A partire dall’Umanesimo e in seguito col Rinascimento, il teatro come forma d’arte ha intrattenuto un certo rapporto ambiguo con la realtà. Se per i Greci la questione era la verità intesa come Aletheia, ossia uno svelamento di ciò che è nascosto sotto le pieghe della realtà per un suo emergere evidente davanti agli occhi, per l’Occidente sorto dal cantiere sperimentale del Medioevo, la questione si spostava, e non solo in teatro, verso la rappresentazione del reale. Calderon de la Barca parla di Gran teatro del mondo, né accenna anche Shakespeare. Appare sempre più evidente con l’epoca barocca che il mezzo teatro vuole essere uno specchio del reale.
Con la fretta necessaria agli articoli brevi giungiamo d’un balzo al Novecento dove, dopo gli eccessi naturalistici e illusionistici dei Meinenger, si giunge alla ricerca di Stanislavskij, con cui si aggiunge uno scavo intimistico, attraverso l’azione fisica, verso un rispecchiamento del reale che si unisce alla verità del sentimento. L’avanzare del Novecento però porta a un nuovo e interessante atteggiamento: influire sul reale attraverso la rappresentazione. Ciò che avviene in scena è una modalità di intervento sulla realtà vissuta nel quotidiano. È azione politica, artistica, utopistica e immaginativa. Si vuole cambiare il mondo attraverso una visione dello stesso. Un rapporto attivo si viene a instaurare tra ciò che è e ciò che si rappresenta, dove quest’ultimo può, o dovrebbe essere, motore di cambiamento del primo.
Con l’avvento del Ventunesimo secolo, e soprattutto con l’avanzata della virtualità digitale, la questione si sposta in territori finora non mai battuti. La domanda diventa cosa è reale? Esiste una qualsivoglia possibile verità? È possibile definire una realtà oggettiva da tutti vissuta, o ci si deve accontentare di mostrare un punto di vista, un approcciò più o meno efficace con ciò che convenzionalmente chiamiamo mondo? Verità è manipolazione? Si fa fatica a capire cosa è reale e non solo cosa sia vero, ma se sia sensato parlare di verità.
Al Festival delle Colline Torinesi si è potuto assistere a due interessanti performance in cui la questione del rapporto con la realtà dei fatti viene affrontata con urgenze quanto mai impellenti e innovative. Parlo di Imitation of life di Kornél Mundruczó e Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio.
Imitation of life fin dal titolo pone la controversa serie di quesiti in evidenza. Un titolo che è di per se stesso una mise en abyme: il teatro è imitazione della vita? La nostra personale esistenza è a sua volta imitazione delle vite delle generazioni precedenti, per noi fonti di cultura, abitudini e pregiudizi?
Lo spettacolo inizia con un filmato in cui a una donna anziana di etnia Rom viene comunicato lo sfratto. Appare subito chiaro l’interesse economico della società privata che agisce per mandato del comune per gentrificare il quartiere. Bisogna far sloggiare i Rom per riqualificare le proprietà immobiliari. Il video pare una testimonianza reale di qualcosa avvenuto veramente in Ungheria, ma il sipario si alza e vediamo lo scenario della ripresa video. La casa in questione non è una casa vera ma la scenografia entro cui agiscono gli attori. Non abitiamo nel documentario ma nella fiction.
La donna anziana si sente male e il liquidatore, suo malgrado è costretto a chiamare i soccorsi. La conversazione con il 118 ungherese è agghiacciante: i soccorsi non arriveranno in tempo utile per questione di priorità e quel particolare quartiere non lo è. L’uomo si sente in colpa, non sa se abbandonare la donna al suo destino o provare a fare qualcosa. Si decide a consigliarla, all’arrivo dell’ambulanza, di farsi portare in ospedale in modo così da bloccare lo sfratto. L’uomo esce.
Lo scenario cambia. Cade una pioggia vaporosa su cui viene proiettato un filmato: un incontro della donna col figlio in un albergo del centro dove lui esercita la professione di prostituto. Il ragazzo è scappato di casa a causa di un padre violento e soprattutto perché rifiutava le sue origini tzigane. Voleva non essere discriminato. Quello che vediamo è probabilmente un ricordo. Qualcosa di avvenuto prima e ora, forse, visione della donna in punto di morte.
Lo scenario cambia ancora. La casa comincia lentamente a ruotare di 360 gradi sull’asse verticale. Tutto all’interno crolla e si sfascia. È una scena molto lunga, suggestiva e violenta. Quando ritorna in assetto ecco tornare il liquidatore con una giovane donna. Nonostante la casa sia allo sfascio, l’uomo cerca di convincerla a firmare un contratto di locazione alle stesse condizioni della vecchia e per la stessa truffaldina società. La giovane, costretta dall’indigenza, ma è costretta a mentire perché la csa è per una persona e lei ha ha un figlio. Appena uscito il liquidatore, lo fa entrare di nascosto in casa.
La madre riceve dei messaggi da parte di un ex amante. Costui è insistente e nonostante appaia chiara la natura burrascosa e violenta del loro rapporto, lei accetta di incontrarlo lasciando solo a casa il figlio. È in questo momento che accade qualcosa di inaspettato. Scende ancora la pioggia su cui viene proiettata l’immagine del figlio dell’anziana signora in una stanza d’albergo con la sua amante. Litigano e nel mentre appare il bambino. Il ragazzo lo insegue e in questa rincorsa labirintica nei corridoi dell’albergo eccolo aprire una porta e piombare in casa. Subito la riconosce per quella della madre. Il bambino dice che è morta e ora sono loro ad abitarla.
Tutto sembra una prosecuzione del racconto. Arriverà la madre del bambino? Cosa le è successo? E che farà il ragazzo apparso per magia e ora con una katana in mano per tagliare una semplice mela? Il sipario improvvisamente cala e viene proiettato un testo in cui si racconta l’uccisione di un bambino con un colpo di spada da parte di un uomo di origine Rom. Questo ha creato scalpore nell’opinione pubblica ma solo fino quando si è scoperto che anche il bambino aveva le stesse origini. La storia è vera.
Tutti i piani sono ora svelati: abbiamo un fatto di cronaca reale e una drammaturgia derivata. Gli attori interpretano dei ruoli mostrando allo spettatore una realtà sociale intrisa di pregiudizi quanto mai reali, soprattutto oggi dove, a governare l’Ungheria, vi è un partito di estrema destra e un regime al limite della dittatura. I personaggi però sono ingabbiati nelle parti che ha scelto per loro, non il drammaturgo, ma la vita reale stessa. Il lavoro dell’attore nella creazione dei personaggi è limitato proprio dalla realtà che si vuole rappresentare: il liquidatore è razzista e non sopporta i Rom, la donna anziana ne è orgogliosa nonostante gli innumerevoli affronti ricevuti durante tutta una vita, il figlio di lei rifiuta le sue origini perché discriminato. Le loro vite immaginarie non sono frutto di scelte artistiche ma di un’immersione in un ambiente e in una cultura che fa giocare loro una partita già giocata infinite volte, non nella fiction, ma nella realtà.
Si imita la vita nella realtà come nella rappresentazione. Se fosse solo questo saremmo in un territorio conosciuto, ma è solo una falsa impressione. Verità, immaginazione, illusione, oggettività si mischiano a tal punto da confonderci. Il filmato sembra vero, un documento reale di un fatto accaduto, ma scopriamo essere parte della rappresentazione e quando siamo ormai tranquilli di abitare solo una storia, certo con riferimenti a una realtà politica difficile, ingiusta e violenta, ma pur sempre parte di una fiction, ecco che irrompe nel finale nuovamente la realtà.
Imitation of life è uno specchio del mondo con molti piani di rifrazione. Difficile stabilire quale immagine sia quella esistente e quali semplici proiezioni della stessa. È come la scena del padiglione degli specchi ne Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii: anche se si rompono, non si riesce a trovare Terence Hill.
Diverso il punto di vista di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio. Lo spettacolo trae origine dal libro Fuga dall’Egitto di Azzurra Meringolo Scarfoglio e vuole raccontare la diaspora di intellettuali, medici, artisti dall’Egitto post rivoluzionario in seguito all’avvento della giunta militare guidata da Abdel Fattah al-Sisi. Migliaia di persone sono scappate dal proprio paese dopo aver vissuto l’ebbrezza di essere riusciti a far cadere il regime di Hosni Mubarak e l’aver, in seguito, impedito la deriva integralista del successore Mohamed Morsi.
Come disse Dante: “noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto”. Al Sisi prende il potere insieme ai militari e dal 2014 si assiste nel paese a un’escalation di repressione, sparizioni, incarcerazioni ingiustificate. Testimonianza di ciò le tragiche storie che hanno colpito il nostro paese con la morte di Giulio Regeni e l’ingiusta e continua detenzione di Patrick Zaki.
Miriam Selima Fieno costruisce una performance in cui racconta la sua volontà di narrare quest’esodo. Lo spettacolo parte proprio da qui, dalla storia recente dell’Egitto e dalla collaborazione con la giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio. Miriam per prima cosa vorrebbe andare in Egitto ma la giornalista la sconsiglia caldamente proprio dopo quanto successo a Giulio Regeni. Il rischio della vita è concreto. Così Miriam muta obbiettivo, raccontare l’esodo insieme a chi l’ha vissuto. Contatta quindi degli esuli, ora rifugiati in vari paesi d’Europa, e costoro immediatamente accettano la collaborazione.
A questo punto nascono i dubbi, le domande e le incertezze. Questo rimuginare e domandarsi costituisce la spina dorsale dello spettacolo. Miriam Selima Fieno condivide le sue difficoltà e paure con il pubblico: cosa sto raccontando? E utile quanto sto facendo? È incisivo? E soprattutto: è giusta la strada che sto intraprendendo?
La narrazione prosegue: alcuni collaboratori si ritirano per paura: persino all’estero possono giungere le ripercussioni da parte del regime. Nel 2020 scoppia la pandemia che rende tutto ancora più difficile. Finalmente Miriam riesce ad incontrare i tre esiliati (nell’ordine Bahey El-din Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said) con cui ha mantenuto il contatto e la materia si surriscalda. Si avverte negli occhi e nelle parole di questi tre uomini la delusione, la solitudine, la sconfitta, di chi ha creduto in una rivoluzione e ha perso. E la cui fuga ha costretto a lasciare indietro affetti, famiglia, figli, amici. Così dalle parole di questi uomini sorge una domanda scomoda per il pubblico e per la stessa artista: perché volete parlare e ascoltare dell’Egitto quando l’Italia e il suo governo sono tra i principali partner commerciali dell’Egitto vendendo al regime di Al Sisi strumenti di controllo telematico e armi? Perché non vi ribellate al vostro governo complice del degenerare di un regime militare?
Siamo tutti presi in causa. Siamo complici silenti e non basta commuoversi per i “poveri” rifugiati. Siamo abituati in Occidente a spettacoli o libri che ci parlano degli orrori nelle altre parti del mondo, ma tornati a casa o posato il libro, la nostra preoccupazione svanisce nell’autocompiacimento di non essere come gli altri, di essere progressisti, informati, colti, non affetti da pregiudizi, blandamente impegnati politicamente. Miriam si accorge di questo rischio e si chiede cosa fare. Emblematica e suggestiva la scena in cui discute con se stessa proiettata sugli schermi.
Miriam si accorge che alla narrazione mancano degli elementi. Il primo è incarnato in scena da Yasmine El Baramawy, autrice live delle musiche di scena. Yasmine racconta la rivoluzione delle donne. Mostra un video di uno stupro in piazza, durante le proteste. Le donne, in questo evento storico, sono le vittime silenziose e non difese da nessuno, e questo sia prima, nel momento della speranza, sia dopo con l’avvento del regime.
L’ultimo elemento, quello che conclude lo spettacolo, è la voce stessa del regime. Si proietta un’intervista pubblica di Al Sisi in cui alla domanda del giornalista se ci siano sparizioni e incarcerazioni ingiustificate, il dittatore nega. Eppure le fonti parlano di sessantamila persone desaparide, continua il giornalista. Al Sisi sorridente nega ancora. La storia è ora completa e lo spettacolo può terminare.
Fuga dall’Egitto intesse un’interessante rapporto con quello che chiamiamo realtà. Innanzitutto per quanto si cerchi di essere oggettivi e obiettivi il punto di vista di chi narra è sempre presente: quella raccontata da Miriamo non è la Storia ma la sua storia intessuta insieme a quelle dei quattro rifugiati.
Inoltre si pone la questione documentale. Nella nostra epoca questi sono sempre più fragili e manipolabili. Viviamo in un tempo in cui le fake news inquinano ogni possibilità di raggiungere la verità. E quindi come si può raccontare un fatto, un evento, una vita? Possiamo forse accontentarci di fornire solo una parziale visione sperando di convincere l’occhio che guarda della nostra onestà e imparzialità? E nel far questo possiamo sperare di cambiare le cose e costruire un mondo diverso? Oppure è solo uno sforzo vano, e il massimo raggiungibile è l’applauso del pubblico?
Queste sono domande non solo di Miriam ma anche di chi scrive ogni volta che scrive. Penso anche di chiunque cerchi secondo coscienza di dar conto di ciò che avviene intorno a lui o lei. Realtà e verità sono concetti sempre più relativizzati dal costante inquinamento delle informazioni e, paradossalmente proprio dall’abbondanza dei documenti. L’innumere annulla il segnale, lo azzera e tutto diventa confuso. La domanda finale diventa: il teatro può ancora pensare, come nello scorso secolo, di poter essere motore di cambiamento delle coscienze?
Miriam e Nicola con molta umiltà, ostentando tutti i difetti e i dubbi, con estrema onestà intellettuale condividono con noi un percorso su una questione che ci riguarda (ricordiamo Giulio Regeni e Patrick Zaki). Interrogarsi in merito è il minimo che possiamo fare come spettatori.
Il merito di Miriam e Nicola è di aver provato a mettere di fronte ai nostri occhi una realtà scomoda, evidente e nascosta allo stesso tempo. Lo hanno fatto con strumenti ancora debitori di altre ricerche (soprattutto Milo Rau e Agrupation Señor Serrano), ma sulla strada per costruire un loro modo di raccontare il mondo. La sincerità e onestà con cui hanno condiviso il loro percorso li ha ripagati e il pubblico li ha gratificati di una giusta standing ovation. Ora bisogna continuare il cammino e affrontare nuove sfide. Auguro loro di proseguire con questo impegno e con questo entusiasmo, senza mai smettere di porsi domande scomode e rimanendo fedeli alla sincerità che ha accompagnato questa loro Fuga dall’Egitto.
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