Ho conosciuto il Performa Festival nel 2015 quasi per caso, attraverso un post di Facebook di un’amica coreografa che era stata invitata a parteciparvi. Mi sono incuriosito e ho richiesto l’accredito. Subito mi ha risposto il direttore Filippo Armati che mi ospitò in casa sua per tutti i cinque giorni della durata del festival.
In quella mia prima partecipazione ho potuto gustare la qualità principale di questo piccolo ma tenace evento in terra ticinese: la volontà di creare relazioni attraverso la pratica performativa. Grazie a un’atmosfera amichevole e confortevole tra gli artisti e operatori presenti si matura una conoscenza che spesso sfocia in amicizia durevole.
Questa è una qualità fondamentale in un momento storico in cui, benché si sappia tutto di tutti grazie a una vita esposta quotidianamente sui social, difficilmente vi sono luoghi di reale incontro e discussione. Per qualche giorno al Performa Festival si può vivere in una piccola comunità composta da artisti e pubblico che condividono non solo l’atto performativo.
Anche quest’anno ho avuto il piacere di passare un week end intenso (dal 13 al 15 aprile) ad Arbedo nei sobborghi di Bellinzona per partecipare a questa nuova edizione del Performa Festival e constatare con gioia che, pur passando gli anni, quell’atmosfera di incontro fecondo non si è sfocata né annacquata.
Ho incominciato immergendomi in un’atmosfera amichevole e creativa visitando l’Atelier Attila dove era ospitata la WunderKammer di Ledwina Costantini. Grossi funghi, bambole affacciate ad un balcone quasi a osservare i timidi passi di un visitatore spaesato e affascinato, maschere da Opera di Pechino, soldatini all’assalto di un treno, fitti grattacieli di cartone, e piccoli oggetti di scena, tazzine, sabbie, sassolini colorati, fotografie, rossetti, gabbiette di bambù. In sottofondo una voce con le parole di Agota Kristof. Ci si può perdere delle ore in questa WunderKammer per scoprire nuovi percorsi e nuovi punti di vista. Tutti questi oggetti raccontano la più che ventennale attività di Ledwina, artista eccentrica e inattuale.
Da questa camera delle meraviglie, evocativa e inquietante, sono passato ai mondi visuali e tecnologici di Roberto Mucchiut. Katarsi è un’istallazione video-sonora interattiva. Il movimento dello spettatore, intercettato da raggi infrarossi, crea brecce e fratture nell’imponente muro di pallini grigi posto di fronte a lui. Quanto più il movimento è ampio e incisivo maggiori sono le voragini che si aprono nel muro e più concreta è la possibilità di abbatterlo per spingersi al di là e scoprire suoni di un mondo celato.
Ring invece è un’istallazione video in cui le immagini sovrimpresse del paesaggio ripreso dai finestrini della metro circolare di Berlino. Le immagini si sfuggono, si rincorrono, si mescolano e seppur appartenenti a un medesimo percorso in sensi inversi, sovrapposti inventano un città immaginaria, inesistente seppur possibile.
Alle visioni transmediali di Roberto Mucchiut segue Opά della giovane Compagnia Daniel Blake di Losanna, vincitrice del secondo premio al concorso Premio Schweiz 2017, l’equivalente del nostro Premio Scenario.
Il duo formato da Melanie Martin e Jean-Daniel Piguet racconta il mito di Elena di Troia, la donna più bella del mondo incapace di sfuggire all’immagine che il mondo e la storia ha di lei. E dietro la maschera di Elena, regina di Sparta, si celano i volti di tutte le donne prigioniere dell’immagine che le racchiude contro la loro volontà.
Una ballerina si eleva sulle punte ed esegue figure classiche di danza. Vi è qualcosa di perverso nascosto in questo piccolo carillon vivant. Tutto il fascino della ballerina in prova che ha incantato Degas non è altro che l’emblema della gabbia: le regole ferree, il dolore nascosto dietro un sorriso onnipresente, la fatica massacrante nascosta in un gesto pieno di grazia.
Da quest’immagine si dipana il mito di Elena o, per meglio dire, le diverse versioni del mito di Elena: la donna rapita, l’amante consenziente, il simulacro-fantasma sdoppiato tra Egitto e Troia. Quale versione è quella preferita da Elena? L’amante consenziente perduta d’amore, si capisce, e per un’istante festeggiamo con lei un ricco matrimonio greco, ma Elena è un mito, non esiste e quando la maschera si dissipa resta la donna, ogni donna nascosta in esso, piena di paura, di fragilità, che lotta per liberarsi dell’immagine che proietta intorno a sé.
Quello della Compagnia Daniel Blake è uno spettacolo intelligente, sempre in bilico tra ironia e seriosità, tra luce e ombra, bitonale per natura.
Interessante anche l’opera prima di un’altra giovane artista di origini greche Eleni Marangakis che porta al Performa Festival il suo Onironauta per quattro spettatori.
Si viene portati in una stanza dove una giovane donna di nome Alice è riversa a terra forse svenuta, forse semplicemente addormentata dopo un festino balordo. Una bottiglia di vodka, pacchetti di patatine, un cellulare che suona. Alice si risveglia e ci accompagna nel suo mondo di apparenti meraviglie, tra party, disco, rave, shopping e social. Tutto è frenetico, tutto appare scintillante eppure nasconde dentro lo specchio un mondo truce, colmo di solitudine, di figure che sfuggono a se stesse per non pensare a se stesse.
In questa stanza colma di piccole luci, di voci che vengono da un presente appena passato per nascondere un passato remoto traumatico e delittuoso, si scopre tutti insieme quanto è profonda la tana del Bianconiglio. La giovane Eleni Marangakis è una performer piena di feconde potenzialità, che affronta una performance emotivamente intensa nonostante qualche difetto di drammaturgia. La piccola stanza creata all’interno dello spazio Social 93 è suggestiva, colma di sorprese visive e uditive, tra danza e teatro, e dove forse l’unico difetto è stato quello di non affrontare il pubblico in un dialogo diretto, ma lasciarlo nascosto nel buio, voyeur nascosto dietro una quarta parte sottilissima ma rigida.
Un’opera prima toccante e rabbiosa che lascia sperare in futuri progressi e sviluppi.
Altra atmosfera per la performance di Francesca Sproccati e Vanessa Orelli dal titolo Emotional Display, creata in due versioni speculari tra la Svizzera e Panama. In video compaiono piccole puntine su uno sfondo bianco su cui poco a poco si annodano fili di diverso colore che creano percorsi possibili e sempre diversi. Dal vivo corpi colorati, senza volto, come bruchi si muovono nello spazio d’azione. Il pubblico si aggira in questo paesaggio attraverso stazioni sonore in cui tramite cuffie si può sperimentare un diverso accompagnamento uditivo per ciò che si svolge in azione e in immagine.
Molti i codici artistici ospitati in questa nuova edizione del Performa Festival, fedele a una concezione delle Live Arts transgeneri, ibride generazioni di multipli linguaggi. Una proposta coraggiosa in un contesto culturale chiuso e difficile come la Svizzera Italiana. Il pubblico che ha partecipato è stato caloroso e interessato benché poco numeroso. Si potrebbero tentare strade alternative per avviare delle politiche di public engagement che possano bypassare l’indifferenza se non l’ostilità di un territorio culturalmente arido.
Questo, lo sappiamo bene non è un problema sono del Performa Festival. Numerosissime sono le realtà italiane, grandi e piccole, che si dibattono con il problema dell’assenza e della latitanza di un pubblico. Le ragioni di questa distanza sono innumerevoli e estremamente complesse, potremmo dibatterne per ore senza riuscire a enumerarne tutte le cause e senza trovare una soluzione. In questa sede mi limito a segnalarne la comunanza al di là del confine.
Sono sicuro che Filippo Armati saprà trovare il modo per affiancare a una programmazione interessante e di valore delle azioni che smuovano una comunità irrigidita e lontana. Performa Festival è una realtà che sviluppa un fecondo dialogo tra le arti e gli artisti che trovano negli spazi di Arbedo un luogo salutare e caloroso dove incontrarsi e scambiare pratiche e pensieri. Un comunità che anno per anno si rinnova e si ricostruisce tra la corona di montagne che circonda Bellinzona, la città dei castelli.