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Too late: perturbazioni esistenziali secondo Jon Fosse

Too late. È la scritta che campeggia all’apertura del sipario nella penombra della scena. Non è tanto un ammonimento quanto una sentenza. O un epitaffio su una lapide. Non c’è scampo a qualcosa di filato e reciso dalle Moire. La sensazione che si prova di fronte a questa insegna luminosa pur accattivante nella sua ineludibilità è di perturbante spaesamento. È strano che all’inizio di uno spettacolo si dica apertamente che è ormai troppo tardi. Di solito si comincia lasciando ai personaggi tutte le strade aperte allo sviluppo, anche quando si è nel tragico laddove all’eroe non è dato scampo, oppure quando si tratta di una trappola per topi si lascia cullare l’illusione che qualcosa si possa pur fare. Qui no. È troppo tardi. Ed è strano.

La stranezza di cui si parla pertiene a quello che Mark Fisher definisce come weirdness, ossia quella qualità che identifica qualcosa che non dovrebbe essere come appare, qualcosa che è fuori posto o addirittura non dovrebbe esistere, qualcosa che: «segnala il nuovo, quello che non torna, quello che necessita di nuovi strumenti di interpretazione». Quest’ultimo aspetto è il più importante per ottenere una chiave di lettura per Too late di Jon Fosse, spettacolo andato in scena prima al Nazionale di Genova e in seguito al Teatro Astra di Torino, magistralmente diretto da Thea Dellavalle e ottimamente interpretato da Anna Bonaiuto, Irene Petris, Roberta Ricciardi, Emanuele Righi, Giuseppe Sartori.

Tre grezze mura. Un letto, una panca, qualche tela. È questa la scena su cui si svolge una vicenda il cui esito è già dato. Too late. Ma se il finale è già rivelato, se non c’è niente da svolgere, da dipanare o risolvere qual è il fine di quello a cui andiamo ad assistere? È una forma di teatro che mette in questione il nostro modo di vivere le relazioni, dove vengono poste delle domande scottanti nei cui riguardi non abbiamo strumenti validi per fornire delle risposte, perché non c’è soluzione allo stato attuale di sviluppo della nostra società, ma andrebbe cercata. Siamo di fronte dunque a una forma di teatro alla ricerca di nuovi strumenti di interpretazione del reale, che non ha risposte ma domande, che non ha ricette ma le cerca insieme al proprio pubblico.

Quello che avviene in scena è la messa in discussione delle scelte di Nora, la protagonista di Casa di bambola di Ibsen, colei che abbandona marito e figli per intraprendere una nuova vita non più scontata, né ingabbiata dalla convenzioni, né tanto meno obbediente ai dettami della società di fine Diciannovesimo secolo in cui la donna era o madre o prostituta. Ma è veramente così? O i riferimenti a Ibsen sono una trappola interpretativa? Perché tutto lascia pensare che la vicenda di Nora si ripeta ancora e ancora senza via di scampo.

La Nora matura (Anna Bonaiuto) sulla soglia della terza età guarda se stessa giovane (Irene Petris), vede se stessa amare il marito ed essere imprigionata dai suoi doveri di madre e di moglie, si vede essere gelosa di altre donne più giovani. Si vede il marito (Giuseppe Sartori), con la sua ombra (Emanuele Righi), cercare di chiudere gli occhi e dormire senza pensare al tempo che passa e alle difficoltà che insorgono. Si sentono di lontano i pianti dei bambini, quei palloni sgonfi e pesanti che capitano in scena.

La Nora di oggi osserva quella di ieri che non è quella di Ibsen anche se potrebbe esserlo e in effetti per qualche istante lo è apparendo in scena con il suo vestito ottocentesco rosso fiamma. Tutto sembra ripetersi come è già stato, eppure vi è il rimpianto, il dubbio che forse sarebbe potuto essere diverso.

Anche l’amante giovane del marito (Roberta Ricciardi) avrebbe potuto non essere. Se Nora non fosse stata gelosa, se non avesse posto ogni istante l’attenzione sulla gioventù delle altre donne, forse il marito non avrebbe volto gli occhi altrove? Se lo chiedeva anche la Foscarina, alter ego della Duse, nel Fuoco di D’Annunzio: sono stata io a spingere Stelio Effrena nella braccia di Donatella Arvale? Ma è una falsa prospettiva. La questione è più sottile, meno scontata.

La Nora odierna si domanda se la scelta di andarsene sia stata giusta. In fondo, si dice, i suoi quadri non sono granché, quasi nessuno li compra, i figli la ignorano, il marito è morto, Resta la solitudine. Nora però si riscuote e afferma con un certo orgoglio: io ho fatto la mia vita, non mi sono abbattuta, sono stata me stessa contro tutto e tutti. Anche questo risultato è una falsa prospettiva. La questione non è il successo o il fallimento di una vita.

Infatti è proprio qui, alla fine del percorso, quando quelle mura che fanno gabbia si aprono e scompaiono, ecco ancor più forte la weirdness di cui si parlava all’inizio, quel perturbamento che necessita di altri strumenti interpretativi per placare l’inquietudine che crea. Ciò che è fuori posto, ciò che è ma non dovrebbe essere come appare, sono le relazioni sentimentali e la loro mancanza di adattamento al mutare delle condizioni nel tempo. Come scrive Fisher: «gli esseri umani sono fin dall’inizio – da prima dell’inizio, prima della nascita dell’individuo – intrappolati in strutture mitiche. E va da sé che la famiglia stessa è un’altra di queste strutture mitiche». Too late.

Ciò che Ibsen metteva in questione nel 1879 era una società maschilista e capitalista che vedeva la donna sposata come ninnolo in una casa di bambola, malaticcia e totalmente dipendente dal marito. La Nora del 2025 nonostante i mutamenti si trova ancora immersa in quel tipo di società, ma è anche parte di un mondo in cui l’emancipazione solo sognata a fine Ottocento dovrebbe essere ormai acquisita e non lo è. L’istituto di famiglia e le modalità di negoziazione dei desideri in una coppia sono obsoleti e finché rimarranno tali sarà sempre troppo tardi qualsiasi sia la scelta effettuata. La norma e la consuetudine sono la trappole che uccidono qualsiasi desiderio. Rimanere? Andarsene? Il risultato non cambia. Se tutto rimane quello che è, se non ci dotiamo di nuovi strumenti di relazione e di comprensione del reale, per Nora e per tutti noi sarà sempre troppo tardi.

Teatro Astra – Torino | 25 marzo 2025