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Massimiliano Civica

INTERVISTA A MASSIMILIANO CIVICA: per la rinascita di un teatro popolare

In occasione del debutto del suo nuovo spettacolo Belve al Metastasio di Prato (Dal 17 al 22 aprile) ho incontrato in questa intervista il regista tre volte Premio Ubu Massimiliano Civica.

Enrico Pastore: Parlando di Belve, tua ultima fatica: perché scegliere la farsa? E se è impossibile, come ormai si dice dall’inizio del Novecento, una rinascita del tragico mancando noi tutti di un destino che ci elegga, la farsa è la forma del tragico nella postmodernità?

Massimiliano Civica: Io e Armando Pirozzi abbiamo deciso di fare una fare per un gusto di sfida. Volevamo provare a fare uno spettacolo dove il pubblico ridesse molto. Ci eccitava provare a fare uno spettacolo comico mantenendo la struttura tradizionale della farsa, i colpi di scena, le entrate e le uscite dei personaggi, l’agnizione finale. Oltre a questo avevamo anche il desiderio di inserirci nella tradizione in quanto, in vari periodi della storia del teatro, alcuni grandi maestri come Mejerchol’d e Copeau, Leo De Berardinis e Carlo Cecchi son tornati alla farsa con un impulso quasi antiaccademico e antiavanguardistico per ritrovare un rapporto immediato e popolare con lo spettatore.

Non ti so rispondere se la farsa sia la forma del tragico concessa a noi nel postmoderno. Posso dire che il tragico in qualche modo ha sempre fiducia nell’umanità. chiunque faccia una predica, abbia un attaccamento morale, creda che bisogna interrogarsi sui valori è una persona positiva. Il comico invece, e soprattutto la farsa che del genere è la frangia più estrema, secondo me nasconde una totale sfiducia verso gli uomini. Secondo me l’autore farsesco quasi dice con livore: ma non vi accorgete che tutto questo è da piangere? La farsa è un meccanismo quasi nichilista in cui non ci resta che ridere, ridere, ridere. Anche questo aspetto ci affascinava.

Prima di tutto c’era la voglia di inserirsi in una tradizione. Io credo fortemente in un teatro dell’attore e la farsa ha rappresentato sempre il tempo dell’apprendistato e il banco di prova dei grandi attori. Penso ai Fratelli De Filippo, a Petrolini, a Totò, a Sordi, ad Anna Magnani, allo stesso De Sica. Mi piaceva cercare questo confronto e vedere se era possibile immaginare una farsa moderna sia dal punto di vista della drammaturgia sia dal lato della tecnica attoriale ossia: come far ridere con i corpi, con i tempi e ritmi.

Enrico Pastore: Belve rinnova la tua alleanza scenica con Armando Pirozzi: hai trovato il tuo drammaturgo in una temperie teatrale che difetta di buone drammaturgie soprattutto tra i giovani?

Massimiliano Civica: Con Armando c’è prima di tutto una grande sintonia perché lui è uno dei pochi drammaturghi che scrive storie e che costruisce dei veri personaggi. Lui riesce a crearli tutti credibili, ciascuno con le proprie motivazioni che si scontrano sulla scena. Riesce a creare un mondo. Nei testi di Armando l’autore si nasconde. Non è quindi quello che per me è cattiva drammaturgia dove c’è un io centrale che parla attraverso tutti i personaggi e esprime la sua visione del mondo. Armando scrive delle storie in cui il senso viene fuori dalla relazione tra i personaggi e non senti un io invadente e unico che parla per tutti.

Altra cosa importante è che, sia io che Armando, crediamo nella creazione di un teatro popolare d’arte. Un teatro che riunisca due termini uniti in un apparente ossimoro: arte e popolare. Crediamo che sia una soluzione importante per il teatro di oggi. Crediamo anche che sia un’importante azione di politica culturale proporre allo spettatore un intrattenimento alto, ben fatto, ben eseguito che faccia ridere, perché nella farsa la risata è d’obbligo.

Enrico Pastore: È ancora possibile, secondo te, un teatro che sia genuinamente popolare?

Massimiliano Civica: Non so se sia possibile. Sicuramente lo è una tensione verso un teatro che torni a essere popolare. Possiamo dire che per questioni storiche e politiche la soglia di attenzione del pubblico si è drasticamente abbassata e anche il loro gusto. Il problema è che la televisione ha sdoganato non il popolare, ma il sotto popolare. L’arte popolare era in passato a un livello superiore a quella che abbiamo oggi.

Credo però che una tensione verso un teatro che non abbia soglie di ingresso anche soprattutto grazie alle storie, perché se le sai raccontare riesci anche ad accogliere il pubblico, sia doverosa. L’altra cosa, ossia piacere al nostro piccolo circolo di amici e addetti ai lavori, ce l’abbiamo già. Non c’è neanche più il gusto della sfida, ci raccontiamo le cose tra di noi, tra gli happy few che non so se sono happy ma sicuramente sono few e cade qualsiasi tensione.

Enrico Pastore: Il tuo pensiero mi sembra costantemente orientato al recupero della tradizione come se non fosse possibile innovazione se non innervandola di tutto il suo passato, è corretto?

Massimiliano Civica: Innanzitutto bisogna capire cosa si intende per tradizione. Io la penso come Leo De Berardinis che diceva: esiste solo la tradizione del nuovo. Quello che è diventato tradizione, lo è stato perché ai suoi tempi creava qualcosa di nuovo. Ora sembra che non lo sia, per il fatto che prendiamo le categorie dalla storia dell’arte, che funziona per opposizioni, ci sono gli ismi che si superano. Io non vedo nulla di male nell’evoluzione e trovo che la vera tradizione sia innovare evolvendo che non vuol dire assolutamente migliorare.

Io sono convinto per esempio che il progresso sia dato solo a livello tecnologico. Nel campo delle arti c’è solo evoluzione non si dà progresso, se con questa parola si intende che una cosa di oggi funziona meglio di una cosa di ieri. A livello tecnologico sì, ma non è che l’epopea di Gilgamesh sia meno progredita di un testo scritto oggi.

Nel campo umano, visto che le questione rimangono sempre le stesse, – l’amore, la morte, l’amicizia, il tradimento, la povertà – si dà evoluzione e, in quel senso, la tradizione vivente risulta sempre un trampolino vivificante.

Enrico Pastore: cerco di mirare un poco di più questa domanda. Tu hai parlato di Mejerchol’d e Copeau, due grandi innovatori che hanno permeato la loro ricerca con la grande tradizione per esempio della Commedia dell’Arte, o con il Teatro No giapponese.

Massimiliano Civica: Sì, certo. Anche con il circo, per esempio. Loro cercavano nelle forme del teatro popolare quello che ogni teatrante, visto che secondo me il teatro riguarda l’umanesimo, deve cercare. Un rapporto a due direzioni aperto tra gli spettatori e gli attori. Per esempio Capeau, insieme a Jouvet, cercò di creare per lungo tempo una compagnia di farsatori, e traduco all’impronta direttamente dal francese. Io credo che in questo ci sia una tensione umanistica verso un miglioramento dell’uomo. E credevano che questa apertura potesse venire anche dal comico e attraverso la farsa proprio perché ristabilisce un rapporto primario e immediato.

Enrico Pastore: Rispetto a questo aspetto della tradizione, forse oggi l’atteggiamento a tutti i costi avanguardista, alla ricerca del nuovo a tutti i costi, sta diventando noioso cliché?

Massimiliano Civica: Io credo che fare avanguardia oggi sia impossibile. Mi spiego: avanguardia prevede una trasgressione, la rottura e il superamento di un limite. Non c’è niente oggi di più avanguardistico della televisione, dal punto di vista della perversione, del sadismo e della distruzione di qualsiasi valore. Siamo immersi in una società che celebra fintamente la libertà assoluta. Io credo che oggi per essere avanguardisti l’unica possibilità sia credere nei valori. Per essere rivoluzionari oggi, in un mondo dove nulla conta, dove tutti hanno ragione, dove finalmente non dobbiamo più scegliere, che sono i mantra della nostra società, l’unica cosa è dire: no, ci sono dei valori, bisogna fare delle scelte. Bisogna scegliere anche cosa perdere. Il teatro deve sempre essere nel suo specifico e la televisione è sicuramente più avanguardista di qualsiasi teatro. Maria De Filippi è l’hardcore del sadismo. La trasgressione è diventato il brand. Se nella pubblicità della Mercedes tu ti devi comprare la macchina perché sei un trasgressivo, uno libero che non rispetta le regole, è chiaro che è già tutto finito. Non si può essere ribelli a vita, né timbrare il cartellino della ribellione permanente. Se così fosse vuol dire solamente che si è incapaci a dire sì. Se lo scandalo diventa un lavoro risulta essere solo l’emblema di una funzione che ti hanno dato altri.

Enrico Pastore: Oggi la parola d’ordine che tutti sbandierano è audience engagement perché tutti si sono accorti che qualcosa nel rapporto con il pubblico si è rotto. Com’è possibile ricostruire la relazione? Il teatro è dunque diventato irrimediabilmente una Fortezza vuota?

Massimiliano Civica: La realtà è molto complessa. da un certo punto di vista il teatro è in piena crisi. Ma a chi appartiene questa crisi? Non è degli artisti. Potrei nominare molti artisti più che rispettabili nel panorama teatrale italiano: Deflorian e Tagliarini, Claudio Morganti, Anagoor, Babilonia Teatri, Danio Manfredini, Roberto Latini. C’è una ricchezza incredibile. Solo a teatro si riflette della morte o della religione. Qual è il problema? la crisi non è degli artisti. Bisogna individuare di chi è la crisi.

C’è poi qualcosa di buffo perché, numeri alla mano, non c’è mai stata nella storia del teatro fino ad oggi un così gran numero di spettatori e di spettacoli offerti. Bisogna capirsi perché se il problema è raggiungere i numeri della televisione l’obiettivo è irraggiungibile. Il problema è capire che i valori e la loro comunicazione sono importanti di per sé. Non si può mettere tutto a bilancio. cento spettatori sono meglio di quattro? Va valutata la qualità dell’esperienza e il fatto che sia aperta a tutti, perché gli artisti devono essere in grado di parlare a tutti. Detto questo il teatro d’obbligo o l’obbligo a far numeri e spettatori non ha senso.

Un teatro pubblico deve offrire una possibilità di elevamento di cultura importante. Mi dispiace ma se contano i numeri vincerà sempre Maria De Filippi. Per l’audience engagement basta offrire nani e ballerine o regalare smartphone. Il problema è che manca il fine. Nessuno ha chiaro quale sia l’obiettivo. Son tutti confusi. Da una parte vogliono tanto pubblico dall’altra vogliono la qualità ma che siano anche tutti contenti. Bisogna mettersi d’accordo.

Ph: @ Duccio Burberi