammaturgia di Fabrizio Sinisi e l’interpretazione di Elena Cotugno. Lo spettacolo, se così si può definire, non va in scena in un teatro ma in un vecchio pulmino per le strade di Torino diretto verso le sue periferie più lontane.

Il furgone aspetta i sette partecipanti davanti al teatro Astra. È vecchio, ammaccato e arrugginito, all’interno arredato con qualche lucina da addobbo natalizio. Poco dopo la partenza si ferma ad uno stop dove una donna picchia sulla portiera per salire. L’autista senza una parola la fa salire. È molto bella, seppur truccata pesantemente e vestita in maniera un po’ equivoca, e ha un forte accento dell’Est Europa. Chiacchiera del più e del meno, racconta della sua vita in Romania al tempo di Ceausescu, di suo padre e dei suoi fratelli, del viaggio fatto per venire in Italia proprio su un furgone simile a quello.

Il racconto lentamente si intensifica, si inspessisce colorandosi di nero man mano che ci si allontana dalle vie ampie e belle del centro verso quelle anonime e squallide della periferia. La donna, sempre più Medea seppur mai nomini il suo nome, è ingannata nei suoi sogni da un uomo che la sfrutta: il protettore-Giasone, un seduttore che vilmente ingannandola le offre un surrogato d’amore, le concede una casa e diventa anche il padre dei suoi figli. Un illusione di famiglia, un’immagine larva per rendere accettabile la miseria e una vita di sfruttamento. Medea è straniera in un paese che non conosce, senza famiglia e senza amici, sola e costretta a battere le strade. Mentre racconta si prepara per il suo “lavoro”, nell’angusto spazio del furgone si toglie a ripetizione delle mutandine, atto di umiliazione senza fine.

Attraverso il racconto questa donna dai lunghi capelli neri diventa il volto delle migliaia di altre come lei che condividono il suo destino. Dietro i suoi occhi blu, innumerevoli altri occhi guardano i sette spettatori.

Mostra i disegni che ritraggono i suoi figli preannunciando la tragedia. Il furgone intanto si è fermato in Corso Vercelli dove altre ragazze, troppe, ogni giorno vanno a “lavorare”. Medea scende mentre i passeggeri restano seduti imbarazzati.

Risale e si riparte il racconto prosegue, Giasone l’ha lasciata per un’altra donna più rispettabile. Non vuole più saperne dei figli e decide di vendicarsi ma la tragedia non si abbatte solo sulla donna a causa della quale viene lasciata, ma anche su i suoi bambini:”Che altro potevo fare?” chiede disperata, togliendosi il trucco e la parrucca, rivelando così il suo vero volto. Fa segno di voler scendere di nuovo all’angolo di una strada. La vediamo allontanarsi in fretta, lasciando i suoi compagni di viaggio in un silenzio imbarazzato, con l’autista muto che guida verso il teatro da dove tutto è cominciato.

Teatro, lo ricordiamo, deriva dal greco Teatron e significa: “il luogo da cui si guarda”. Un luogo, non un’arte. Un punto di osservazione non necessariamente legato a un edificio. Può essere ovunque. Ma cosa si guarda? Si potrebbe rispondere: la vita e la morte e quindi in senso ampio l’uomo nel mondo. L’etimo e le sue implicazioni sono tutt’altro che vuote curiosità ma la natura stessa di questa Medea per strada. Si è chiamati, come pubblico, a osservare un punto di vista su un mondo che tendiamo a ignorare. Come recita il salmista “hanno occhi e non vedono”.

Quello che appare evidente, rivelata dalla luce del mito antico, è Aletheia, il termine in uso per i Greci stante ad indicare la verità non-nascosta, non dimenticata. Aletheia che velandosi si disvela. Ed ecco il gioco della rappresentazione, la donna a bordo del vecchio pulmino è Elena Cotugno, un’attrice che incarna una figura e allo stesso tempo è narrazione. È finzione che rivela la realtà presente sotto i nostri occhi ma non riusciamo o vogliamo vedere.

Medea per strada potrebbe essere denominato “teatro civile”, ma sarebbe ridurlo in una categoria. È teatro nel senso pieno del termine, luogo da cui si guarda e ci svela una verità sul mondo. Per settanta minuti, attraverso la rappresentazione, osiamo guardare un universo di abuso e schiavitù in grado di fruttare milioni di euro, un racket responsabile di illudere molte donne in cerca di una vita migliore. Le incatena a un incubo di perversione e asservimento al desiderio maschile che è difficile spezzare.

In Medea per strada appare evidente anche una funzione fondamentale della rappresentazione: la presa di coscienza del male del mondo, delle crisi che lo attraversano. Una modalità tramite il quale la comunità di coloro che osservano può pensare e immaginare delle soluzioni per sanare le ferite.

Sul quel furgone in viaggio per le strade delle nostre città non rivive solo la tragedia di Medea, la donna straniera, colei le cui arti fanno diversa ed estranea, ma si palesa anche il senso più vero del fare teatro: aprire gli occhi, imparare a guardare senza distogliere lo sguardo.

Visto al Festival di Torino il 4 giugno 2019

ph: @Andrea Macchia