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Cubo Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A GIROLAMO LUCANIA

Con questa intervista a Girolamo Lucania, direttore del Cubo Teatro di Torino, si conclude il ciclo #ResistenzeArtistiche. In sedici puntate tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Sardegna, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata, abbiamo provato a raccogliere testimonianze e resistenze nel tempo di pandemia.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si è prefisso l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Ci siamo chiesti: come si è sopravvissuti al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gli Orsi Panda di Matej Visniec Regia di Girolamo Lucania al Cubo Teatro di Torino

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Sono stati due anni molto intensi e altalenanti. Siamo passati da una prima fase di shock in cui si è provato a fare creazioni online, anche internazionali. Poi una prima flebile riapertura estiva. Poi di nuovo la chiusura e un andirivieni di aperture e nuove chiusure, contingentamenti, mascherine, etc. Tutto ciò non ha consentito a nessuno un vero e proprio progetto, una direzione univoca. Siamo stati travolti da situazioni di cui non avevamo il controllo. Molto spesso, anzi oserei dire sempre, le azioni anche nobili che sono state effettuate da compagini e spazi si sono perse nel vuoto laddove in seguito e improvvisamente si è dovuti ritornare sui vecchi – traballanti – passi. Quando consentito abbiamo fatto ricerca. Il biennio è servito senz’altro a riflettere sull’esistente, a pensare al necessario. Di sicuro molte realtà hanno fatto lo stesso e hanno trovato la propria risposta, soprattutto in relazione al pubblico e ai cittadini, che sono il vero senso del nostro lavoro. C’è da valutare se istituzioni e finanziatori la pensano o la penseranno allo stesso modo, insomma se si daranno le stesse risposte.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Ovviamente c’è stato un susseguirsi di riflessioni. Non del tutto scontate, ma che in qualche modo hanno portato – almeno personalmente – a ritornare un po’ alle origini del percorso di vita che ha portato la creazione del nostro progetto artistico. Le riflessioni hanno prodotto 2 pensieri, che poi sono stati messi in sviluppo. Dal punto di vista della programmazione, a una maggiore valutazione e qualificazione di progetti legati al territorio, ovvero di artisti del territorio. Questo perché il nostro sistema cittadino propone delle fragilità notevoli nella ricerca, nella formazione e nella qualificazione di compagnie torinesi, che faticano a trovare spazio. Un percorso invece che mira all’ospitalità e alla cura di progetti del territorio può consentire una maggiore capacità di esportazione, e una migliore capacità attrattiva di pubblico, oltre che – ovviamente – una più sostenibile copertura economica. È chiaro ed evidente, insomma, che una compagnia torinese può sostenere più repliche rispetto a una pari compagnia esterna. Ciò ovviamente non vuol dire rinunciare a ospitare compagnie fuori Piemonte – anzi! – bensì concentrarsi maggiormente sulla qualità dell’importazione, che diviene così necessaria, e fare ricerca sui prodotti territoriali. La seconda riflessione ha portato a una attenzione maggiore al pubblico limitrofo, al rapporto con il territorio e con i cittadini del territorio, nel pensiero profondo che definisce la funzione di uno spazio come fondamento per il benessere di una civiltà fragile. Uno spazio, e le sue produzioni, devono volgere lo sguardo, tendere la mano, ascoltare chi abita il territorio. Per questo abbiamo intrapreso una strada che avevamo già iniziato tempo addietro, per poi interromperla: la costruzione di opere ed eventi per la gente e con la gente del territorio.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

C’è stato un notevole scambio di idee e opinioni. A volte ascoltate, altre volte ahimé, no. È un peccato, perché spesso le decisioni prese dai sostenitori non hanno rispecchiato le esigenze delle realtà (compagnie o spazi), anzi a volte non hanno rispecchiato la natura delle stesse. Si è forse persa l’occasione di dialogare fra le parti, ascoltarsi, capirsi. Nessuno come gli operatori, i gestori di spazi, gli artisti, i tecnici, gli attori, nessuno come loro può sapere quali sono le esigenze reali del nostro mestiere. Si è però avviato un percorso di dialogo, con alcune realtà che hanno provato ad aprire un discorso. Noi come Fertili Terreni abbiamo ad esempio fatto un convegno dove abbiamo provato a mettere insieme tutte le parti del sistema, con grande partecipazione. Speriamo che questa, come altre iniziative, possano contribuire a un fertile e fervido dialogo. Insomma, sono ottimista.

Cubo Teatro interno platea

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Dialogare con la gente del territorio. Questa è stata la prima azione. Dopodiché, costruire una base insieme ad altre realtà del territorio per fare fronte comune alla grande diffidenza e noncuranza che purtroppo caratterizza lo spettacolo dal vivo negli spazi piccoli. Bisogna ritornare all’essenza della narrazione.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Chi è già robusto diventerà ancora più robusto. Attenersi ai criteri sarà difficile per molti, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione. Sembra che la pandemia sia terminata, mentre invece a quanto pare è lungi dall’essere finita e le difficoltà saranno ancora maggiori. Cosa ci si prospetta fra un mese? E fra tre mesi? Con questa precarietà è molto difficile riuscire a programmare e poi a mantenere ciò che si è prospettato.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Eliminare il parametro quantitativo come principale parametro. Pare evidente a tutto il comparto che esiste un problema di iper-produttività a fronte di una carenza di spazi. Dove vanno tutte le produzioni richieste? Quanta vita avranno? In questo modo non si riuscirà a dare sicurezza e stabilità a un comparto fragilissimo, e di conseguenza non sarà possibile creare operazioni d’arte utili, necessarie, posso dire? Belle. Manca il tempo, sussiste la paura. Bisognerebbe incentivare la qualità del tempo impiegato per produrre e creare: tempo di creazione. E stabilità: un’opera deve poter replicare stabilmente nel proprio territorio. Incentivare le produzioni territoriali, e le stanzialità territoriali. Incentivare il repertorio: un artista deve produrre un’opera quando sente di doverlo fare, e non perché deve. E se un’opera costruita nel tempo/spazio corretto è meritevole, deve poter vivere finché può.

Love!Battle!Revolt! di Alice Conti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA AD ALESSANDRO SESTI

Per la quindicesima intervista del ciclo #Resistenze artistiche si torna in Umbria per incontrare Alessandro Sesti, direttore del Festival Strabismi di Cannara.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato. 

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Devo dire che abbiamo provato a non fermarci mai. Non appena il primo lockdown ha iniziato ad allentarsi, abbiamo tentato di elaborare cosa avremmo potuto fare. Consci che sarebbe stato un periodo senza pubblico dal vivo e assolutamente contrari a quell’assurdità del teatro in streaming, idea che andava serpeggiando in quel periodo (ma si sa, la disperazione fa brutti scherzi), abbiamo concentrato il nostro lavoro sulle residenze. Abbiamo aperto il teatro a tutti quegli artisti, chiaramente della zona data l’impossibilità di spostamenti regionali, che avevano bisogno di spazi per provare. Il ritorno del pubblico dal vivo, per noi, ha coinciso con la sesta edizione del Festival Strabismi e nonostante le restrizioni, distanziamenti e sanificazioni che sballavano tutti gli orari, abbiamo ricevuto una risposta del pubblico incredibile. Quasi tutti gli spettacoli sono andati sold out, ma soprattutto ricordo un momento. Al termine del primo spettacolo del Festival (era “Requiem for Pinocchio” de Leviedelfool) ricordo un applauso infinito. Ma non era solo per il bellissimo lavoro fatto da Simone Perinelli, c’era qualcosa in più e lo vedevi negli occhi degli spettatori. Forse erano gli occhi di chi si era dimenticato cosa significasse provare e condividere qualcosa. 

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Devo dire che non abbiamo cambiato direzione. Da sempre il lavoro di Strabismi è incentrato su due vettori: il lavoro sul territorio e il sostegno e la promozione dei giovani artisti. Nel tempo abbiamo potenziato questo aspetto e da quest’anno abbiamo aggiunto un’azione rivolta al teatro ragazzi: StraBimbi Festival.

StraBimbi è frutto di un lavoro di molti anni sul territorio, infatti, proprio quest’anno l’istituto comprensivo di Bevagna-Cannara ha inserito nei patti formativi l’attività teatrale. Ciò significa che gli allievi e le allieve delle scuole medie e elementari della nostra città vivranno il teatro come attività curricolare. Ed insieme a questo importante traguardo, abbiamo potenziato anche il Festival Strabismi aumentando sia gli studi che andremo a selezionare da Bando, ma anche i premi messi a disposizione. 

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Come anticipato prima, quando ci siamo trovati in confusione, come suppongo tutti, con l’arrivo del primo lockdown, abbiamo avuto forte supporto da parte dell’amministrazione del Comune di Cannara. Sempre pronti a confrontarsi con noi suggerendo possibilità e sostenendoci nelle nostre scelte.  

Lucia Guarino per il progetto Emergenze Artistiche a Strabismi Festival

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico? 

Una prima strategia fu quella di andare ad abbassare quanto più possibile i costi dei biglietti. Sapevamo benissimo che molte persone avevano perso il lavoro, tante vite si sono dovute riorganizzare o reinventare e per far si che il teatro continuasse ad essere di tutti, abbiamo deciso di realizzare un festival con biglietti al costo simbolico di due euro e concerti gratuiti. 

Una seconda azione che non definirei strategica, ma che ha aiutato molto a riportare il pubblico locale nel nostro teatro fu quella di dedicare il festival del 2020 agli artisti Umbri. Abbiamo pensato solamente che in una scena teatrale umbra ormai affermata a livello nazionale e che anche gli artisti a noi vicini, esattamente come tutti gli altri, avevano vissuto lo stop totale dell’attività, quindi prima di riaprire “i confini” abbiamo deciso di ripartire dalle nostre radici.  

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

La pandemia è alle spalle. Si parla già da tempo di endemia, il covid sarà parte della nostra vita quotidiana, o almeno così sembra da quel che dicono gli esperti del settore. Io mi occupo di altro e più che notare l’assenza degli “stati di eccezionalità legati alla pandemia” mi preoccupo perché questa situazione d’emergenza non ha portato a nessun miglioramento per la nostra condizione di lavoratori dello spettacolo. Avevamo un’occasione, la macchina si era fermata nostro malgrado ed era il momento di fare una bella revisione, cambiare pezzi e ripartire meglio di prima. Per esempio mi chiedo, perché non si è fatto o non si sta facendo un lavoro per adeguare la nostra intermittenza (al momento i lavoratori dello spettacolo devono utilizzare la Naspi, strumento del tutto inadeguato) sul modello francese o sullo Lo statut d’artiste belga? 

I sindacati lottano per questo, ma quando dal Palazzo dicono che i soldi non ci sono è come quando la mamma da piccolo ti lasciava piangere perché tanto prima o poi avresti smesso di fare i capricci. Visto il periodo, per vedere quanto questi soldi “non ci sono” andate a vedere l’investimento italiano nell’industria bellica e quello nel settore culturale. 

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Credo di aver già risposto nella precedente domanda. Sicuramente sento la costante mancanza di tutela per il teatro emergente ed il troppo spazio a nomi televisivi nelle stagioni. Prendo in prestito le parole di Massimiliano Civica che descrive molto bene la maggior criticità di ciò che abbiamo ora: 

“…Lo Stato finanzia il passivo dei Teatri Pubblici proprio perché devono produrre arte e innovazione, che comporta un rischio economico di passività: quando producono spettacolo “biecamente” commerciali stanno quindi tradendo il loro mandato pubblico…”

Guardiamo le stagioni dei teatri nazionali e Tric e vediamo quanti non fanno questo tipo di programmazione. Se solo ci fosse un minimo di attenzione e di interesse nel far circuitare un’arte che potremmo definire “rischiosa” probabilmente non ci accontenteremmo più e si rimetterebbero in discussione certe posizioni. 

CHI SIAMO

L’obiettivo di Strabismi Festival è la promozione e il sostegno di giovani artisti attraverso un percorso strutturato di residenze e tutoraggio artistico. Nel cuore della Grande Madre Umbria, a Cannara, Strabismi Festival ogni anno ospita artisti da tutta Italia creando un momento di incontro dedicato alla condivisione e allo scambio. Con un’attenzione particolare per gli artisti emergenti, Strabismi è un festival creato da giovani, rivolto ai giovani.

https://www.strabismi.com/
La scena delle donne

LA SCENA DELLE DONNE: INTERVISTA A BRUNA BRAIDOTTI

Inizia domani in Friuli Venezia Giulia, tra Pordenone, Cordenons e e Vigonovo di Fontanafredda, La scena delle donne, un festival dedicato interamente al femminile e che giunge alla sua diciottesima edizione. Spalmato sul un lungo periodo fino all’autunno La scena delle donne vuole fornire uno spaccato non solo artistico sulla condizione femminile non solo in Italia. Il primo blocco di programmazione si dona un titolo importante: Connessioni Intergenerazionali e vuole appunto mettere in comunicazione e confronto artiste di diverse generazioni. In occasione di questo inizio, rimandato causa Covid, ma che coincide con la Feste delle donne, abbiamo intervistano la direttrice artistica Bruna Braidotti.

Parlando della questione femminile e di genere in questi ultimi anni vi è stata una graduale messa in discussione di diritti che si pensavano ormai acquisiti (penso all’aborto, per esempio) e una crescente ostilità nel riconoscere da parte della politica prima e della società in generale, parità di genere a qualsiasi genere: quali sono secondo te i motivi di questi passi indietro?

Credo sia accaduto a partire dagli Ottanta e Novanta, una sorta di riflusso del femminismo, la voce femminista si è come acquattata. Questa trasformazione l’ho anche un po’ vissuta nel mio lavoro e nella mia attività di creazione in teatro di un movimento per le donne e per la parità di genere. A un certo punto, l’interesse per il femminismo è andato scemando, addirittura anche la parola “femminismo” è stata un po’ messa all’indice. Nonostante stessero nascendo e si diffondessero le commissioni per le pari opportunità, i centri antiviolenza, che sono stati dei catalizzatori dell’attivismo delle donne, c’è stata una involuzione culturale, dovuta all’espandersi di una cultura effimera superficiale, promossa dai media come la televisione e anche, se vogliamo, i social network. Chiaro che la politica c’entra molto in questo discorso: ti dico solo che nel 2006 ho tenuto un convegno a Pordenone sulle donne e teatro, su La rappresentanza e la rappresentazione, c’era il governo Prodi. Fu bellissimo, venne anche Judith Malina del Living Theatre, fu il primo passo per la nascita della rete che tuttora è attiva in Italia. Nacquero molte speranze, iniziammo a fare convegni in giro. Dopodiché tutto è morto, in concomitanza con il cambio di governo e il berlusconismo. C’è stata secondo me questo tipo di influenza, quella che io chiamo la cultura dell’effimero, che ha fatto scemare l’urgenza delle donne di tutelare ciò che avevano già conquistato.

A seguito dei movimenti #metoo anche in Italia si sono mosse le acque sulle questioni di violenza esercitate nel mondo dello spettacolo. È nata Amleta per contrastare le disparità e violenze di genere, le cui denunce su Facebook hanno fatto emergere un panorama vergognoso e avvilente. Cosa si può fare ancora secondo te per impedire a episodi di questa gravità di ripetersi?

Chiaro, il movimento #metoo ha rilanciato il movimento delle donne e dei loro diritti. In effetti la cultura del rispetto delle donne fa fatica ad affermarsi. Quello che secondo me le donne potrebbero fare sarebbe attivarsi maggiormente, soprattutto sui media, attraverso la rappresentazione stessa delle donne. Le donne non fanno abbastanza. Si accetta troppo tranquillamente che per esempio in televisione siano tutte con il “tacco 12”: perché? Perché bisogna essere sex symbol? Le donne stesse purtroppo si adattano a questo. Una volta durante un incontro è successa una cosa che mi ha fatto ridere: una ragazza femminista, sempre nell’ambito del teatro, affermava quanto fossero importanti tutte queste cose che stiamo dicendo, ho guardato poi com’era vestita, era novembre: praticamente in mutande. Una si può vestire come vuole, sia chiaro, ma spesso non riflettiamo su come il nostro abbigliamento (quello a cui siamo condizionate dalla moda e dalla pubblicità) abbia la sola funzione di attrarre sessualmente gli uomini secondo il loro desiderio di cui abbiamo introiettato lo sguardo. Ma bisogna cominciare a cambiare. Volevo raccontarti un episodio, una manifestazione a cura di Marisa Ulcigrai di Fotografaredonna che è stata fatta a Trieste un po’ di anni fa, FemminileReale, e che io ho subito ripreso a Pordenone, organizzando una mostra su questo. Nel mese di marzo, in collaborazione con l’azienda dei trasporti di Trieste, furono affisse sui mezzi di trasposto pubblico grandi immagini di donne del quotidiano. Donne anche belle, se è per quello, ma nella loro normalità, non sex symbol. L’effetto in termini di comunicazione è stato fortissimo, perché non siamo più abituati a questo tipo di immagini. Siamo abituati ai filtri bellezza, alle immagini patinate, smussate, spesso ammiccanti. Gli uomini non accettano di vedere le donne per quello che sono. Servirebbero più iniziative di questo genere. C’è molto da fare sui media per cambiare l’immaginario femminile preteso dagli uomini, secondo cui le donne sarebbero adatte solo a espletare “quella” funzione.

Emanciphate Teatro al femminale

Per quale motivo, secondo la tua opinione, il mondo maschile è così restio ad accogliere il femminile e ciò che di inconsueto e raro può portare non solo in ambito creativo, ma politico e sociale?

Secondo me gli uomini sono ancora dentro il pensiero dell’assoluto e dell’Uno. Non hanno ancora compreso la differenza, o meglio, che la differenza è un limite. A partire da quella sessuale. Anche se sullo stesso piano, gli uomini e le donne sono differenti. Ciò significa che uno non può appropriarsi dell’altro o rappresentare l’altro. Sono come una pera e una mela: entrambi frutti, ma sono differenti. Il desiderio dell’altro o dell’altra può essere un limite al proprio e la convivenza felice tra i due dipende dall’accettazione e il rispetto di questo limite. Gli uomini non sono abituati a questo, perché si sentono il soggetto unico. Una rivoluzione culturale degli uomini comporterebbe pensare di perdere la propria identità così come gli era stata trasmessa. Gli sembrerà di perdere qualcosa, perché sin da bambini viene fatto percepire l’essere maschio come un valore aggiunto, un “di più”. E questo è quindi un problema per gli uomini: una donna si può vestire da uomo ed essere comunque riconosciuta come donna, può mettere una cravatta e nessuno si permetterebbe di dire in modo spregiativo che quella donna è un uomo, ma un uomo può sentirsi libero di mettere, nella nostra società, una gonna rosa? Se la mette, perde la sua identità di uomo. 

Non possono mai mostrarsi come donna, perché gli è stato fatto intendere che essere donne è un minus. È un problema di identità costruita dal patriarcato, che per loro è difficile perdere, perché fin da bambini gli hanno insegnato che è meglio essere uomini che donne. Cosa vuol dire in campo politico? Per il politico accettare l’affermazione delle donne significa perdere potere e quelle poche che salgono al potere vengono spesso prese di mira. Se le donne fossero in massa  in politica sono certa che i Comuni farebbero vertere i loro programmi su contenuti diversi. Forse avremmo meno campi di calcio e più asili nido o servizi per la maternità. E poi mi domando: il genere femminile, che capisce che cosa vuol dire avere la vita dentro il proprio corpo, la concepirebbe la guerra? Di donne guerrafondaie ce ne sono, per carità, ma sarebbe da provare: se le donne fossero veramente al potere (cosa che ancora dal matriarcato in poi non è più successo) forse il mondo sarebbe più pacifico? Le donne in generale sono più legate alla conservazione della specie.

Ti faccio una domanda che può apparire provocatoria, ma non lo è: c’è qualcosa in cui i movimenti femministi e di difesa della donna hanno, non dico sbagliato, ma omesso o trascurato nella comunicazione con l’universo maschile più conservatore e legato al patriarcato? Il dialogo e la comprensione sarebbero potuti avvenire in forme diverse da quelle utilizzate?

Non credo. Anzi, credo le donne siano state fin troppo gentili e poco aggressive; hanno inventato le femministe la lotta non violenta, si legavano ai cancelli ai primi del Novecento per chiedere il diritto di voto. Credo però che le donne dovrebbero osare di più, essere forti e non avere la minima condiscendenza verso il maschilismo, perché altrimenti gli uomini se ne approfittano. Le donne mantengono sempre un po’ quest’atteggiamento. Anche la femminista più cruda, per esempio, si depilerebbe sempre le gambe, perché alle radici c’è sempre una cultura patriarcale verso la quale si è condiscendenti, “io mi adatto al tuo sguardo, che vuole che io sia attraente, con la pelle liscia, ecc. ecc.”. È una cosa tutta culturale, non naturale. Secondo me dovremmo osare di più, mettere più forza nella nostra lotta. Come formano gli uomini la loro identità, fra di loro? Lottando, competendo, spesso anche i bambini hanno bisogno di lottare fra loro, far a botte per mostrare quella forza che afferma la loro identità. E quindi anche le donne avrebbero bisogno, per farsi rispettare di mostrare la loro forza e determinazione. 

La stanza delle anime di e con Arianna Ardonizzo Regia Bruna Braidotti

Parlando de del festival da te diretto Scena delle donne, avete riscontrato negli anni un crescere di pubblico maschile? Gli uomini si sentono toccati dai temi e dagli spettacoli che proponete o il pubblico è prettamente femminile?

Devo dire che sono aumentati numericamente ed è aumentata la sensibilità verso i temi femminili. Qualcosa insomma si è mosso in questi ultimi anni. Non so quanto il mio festival abbia contribuito, perché nel frattempo anche altre cose sono successe. Stanno cambiando anche le nuove generazioni, e in questo cambiamento io confido. Devo dire che tuttavia persistono tra i giovani maschi alcuni stereotipi. Dico questo perché io lavoro molto nelle scuole, anche elementari, e se c’è una cosa che è retro-tendente, che non contribuisce a far cambiare le cose, è il linguaggio. Si dice sempre “i bambini” e mai “le bambine”: questo fa capire alle bambine che il loro genere è meno importante; non sono mai protagoniste nel linguaggio. Sarebbe importante incominciare a fare questa fatica di declinare le parole sia al maschile sia al femminile (per esempio, “i bambini e le bambine”), di modo che le bambine si sentano protagoniste anche loro. Comunque tornando alla domanda che mi hai fatto, il pubblico rimane prevalentemente femminile, spesso è anche un pubblico femminile già particolarmente sensibile a questi temi, mentre quello che vorremmo è rivolgerci a tutto il pubblico, stimolare una programmazione maggiore di proposte femminili nei festival (per questo facciamo anche concorsi come La giovane scena delle donne all’interno del festival), nelle rassegne e nei circuiti affinché sempre più drammaturghe e registe possano accedere ai cartelloni dei teatri (cosa che non succede). I cartelloni infatti vedono il 30% di drammaturghe e il 20% di registe, questo almeno secondo la ricerca da me condotta qualche anno fa e da quella realizzata da Amleta recentemente. La partecipazione maschile del pubblico  però, anche se è un po’ aumentata,  resta un problema. Giovani attori che io interrogo ogni tanto, anche quelli che lavorano con me, a cui chiedo se andrebbero a vedere lo spettacolo che tratta della violenza sulle donne mi rispondono “no, perché riguarda le donne”. È terribile questa cosa, è come se non fosse chiaro che il soggetto protagonista della violenza non sia la donna, ma l’uomo che la agisce. 

Magda Siti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A MAGDA SITI

Siamo alla quattordicesima intervista di Resistenze Artistiche e torniamo sulla via Emilia, a Modena per incontrare Magda Siti, direttrice e anima forte di Drama Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Dal 2014 gestiamo uno spazio comunale sempre con l’idea che il nostro sia un vero e proprio servizio pubblico. Servizio che in questi due anni è rimasto chiuso per centinaia di giorni. Dopo il momento iniziale di shock abbiamo subito attivato quel sistema di difesa che si chiama creatività: abbiamo cioè continuato a progettare e ipotizzare azioni nel mondo reale per un futuro che non sapevamo quando sarebbe arrivato. Lo spazio fisico quindi è rimasto chiuso, lo spazio virtuale si è limitato a un contatto diretto con gli spettatori attraverso la call per il festival internazionale Cinedanza e le dirette settimanali su YouTube “Inside Cinedanza”. Nell’estate del 2020 il teatro era sempre chiuso e le performance che abbiamo organizzato per la rassegna “Frequenze” si sono svolte in un cortile privato e in un parcheggio di un circolo Arci. Sul filo del rasoio (ottobre 2020) siamo riusciti a portare a termine il festival Cinedanza in presenza e in diretta streaming su YouTube. Il secondo lockdown è stato più pesante del primo, ma siamo comunque riusciti ad elaborare il progetto “La vostra voce” che ha coinvolto cittadini e spettatori. Il focus erano loro, la loro voce, i loro racconti, le loro esperienze, che abbiamo raccolto sia davanti all’ingresso del teatro (registratore alla mano) sia attraverso una call di raccolta di racconti brevi. Poi c’è stata anche una piccola azione politico/artistica: un countdown al contrario: dirette video in cui, ogni giorno di chiusura, dalla bacheca del teatro strappavamo un foglio così che il numero stampato crescesse. A 100 giorni di chiusura abbiamo fatto un flashmob sul tetto del teatro.

Da gennaio 2021 abbiamo esplorato il mezzo radiofonico e proposto l’ascolto in prima serata di alcune opere costruite apposta da Radio Tempi Tecnici. In più ci siamo lanciati nelle prove di Era meglio Cassius Clay che ha debuttato in estate al festival Inequilibrio.

Infine l’imbuto infernale delle riaperture. Da maggio ad oggi non ci siamo mai fermati, tra attività all’aperto e al chiuso abbiamo proposto 17 titoli per un totale di 26 serate in 3 spazi della città.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Abbiamo continuato il percorso con gli artisti con cui condividiamo da alcuni anni una riflessione sul lavoro dell’attore in scena e la scrittura scenica. Abbiamo sfruttato ogni momento possibile, tra una chiusura e l’altra e siamo arrivati al termine di una nuova produzione con testo e regia di Rita Frongia: ” Era meglio Cassius Clay”. Contemporaneamente abbiamo stretto i rapporti con un gruppo di attori giovani, a cui era giusto dare spazi sia fisici sia di creazione. È stato fondamentale per noi pensare a cosa diventava inutile. Pensare alle priorità,cercando di salvaguardare il più possibile le nostre linee culturali, compatibilmente con la sopravvivenza.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Abbiamo avuto una vicinanza con l’amministrazione comunale che ha sostenuto il settore anche con dichiarazioni pubbliche oltre a dare sostegno economico nei limiti delle loro possibilità.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Pensandoci bene, forse non abbiamo modificato radicalmente le strategie,se non nel adeguare il mezzo comunicativo alle esigenze sanitarie( radio,interviste,) perché comunque noi abbiamo sempre privilegiato un rapporto continuativo, spesso personale o coinvolgendo piccoli gruppi di spettatori. La riflessione maggiore che abbiamo fatto, riguarda la nostra attività : su cosa investire? È il momento di farlo?

Teatro Akropolis

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO AKROPOLIS

Per la tredicesima intervista di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Bologna verso Genova per incontrare Teatro Akropolis sotto la cui sapienti mani prende forma anche il Festival Testimonianze, Ricerca, Azioni. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Carlo Sini La parte maledetta

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Lo spazio di Teatro Akropolis non è solo una sala teatrale, ma anche il luogo dove tutte le attività creative della compagnia hanno la loro sede. Non si tratta solo della produzione degli spettacoli, ma di tutte le iniziative di ricerca e di formazione che costituiscono la nostra attività permanente. L’impossibilità di utilizzare lo spazio a causa delle restrizioni che sono state imposte si è sommata alle difficoltà già in atto a causa dei lavori di ristrutturazione che hanno interessato il teatro. La produzione artistica e lo spazio, che abitualmente sono strettamente legati, si sono forzosamente allontanati, e le attività di produzione e di formazione si sono trasferite in spazi diversi, vicini al teatro ma separati. Non solo l’aspetto logistico si è dovuto adattare a luoghi diversi, ma anche il lavoro per la scena, rivedendo le modalità e le procedure finché è stato possibile, e rinunciando al lavoro con gli attori quando è diventato inevitabile. L’unico aspetto della nostra attività che è sfuggito alle restrizioni e ai divieti è stato quello dedicato alla formazione, e la nostra ricerca si è concentrata proprio lì. Il lavoro degli attori di Akropolis con i bambini e i ragazzi del quartiere è cresciuto in questi lunghi mesi fino ad arrivare a coinvolgere un migliaio di alunni e studenti. La possibilità di continuare a lavorare sui principi che entrano in gioco anche negli spettacoli ci ha consentito di non fermarci definitivamente ma di mantenere vivo il fuoco dei temi e dei problemi che li ispirano.

Teatro Akropolis Laboratori

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Quando l’accesso alla scena è sostanzialmente negato l’unica possibilità che si prospetta per continuare a lavorare è quella di spostare il processo creativo su un altro piano. Il lavoro con gli attori che noi conduciamo prende le mosse da una approfondita elaborazione teorica, che si sviluppa attraverso un’elaborazione condivisa di immagini e di itinerari di pensiero. Molto spesso questo aspetto letterario della creazione non si concretizza in immagini che compaiono direttamente sulla scena, ma costituisce un repertorio di materiali che rimangono latenti. Su questi contenuti abbiamo lavorato, rielaborandoli attraverso un linguaggio differente rispetto a quello delle arti performative, quello del video. Nasce così il progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro, un ciclo di film dedicati ad alcune delle figure più significative della scena contemporanea proprio in riferimento al loro personale percorso, che ha portato a un punto critico alcuni temi riferiti alle problematiche che sorgono quando si affronta la scena e la performance. Il titolo si riferisce proprio a quella parte del lavoro che non compare nell’opera, che nel processo estetico è stata ripudiata ma non rinnegata. I titoli finora realizzati sono Paola Bianchi, Massimiliano Civica, Carlo Sini. La ripresa delle attività teatrali ha portato con sé l’inizio di un nuovo lavoro per la scena, ma allo stesso tempo stiamo lavorando ad un nuovo titolo per la produzione cinematografica. Per quanto riguarda la nostra attività organizzativa abbiamo dovuto affrontare la chiusura della sale proprio pochi giorni prima dell’edizione 2020 del festival Testimonianze ricerca azioni. Era un periodo estremamente confuso e ci siamo sentiti in dovere di prendere posizione contro la pratica, che si stava diffondendo, di sostituire lo spettacolo dal vivo con spettacoli in streaming o con registrazioni video delle performance. Abbiamo proposto un’edizione del festival interamente digitale, che rispettasse le date e i luoghi dove da programma erano previsti gli spettacoli. In diretta streaming abbiamo invitato gli artisti ad un tavolo virtuale di confronto perché raccontassero la loro poetica, la loro ispirazione, le inquietudini profonde che ispirano il loro lavoro, mentre noi ci collegavamo dalle sale vuote che avrebbero dovuto accoglierlo. È stato un successo e la nostra proposta è stata accolta con il riconoscimento del Premio Hystrio Digital Stage.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni hanno mantenuto vivo il loro interesse per il progetto di Teatro Akropolis, infatti il periodo di difficoltà ha coinciso con il proseguimento dei lavori di ristrutturazione della sala, che a breve verrà inaugurata e ci consentirà di rilanciare con forza il nostro progetto artistico e curatoriale. Inoltre il Comune di Genova ha messo a nostra disposizione una sala del Teatro Nazionale permettendoci di realizzare la tredicesima edizione del nostro Festival Testimonianze ricerca azioni che nel 2021 è tornato in presenza, anche se non a Teatro Akropolis. Anche Palazzo Ducale ha confermato il suo sostegno alle nostre iniziative ospitando la quarta edizione del convegno internazionale sulla danza butoh e gli spettacoli che lo hanno accompagnato.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Il tema del pubblico è uno di quelli più sensibili in questo periodo di crisi, la riapertura dei teatri non ha coinciso con un ritorno del pubblico in sala, come una certa narrazione invece ci ha raccontato. Il pubblico è spaesato, la capienza massima delle sale che viene modificata a brevi intervalli, contribuisce a diffondere un clima di incertezza. L’ultima edizione del festival ha avuto un’ottima risposta di pubblico, ma una buona affluenza non è un dato che possa considerarsi stabilizzato. È ancora più importante, quindi stabilire e mantenere un legame privilegiato con il proprio pubblico, in modo da creare quel senso di comunità che faccia del teatro un luogo familiare, dove andare senza timore. Per far questo è importante creare un canale di informazione sempre aperto, attraverso i social ma non solo. Una buona parte del pubblico si è fidelizzato anche grazie ai rapporti con il territorio, attraverso i laboratori per le scuole, per esempio, che sono un veicolo prezioso per ribadire la presenza dei un teatro e della sua attività e per creare curiosità e interesse per le sue proposte.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Che sia riconosciuto o meno lo stato di eccezionalità non è più reversibile. è in atto un cambiamento molto profondo nelle abitudini del pubblico e nella percezione della fruizione culturale. Uscire di casa per andare a teatro non sarà più come prima, non sarà più un gesto neutro. È ormai un atto politico, animato dalla consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità, dall’idea di sostenere la vita di un luogo e di un’attività. Ma può diventare anche un gesto che è meglio evitare, può diventare qualcosa a cui abdicare, magari nel nome della sicurezza e dell’integrità personale, o magari perché la cultura viene vista come un lusso da cui è preferibile stare alla larga.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Un tema che non è stato affrontato è quello della distinzione delle discipline. I linguaggi artistici ammessi ad essere finanziati sono espressione di una suddivisione per specialismi che porta ad una classificazione molto convenzionale. Tutte le spinte delle scene indipendenti, tutti gli impulsi che vengono dai contesti in cui si lavora con uno spirito di ricerca, fino a costituire autentiche esperienze di laboratori condivisi da artisti che si esprimono con linguaggi differenti, sfuggono inevitabilmente alle categorizzazioni imposte dei parametri ministeriali. In particolare la distinzione delle arti performative per la scena in danza e prosa è lo specchio di un punto di vista che esclude gli aspetti più significativi dell’innovazione dei linguaggi performativi. La conseguenza di questa lettura della scena contemporanea è che i sostegni più impostanti vanno ad alimentare le realtà più legate ad una estetica conservatrice.

CHI SIAMO

Teatro Akropolis da oltre dieci anni è un luogo dedicato alla ricerca artistica, all’elaborazione e alla condivisione dei contenuti che innervano e accompagnano l’atto creativo, all’attenzione rivolta al pensiero degli artisti prima ancora che all’esito dei loro lavori. Teatro Akropolis è anche un gruppo che conduce un lavoro ispirato ai temi dell’origine dell’atto teatrale, a partire dalle pagine di Nietzsche, e alla loro tematizzazione sulla scena contemporanea.

Laminarie Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A LAMINARIE TEATRO

|ENRICO PASTORE

Per il dodicesimo incontro di Resistenze artistiche ci spostiamo da Cagllari alla periferia di Bologna, alla cupola del DOM nel quartiere del Pilastro, per incontrare Bruna Gambarelli di Laminarie teatro.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

DOM la cupula del PIlastro sede di Laminarie Teatro

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

L’emergenza sanitaria ha modificato radicalmente le azioni culturali che solitamente mettiamo in atto per DOM la cupola del Pilastro. DOM è uno spazio fondato da Laminarie nel 2009 dedicato ai linguaggi del contemporaneo, e per questo luogo curiamo solitamente due rassegne all’anno, ospitiamo artisti in residenza, organizziamo vari altri appuntamenti dedicati alla memoria del rione e del paesaggio urbano periferico. Ogni attività prevede il coinvolgimento delle realtà che operano nel territorio del Pilastro, area della città dove sussistono fragilità di carattere economico sociale e culturale, con le quali collaboriamo da sempre. Il DOM è un luogo di prossimità che ha costruito il proprio pubblico attraverso lo scambio di esperienze con gli abitanti del rione e con il coinvolgimento di operatori culturali, artisti e studiosi.

Nel febbraio del 2020 abbiamo interrotto come tutti le attività e sospeso la programmazione di Onfalos infanzia al centro, festival dedicato ai bambini alle bambine e agli adolescenti. In questa fase di totale isolamento abbiamo pensato che il teatro del rione, al pari di altre realtà presenti sul territorio, dovesse occuparsi dell’emergenza e abbiamo quindi predisposto materiali affinché i cittadini e le cittadine potessero fabbricarsi mascherine (allora introvabili) e abbiamo fornito, nel limite delle nostre possibilità, cibo e materiali didattici alle famiglie. Abbiamo collaborato con altre realtà del territorio per fronteggiare l’emergenza non solo sanitaria ma sociale ed economica.

Nell’ottobre del 2020 abbiamo dovuto interromper la rassegna Scartare a due giorni dalla sua inaugurazione. Abbiamo offerto a tutti i lavoratori (artisti e tecnici) coinvolti nella rassegna il compenso pattuito nonostante il blocco delle attività pubbliche.

Da subito è stato evidente che la continua l’interruzione delle relazioni umane avrebbe comportato difficoltà nella ripresa delle attività in presenza.

Era importante per noi cercare di mantenere acceso un rapporto con artisti pubblico ma abbiamo rinunciato immediatamente a qualsiasi proposta di teatro in streaming.

Così abbiamo attivato altre iniziative tra cui:

  • Saluti dal Pilastro

Grandi manifesti affissi in tutta la città con fotografie storiche e contemporanee del rione Pilastro tratte dall’archivio digitale di Comunità del Pilastro curato da Laminarie;

  • Cartoline da un luogo memorabile

Stampa di 20 esemplari di cartoline postali che ritraggono il rione Pilastro dalla sua fondazione (1966) ad oggi e recapitate a tutti i cittadini e le cittadine del Pilastro;

  • Proiezione in piazza Maggiore delle immagini tratte dall’Archivio in collaborazione con la Fondazione Cineteca di Bologna;
  • AmpioraggioTV

Realizzazione di una web TV. Trasmissioni in diretta e in differita da luoghi diversi del rione. Realizzazione di n. 100 diversi servizi (News, Urbanistica, attività culturali, informazioni sulla medicina territoriale, interviste ai cittadini e agli amministratori, servizi realizzati dai bambini dalle bambine e dagli adolescenti). Finanziato dal bando INCREDIBOL 2020;

  • Realizzazione e- book ANNI INCAUTI. L’invenzione di DOM la cupola del Pilastro. Edito da CUE Press https://www.cuepress.com/catalogo/anni-incauti;
  • Incontri a distanza con i bambini e le bambine per apprendere tecniche di montaggio video e poter partecipare alla web TV ampioraggio;
  • Laboratori in presenza con gli adolescenti seguiti nel progetto

”Stanze educative”

  • Rassegna DAVVERO nel parco condominiale del Polo Panzini adiacente a DOM (Incontri, letture, esiti dei progetti di impresa e delle attività laboratoriali curate con i servizi educativi e con la Fondazione Cineteca di Bologna);
  • IL PATTO lettura pubblica della Costituzione – XII edizione;
  • Letture/spettacolo gratuite rivolte a tutti gli alunni dell’Istituto Comprensivo 11 (scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado);
  • Pubblicato il nuovo numero della rivista cartacea Ampio raggio esperienze d’arte e di politica

http://www.laminarie.com/index.php/ampio-raggio-numero-nove

  • Abbiamo piantato e curato 18 alberi;
Ampioraggio TV

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre energie all’attività di produzione. Dal lavoro dei mesi appena passati è nata la nostra nuova produzione Invettiva inopportuna che, nel rispetto di tutte le norme previste per il contenimento della pandemia, ha debuttato nello scorso autunno in coproduzione con ERT/Teatro Nazionale.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni a nostro parere, dopo una fase iniziale in cui sembrava possibile una collaborazione effettiva, hanno agito in modo scomposto senza creare tra loro un vero coordinamento. Nel 2021 LAMINARIE ha ricevuto risposte negative sui finanziamenti da:

1- Bando INCREDIBOL 2021! ASSEGNAZIONE SPAZI

ESITO NEGATIVO

2 -REGIONE EMILIA-ROMAGNA L.R.37/94 – PROMOZIONE CULTURALE

ESITO NEGATIVO

3 – COMUNE DI BOLOGNA – PROGETTO SPECIALE

ESITO NEGATIVO

4 – FONDAZIONE DEL MONTE

ESITO NEGATIVO

5 – MINISTERO – NUOVA ISTANZA FUS

ESITO NEGATIVO

6 – QUARTIERE SAN DONATO-SAN VITALE _ Assegnazione spazi

ESITO NEGATIVO

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Ci troviamo in un momento decisivo per la continuazione dell’esperienza di Laminarie a DOM. E’ evidente, infatti, che le decisioni politiche che prenderanno gli amministratori nei prossimi mesi determineranno le attività del prossimo triennio. A Bologna in particolare si attendono le risposte anche della Regione Emilia-Romagna e dell’Amministrazione comunale che dovrà rinnovare per i prossimi anni le convenzioni con le realtà che operano in campo culturale. Siamo al terzo inverno in pandemia e non crediamo che per le associazioni, già in difficoltà a causa di una strutturale mancanza di contributi adeguati, possano continuare operare a stretto contatto con i territori, possano dare continuità a esperienze di qualità se non adeguatamente supportate.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Nonostante le molte e giuste voci di protesta, forse non sufficientemente unite, il decreto è uscito sostanzialmente invariato (per certi versi peggiorato) con scadenza per la consegna delle richieste al 31 gennaio: questo fatto basta per far comprendere la distanza siderale tra chi amministra i fondi pubblici e le realtà che operano professionalmente in ambito teatrale.

Non è bastata neppure una pandemia per far comprendere quanto quel decreto sia inadeguato.

Crediamo che, nella confusione paralizzante e nella convinzione che fosse impossibile trovare una via di uscita, in molti si siano concentrati sulla ripartenza sul rispetto dei parametri che ti garantiscono i contributi pubblici senza dedicare il tempo sufficiente alla stasi nella quale eravamo comunque immersi. Chi poteva ricominciava spesso senza un vero progetto alimentando così la falsa credenza che i teatri “grandi” possano esistere senza i “piccoli”.

Non siamo stati capaci di far valere i diritti dei lavoratori dello spettacolo così come non siamo stati capaci di trovare una nuova via.

Non siamo stati capaci di fermarci veramente, di pensare, di agire.

CHI SIAMO

LAMINARIE/DOM la cupola del Pilastro

La ricerca di Laminarie si è posta fin dalle sue origini in relazione con linguaggi artistici quali le arti visive, l’architettura, il cinema, la letteratura, approccio che si manifesta sia nell’espressione teatrale – con atti performativi e spettacoli che producono un linguaggio scenico originale, declinato anche in una relazione con l’infanzia – sia nello sviluppo di percorsi in grado di intrecciare pubblici differenti. Impegnata anche nella produzione di opere di videoarte, la compagnia realizza dialoghi culturali con diverse realtà europee sviluppando i propri progetti su un piano internazionale. LAMINARIE ha sede operativa a DOM la cupola del Pilastro, spazio creato dall’ associazione in convenzione con il Comune di Bologna nel 2009.DOM è un luogo in cui la ricerca teatrale è strumento di relazione con gli altri linguaggi artistici e con un territorio ricco di culture diverse è un laboratorio delle arti immerso in un quartiere popolare della città di Bologna. DOM ospita da residenze creative dalla sua fondazione.

http://www.laminarie.com/

Simonetta Pusceddu

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A SIMONETTA PUSCEDDU

Per l’undicesimo incontro di Resistenze Artistiche torniamo in Sardegna, più precisamente a Cagliari per incontrare Simonetta Pusceddu, anima forte ed energica, di Tersicorea e del Festival Cortoindanza, e della rete Med’arte.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Lucrezia Maimone in La balsa de Piedra Residenza Artistica

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

La difficile situazione venutasi a creare a seguito dell’emergenza pandemica da covid19 ha avuto un forte impatto sul settore artistico, culturale e dello spettacolo dal vivo nel suo complesso. Ho ritenuto comunque importante non rinunciare a portare avanti le attività che potessero contribuire a sostenere i giovani artisti e i loro progetti di creazione. Pur in questo nuovo scenario di difficoltà mondiale, siamo riusciti comunque a portare a termine tutte le attività ri-calendarizzando i nostri programmi al fine di realizzare le attività, mantenendo invariati, l’identità, la struttura generale dei progetti di Residenza Artistica.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Il progetto di residenza Interconnessioni si basa sulla riappropriazione di siti emblematici, con l’obiettivo di rivalutare la ricchezza del patrimonio culturale nel senso più ampio, al fine di toccare gli aspetti tangibili (siti archeologici, industriali o naturali) e quelli più intangibili come l’artigianato e tradizioni, o conoscenze e pratiche del territorio prescelto. Prendendo in considerazione le peculiarità che caratterizzano il luogo, il progetto di residenza artistica Interconnessioni legittima un lavoro di ricerca su linguaggi pluridisciplinari immersi in quelle che sono le peculiarità identitarie della Sardegna. Esso si basa su sistemi di sperimentazione site specific e sul concetto di interazioni corpo/spazio circoscritte, strategie finalizzate alla riattivazione della memoria e identità di ciascun sito, allo stesso tempo per reinterpretarlo e raccontarlo attraverso i linguaggi contemporanei.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

La presenza di un elemento identitario forte, quale il patrimonio geografico e culturale della Sardegna, costituisce l’elemento fondamentale per innescare un percorso virtuoso di sviluppo economico-culturale. La prospettiva di sviluppo dei progetti declinati secondo questa peculiarità, ha l’attesa finale di creare una forma speciale di collaborazione sinergica – amministrativa culturale – tra i territori coinvolti e adiacenti, al fine di avviare azioni di sviluppo integrate e condivise. Tale progettualità si è inserita in quel piano di politica territoriale e culturale, di conversione degli “ex luoghi e a interventi di bonifica e ristrutturazione di aeree e edifici di memoria storica, piano già attivo nel nostro territorio e all’interno del quale il nostri progetti si inseriscono sinergicamente e coerentemente, grazie anche al sostegno dei diversi enti pubblici territoriali locali. L’impatto emozionale e di coinvolgimento delle comunità coinvolte, nonché la fiducia da parte degli enti pubblici territoriali e delle comunità di riferimento a sostenere, offrire e incoraggiare i nostri progetti, ha aiutato a superare il momento di crisi economica provocato dai vergognosi tagli e ritardi di elargizione dei contributi regionali. Diciamo che la soddisfazione e l’ospitalità, la condivisione e l’accoglienza ottenuta dalle comunità ospitanti, ha sostituito la preoccupazione economica!

La balsa de Piedra Residenza Artistica

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La strategia del decentramento dell’arte, con la fondazione di punti d’incontro artistico, di scambio di esperienze individuali e collettive e di relazioni tra artisti con il pubblico del territorio regionale locale, ha posto le basi per la creazione di un circuito virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela dei beni e occupazione, basato sulla valorizzazione delle eccellenze locali e sul potenziamento di nuovi flussi di scambio culturale. L’idea centrale è e sarà quella di creare strategie di sviluppo e miglioramento della vita dell’individuo, non inteso solo in termini economici o, ancor più restrittivamente, come crescita economica, bensì in modo più esteso come ampliamento delle opportunità che sviluppano benessere. Questo processo agisce riorganizzando gli spazi sociali, facendo emergere nuove pratiche di cooperazione e competizione, nuove espressioni culturali transnazionali e translocali: e tutte queste nuove forme richiedono ed evocano nuove prospettive teoriche, nuovi immaginari culturali, nuovi orizzonti di frontiera. Credo ancora in qualche piccola speranza!

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

In generale la legislazione attuale ha falsamente sottolineato il valore incommensurabile della persona con falsi principi di solidarietà e di una cittadinanza attiva, ma ahimè vulnerabile. Il bene comune dipende si dai governanti, ma noi siamo complici passivi e cofautori di questo disastro. Nel mio cuore prevale il problema di un futuro umano diverso, una riflessione sulla pandemia vissuta dagli altri, nei paesi e nelle comunità più deboli e su quella vissuta dai nostri anziani. Non riesco a prescindere da questo sentimento di pena per l’umanità tutta, dunque non voglio preoccuparmi se siano contemplati o meno stati di eccezionalità, poiché credo che la vita deciderà prima o poi di piegare anche i più stolti a uno stato di coscienza e come diceva mia madre: necessità fa uomo saggio

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

È necessario sperimentare modelli di sviluppo che assicurino all’umanità un futuro di istituzioni che costruiscono un quadro di norme intelligenti, volte assicurare il bene comune che è la vita di tutti noi. Il teatro costituisce una piccola porzione di questo universo alla deriva che urge di un rinnovamento totale, uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale e che oggi unifica le giovani generazioni in ogni parte del mondo. In sostanza tanta fiducia nelle piccole comunità in cui ancora vige il principio della condivisione e attenzione verso i propri abitanti e tanta preoccupazione del malcostume che regna nella politica europea.

Breve cenno su chi siamo:

La Tersicorea da anni si distingue per le sue forti connotazioni didattico/formative e per l’attivo impegno in funzione della diffusione di una nuova pedagogia della danza e del teatro rivolta al sostegno dei giovani artisti in dialogo costante con le realtà consolidate in tutto il territorio locale, internazionale ed extra europeo. In questo contesto la Tersicorea e il suo Spazio Teatrale T.off garantiscono occasioni di sperimentazione, ricerca confronto, di scambio intergenerazionale e di metodologie e poetiche, attraverso residenze artistiche e rurali in forma di “cantiere”, di cui Tersicorea è promotrice in Sardegna e sostenitrice sin dal 1996. Dal 2008 ha generato una rete Internazionale di interscambio: Med’arte che nasce come organismo libero e indipendente. I partner sostenitori di Med’arte concepiscono la loro azione e funzione di “messaggeri” dell’arte contemporanea nel mondo, agendo attraverso l’influenza delle nuove tendenze che il linguaggio della danza ha assunto nella storia dell’Europa, con la finalità di valorizzare e fare approdare in Sardegna quel filone centrale di sviluppo della produzione d’avanguardia che si è appunto sviluppato in Europa e nel mondo, con particolare attenzione agli artisti emergenti provenienti da paesi a rischio di pace o in cui sono in corso conflitti civili.

Gommalacca Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA GOMMALACCA TEATRO

Per il decimo appuntamento di Resistenze Artistiche ci dirigiamo in Basilicata per raggiungere Carlotta Vitale e Mimmo Conte, fondatori e direttori della Compagnia Gommalacca Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gommalacca Teatro – Carlotta Vitale Il diario di Sofia

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Il nostro lavoro culturale non si è mai fermato. In effetti il teatro, nella sua pratica quotidiana, non può interrompersi, è un fatto che avviene ogni giorno e che possibilmente abbiamo interrogato con più forza, e alle volte disperazione, nel corso di tutte le fasi, molto diverse, dall’inizio della crisi pandemica. All’inizio di marzo 2020 abbiamo visto sfumare letteralmente la programmazione estiva sulla quale stavamo lavorando con due progetti piuttosto grandi anche economicamente, legati a una nuova natura produttiva della compagnia e che esprimevano meglio il nostro modo di intendere la relazione tra scena, persone e spazio pubblico. Lì in quel punto ci siamo trovati “interrotti” non solo nell’annullamento di una data, ma proprio di un processo che dopo dieci anni aveva trovato un suo culmine nel 2019 con la Capitale Europea della Cultura e che aveva la necessità di essere accudito, sviluppato e finanziato.

Quella interruzione, in quel momento, ha significato ritrovarci con le armi spuntate, e nei mesi, sempre più consapevoli di dover ricominciare da un grado zero, da un minimo che potesse essere sostenibile lavorativamente e umanamente. Riguardo alla pedagogia la nostra scelta durante il primo lockdown è stata di tenere il rapporto con la comunità teatrale online ma solo per i mesi di marzo e aprile, poi la programmazione nella pedagogia e negli spettacoli si è messa del tutto in relazione con gli spazi intermedi, aperti e accessibili della città e dei comuni. L’acquisizione della pratica lanciata da Ippolito Chiarello del teatro in bicicletta (delivery theatre) è stato uno strumento poetico molto funzionale per ricostruire, e in alcuni casi creare, il rapporto perduto con le persone. I progetti Erasmus plus e le progettazioni in essere non si sono mai arrestati, anzi sono stati una leva psicologica e economica che ha stimolato nuovi dialoghi con le amministrazioni e le scuole. In fasi alterne è risultato utile poter collocare i dipendenti della compagnia in cassa integrazione e con il sostegno dei contributi extra-FUS siamo riusciti, con grandissime difficoltà, a mantenere una direzione.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Progettazione, cura dei pensieri e tempo per farli crescere, cura delle relazioni con le persone (fruitori, partecipanti, interlocuzioni pubbliche) produzione sostenibile, contrasto della povertà educativa, contrasto delle discriminazioni per sesso, razza, lingua e religione, spazi pubblici, rigenerazione umana, ricerca cultura e documentazione del patrimonio culturale, nuovi linguaggi multimediali per la scena, ricerca su linguaggi interattivi e sensoriali per le fasce dei più piccoli, ricerca sulle drammaturgie originali, nuove alleanze artistiche.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Siamo stati ministeriali nel periodo dal 2012 al 2014, poi le nostre esigenze e caratteristiche produttive non erano più assimilabili alla lettura che il Ministero della Cultura fa delle realtà produttive italiane. Negli anni tra il 2015 e il 2019 grazie alla nuova legge regionale n.37 del 2014 alla quale stesura abbiamo contribuito insieme agli operatori lucani, la nostra compagnia è riuscita a trovare una sua giusta collocazione in termini di finanziamento pubblico mettendo in equilibrio il progetto e la produzione.

Dopo le elezioni del 2019, e il radicale cambio politico, il processo amministrativo si è “incantato” ovvero si è bloccato come sotto l’effetto di un incantesimo. Durante la fase pandemica in Basilicata gli operatori del settore teatro, cinema, danza, arti visive sono stati dimenticati senza alcuna interlocuzione e finanziamento previsto per legge che potesse aiutarci nella transizione verso le condizioni attuali. Ovviamente abbiamo lottato e richiesto con tutti gli strumenti leciti possibili la riapertura del dialogo. Alcuna vicinanza e comprensione, anzi nella angoscia delle spese a cui non si riusciva a far fronte e alla emorragia del pubblico, delle date e dei contatti, abbiamo dovuto tirare fuori i denti, mostrare i pungi e invitare allo scontro, forse era questo un linguaggio più decifrabile di quello della pace che preferiamo perseguire. Nel 2021 siamo stati riconosciuti dal Ministero come compagnia di innovazione per l’infanzia e la gioventù e l’apparato regionale ha riorganizzato le dirigenze, qualche piccolo passo senza tanto clamore e con rigore è stato fatto. Il dialogo tra lo Stato e la Regione in materia di Spettacolo dal Vivo manca.

Mimmo Conte La nave degli incanti

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Le strategie non sono state differenti da quelle che sempre abbiamo messo in campo nella ricerca della relazione con le persone: innovazione culturale e attivazione delle comunità attraverso il dialogo, l’indagine e la rappresentazione artistica. Ricerca della propria qualità artistica nei contesti in sui si opera, anche per interventi minimi e non preceduti da contatti con il pubblico, non smettere di farsi domande su chi compone il gruppo di persone a cui ti stai rivolgendo, con quali strumenti stai interagendo e studio, studio, studio delle nuove forme di contaminazione intorno alle metodologie e nuovi linguaggi delle scena.

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Yuval Noah Harari ci evidenzia in diverse occasioni che tra tutti gli “homo” il Sapiens è quello che è sopravvissuto perché capace di “immaginare”. Immaginare di creare città, regni, imperi, leggi, soldi. Su questo processo si costruisce l’aspettativa sul nostro futuro. La riflessione sull’avventurarci o meno nella tessitura ministeriale del prossimo triennio è stata lunga e dibattuta all’interno della compagnia, tanto da cercare confronti per sviluppare punti di vista e valutare pro e contro. Ci siamo fatti domande a proposito della nostra natura, della sostenibilità economica sull’ingresso dal 2023 nei cluster ministeriali. Abbiamo fatto e stiamo facendo un esercizio di immaginazione che si tradurrà in azioni sui territori. Il decreto con il suo funzionamento è “una parte” del grande lavoro che una compagnia come la nostra deve fare per “immaginare il proprio futuro”. “Una parte” con dei requisiti molto rigidi in cui per un terzo valgono il progetto e le idee, tutto il resto è personale assunto, spazi e quantità. La nostra aspettativa è quella di partecipare ad un processo di rinnovamento delle norme che possano dialogare con la realtà e soprattutto lavorare per rendere visibile l’evidente, imbarazzante, squilibrio territoriale per chi opera al Sud e nelle Isole. Noi non veniamo al Nord? Lo crediamo bene! La spesa dei trasporti incide al 40% nelle scelte di chi programma sia per chi vuole “salire” che per chi vorrebbe “scendere”.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Quello che non si fa:

Non si esce dalla propria personale paura di perdere tutto (cosa in realtà abbiamo da perdere? Abbiamo tutto! Non gli diamo il valore giusto però).

Non ci si prende cura.

Non si scrive e dice quello che per davvero si pensa.

Non si prende atto che non c’è un braccio a cui appoggiarsi (parafrasando Virginia Woolf).

Non si lavora sul desiderio, il proprio e quello del pubblico. Desiderio, non gusto o consuetudine. “Teatro” è una parola bellissima da pronunciare, è bellissimo parlarne, ma poi quanti escono di casa per andarci? Bisogna accettarlo per costruire nuove parole che si hanno voglia di frequentare.

Non si è potuto fare:

Prendersi tempo con serenità per affrontare il cambiamento, monopolizzati da regole quali-quantitative, regole contrasto Covid e angoscia per le sale vuote, che a capienza piena rimangono mezze vuote, nella maggioranza dei casi, non vale per tutti.

Mettere le basi è un processo lungo, lunghissimo. Ci vogliono strumenti di indagine, superamento delle proprie ambizioni personali, capacità di contestualizzare, ascolto, e e desiderio di mettere le basi. Alle volte non si riesce con i propri figli. Si fa un passo alla volta, con voci unite però. Chi immagina e scrive le leggi e le norme non spunta come un fungo da in giorno all’altro, si muove in un ecosistema storicizzato e rigido che legge la realtà con le stesse lenti da decenni. Per aprire un dialogo ai fini di un cambiamento normativo ci vuole spirito europeo, determinazione e desiderio democratico. Non so se nel grande sistema ci arriveremo mai, ma so che nel piccolo può avvenire lentamente.

Breve BIO:

Abbiamo fondato la nostra compagnia, Gommalacca Teatro, in Basilicata nel 2008.

Il punto di partenza è stata Potenza, la città base che con tutte le sue criticità ha contribuito a sviluppare una nostra caratteristica peculiare: la capacità di mettere in relazione le persone e gli spazi attraverso il teatro, le discipline performative, l’arte e la co-creazione lontani dai grandi centri di produzione.

Contatti: c.vitale@gommalaccateatro.it

Teatro di Sacco

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO DI SACCO

Per il nono appuntamento di Resistenze Artistiche, andiamo nel cuore verde dell’Italia e precisamente a Perugia, in Umbria per incontrare il direttore Roberto Biselli e l’organizzatrice Biancamaria Cola, i quali organizzano insieme anche la rassegna estiva Todi Off all’interno del Todi Festival.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conducete in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

È stato molto difficile, specialmente riprendersi dopo il secondo lockdown poiché l’attività in presenza è fondamentale per gestire “a cuore caldo” la nostra attività.

Noi dirigiamo dal 1995 uno spazio teatrale perfettamente agibile in pieno centro storico, a Perugia che è il fulcro del nostro agire artistico, sede di laboratori, incontri, progetti, nonché di una rassegna di teatro e danza d’autore INDIZI. Purtroppo, a causa del contingentamento, non è stato possibile condurre alcuna attività e abbiamo dovuto gestire molte iniziative on line, modalità di sopravvivenza certo, ma non funzionale a ciò che riteniamo il contatto emotivo con la nostra “utenza”.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Come detto abbiamo sperimentato le modalità webinar che continuiamo ad utilizzare ancora adesso, con molti dubbi e perplessità. Già il fare teatro è divenuto, storicamente nel nostro paese, un progetto di nicchia dell’agire sociale, fargli dunque perdere anche quella necessità umana e fisica gli ha certamente “fatto del male” aggravando uno stato di cose già da tempo in grave crisi.

Certamente aver partecipato ad una serie di incontri on line, di rivendicazioni, di definizione di istanze comuni, di riconoscimento con altri artisti e operatori sull’intero territorio nazionale, ha contribuito a sopravvivere a quest’assenza, salvo poi riscontrare che il livello di consapevolezza del nostro settore latita in generale e di fatto solo lo stato di necessità economica aveva costruito una solidarietà alla fin fine abbastanza volatile.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Qui in Umbria il teatro, lo spettacolo dal vivo in generale, non è certo un settore privilegiato e le poche istituzioni, che dovrebbero occuparsi della sua tutela e sviluppo, dovrebbero sostenere, oltre al Teatro Stabile, anche medie e piccole realtà culturali che costituiscono l’humus del nostro territorio. Ci si auspica che, in un futuro prossimo, la politica del Paese e, di conseguenza quella locale, possa intervenire in maniera funzionale alla sostenibilità del settore.

Teatro di Sacco, già dal primo lockdown, ha avuto l’attenzione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Perugia con cui ha collaborato alla realizzazione di pillole di teatro, presentate al pubblico attraverso il webinar. Questa attenzione continua anche nelle azioni future che stiamo realizzando come la Stagione INDIZI e altre attività di produzione teatrale e di eventi.

Va sottolineato però che, in generale, l’attenzione per gli spazi o le compagnie indipendenti è carente, in più, da sempre, esiste una mancanza di relazione attiva fra i soggetti che operano con grande difficoltà nei vari territori, così che l’isolamento e la separazione, che di fatto caratterizzano questo settore, non contribuiscono a creare un terreno comune di sostegno e di vicinanza e una rete funzionale alla creazione di un progetto “altro.”

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La ripresa delle attività dal vivo – spettacoli, laboratori, incontri – è stata molto funzionale nel riprendere il filo con il pubblico, abbiamo riscontrato, infatti, una grande volontà di partecipazione e di voler essere di nuovo coinvolti in un progetto attivo.

Nell’assenza il web ha funzionato da collante e la buona memoria delle attività proposte negli anni precedenti ha fidelizzato l’attenzione del pubblico, anche attraverso pratiche parallele, ad esempio serie in webinar realizzate in collaborazione con gli Enti Locali, corsi dedicati al mondo della formazione lavorativa, del mondo delle imprese, dei corsi di formazione post diploma superiore.

In compagnia dei lupi, Laboratorio Teatro di Sacco 2019-2020

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Diciamo che continuiamo ad essere ottimisti ma anche realisti: il nuovo decreto non risolverà la problematica legata agli investimenti del comparto culturale. In dettaglio: se si considera la fattispecie legata alla produzione teatrale di teatri medio-piccoli, un grande problema resta la gestione dell’attività di distribuzione. La pandemia ha solo scoperchiato il vaso di Pandora: le difficoltà del settore dello Spettacolo dal Vivo permangono a prescindere o meno dallo stato di emergenza dovuto alla pandemia. Si tratta di capire, oltre ai sostegni, come ripensare ad un sistema virtuoso che possa garantire sostenibilità al nostro settore.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Come sempre, in Italia grande è la disattenzione verso il mondo delle periferie, come se la produzione culturale si concentrasse esclusivamente nelle grandi città. Esistono una serie di attività collaterali che rendono vivo e attivo un professionismo teatrale gestito con un profondo legame con il territorio, capace di produrre iniziative e progettualità che forse nei grandi ambiti metropolitani avrebbero un tempo e un luogo diverso nel costruirsi.

Il nostro progetto si articola non solo con repliche di spettacoli, ma con continua attività laboratoriale, di corsi dedicati a diversi comparti della formazione e comunicazione, oltre a un avviata e concreta progettualità europea e alla costruzione di eventi site specific, rassegne, festival e incontri non quantificabili sul piano delle logiche ministeriali, ma davvero cuore pulsante di un lavoro professionale che si muove su un intero anno di attività.

Costruire dei nuovi parametri per l’accesso ai contributi del Ministero della Cultura per supportare la produzione e l’intera progettualità di soggetti che operano in ambiti poliformi – quanto mai necessari per una sorta di resistenza globale delle arti performative in Italia- è assolutamente indispensabile. Un patto di sostegno per le periferie è una delle poche strade percorribili per restituire dignità lavorativa al di là di logiche spesso legate ad una rendicontazione numerica che non restituisce la forza e l’impatto dell’intera progettazione sull’intero territorio nazionale.

Allo stesso tempo anche il mondo degli osservatori critici del fenomeno teatro in senso lato, pur essendo ormai ridotti di numero e di reale impatto sulla “pubblica opinione”, dovrebbe dare un segnale forte verso una considerazione più allargata e realmente più attenta a raccontare il presente, come detto molto spesso “agito” in luoghi periferici, meno canonici del paese ma spesso degni di una maggiore “narrazione”.

CHI SIAMO

Il Teatro di Sacco è una compagnia teatrale professionale fondata nel 1985. Ha sede a Perugia dove gestisce uno spazio teatrale agibile nel centro storico della città dove si svolgono molte delle sue attività, rassegne, incontri, laboratori.

Produce spettacoli, eventi site specific, progetti europei, festival, progetti speciali.

Ha sempre creduto che glocal fosse un concetto significativo proprio per riconoscere l’unicità e la specificità di un luogo, un’idea, un progetto.

Dalla sua fondazione cerca di trovare una corrispondenza in una regione difficile, chiusa, isolata, trovando però altresì le stesse difficoltà, chiusure, isolamento anche in altri luoghi e in altri spazi di questo nostro piccolo paese teatrale, sempre più al margine dei processi culturali, della relazione con il pubblico, apparentemente sempre più richiuso a riccio dentro se stesso, incapace di fare “squadra” politico-culturale anche nel tempo della più grande crisi che il nostro sistema paese abbia mai attraversato.

Continua, comunque, a sognare.

Teatro delle Moire

RESISTENZE ARTISTICHE: INCONTRO CON IL TEATRO DELLE MOIRE

Per l’ottavo appuntamento di Resistenze Artistiche si torna a Milano per incontrare Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani, le due anime de Il Teatro delle Moire e di Danae Festival.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Lachesi Lab

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conducete in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Inizialmente ci siamo sentiti tramortiti: il nostro spazio di lavoro LachesiLab si è svuotato di tutte le attività, tranne quella relativa alle residenze artistiche; il nostro lavoro sulla formazione che ha come oggetto principale l’indagine sul corpo e sul movimento è stato interrotto e ad oggi non ha ancora ripreso; su Danae Festival 2020 che debuttava il 24 ottobre, si è abbattuta la mannaia dell’ennesimo decreto del 25 ottobre che ne ha impedito la prosecuzione.

In questa catastrofe che ha visto anche lo stop della produzione artistica, tuttavia la necessità di invenzione, di stare in un movimento di creazione e di studio ha trovato dei canali inediti attraverso cui esprimersi: nel dicembre 2020 abbiamo ideato Danae InOnda, un progetto digitale che non fosse la traduzione in streaming di quanto era venuto a mancare; abbiamo contribuito alla creazione di una comunità insieme ad altri soggetti non solo dell’ambiente teatrale, all’interno della quale è stato ideato un progetto radiofonico di podcast (RadioVisione) e sono state progettate pratiche performative innervate nel tessuto urbano (progetto (Non) è la fine del mondo)

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

In questo tempo abbiamo comunque sentito la necessità di fermarci e di stare in ascolto, non preoccupandoci nevroticamente di immaginare subito soluzioni in velocità. Abbiamo ritenuto importante trovare modi per contattare artisti e artiste a noi vicini e vicine, scambiare con loro sensazioni e riflessioni. Abbiamo cercato di concentrarci su pratiche corporee non solo per tenerci in esercizio ma anche per restare collegati a noi stessi.

L’atteggiamento è stato quello di guardare a ciò che stava accadendo, di entrarci dentro fino in fondo, senza fare finta di niente e di conseguenza cercare di capire che cosa in questo scenario avesse ed abbia ancora senso dire o fare. Non abbiamo le risposte, le domande sono ancora aperte.

Sicuramente la pandemia ha messo in evidenza tutte le falle e le incongruenze del nostro sistema di fronte alle quali non sembra esserci stata nessuna presa di coscienza collettiva. Ma crediamo che il sistema teatrale sia solo la punta dell’iceberg di un problema molto più vasto che è culturale, l’idea che questo paese ha e propone della cultura.

Proprio per questo, ciò che è ancora importante fare per noi è stare accanto a quelle esperienze eccezionali spesso poco visibili che noi amiamo definire come “sottobosco”.

Inoltre pensiamo sia necessario, ora più che mai, offrire l’opportunità di avvicinarsi alla “cosa artistica” in un modo differente, entrando nei processi, nella prassi confrontandosi con percorsi nei quali risiede la possibilità di apertura del pensiero, di riconoscimento nell’altro, nelle comuni domande e fragilità.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

La risposta delle Istituzioni non è stata univoca. Da una parte si è cercato di venire incontro all’emergenza attraverso ristori, qualche semplificazione burocratica, nuovi bandi per nuove progettualità legate alla pandemia, dall’altra, c’è stata una diminuzione dei contributi, se non addirittura l’azzeramento relativi alle attività storiche.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Avendo un pubblico piuttosto fidelizzato abbiamo cercato di raccontare attraverso newsletter e pubblicazioni sui social quanto ci stava accadendo. Questo ha permesso, in alcuni casi, di scambiare pensieri e riflessioni con molte persone che da sempre seguono le nostre attività, creando un legame più stretto.

Nonostante Danae Festival nel 2020 abbia dovuto sospendersi, abbiamo cercato di offrire una progettualità online che non avesse a che vedere però con lo streaming. Questa esperienza che abbiamo chiamato Danae InOnda è stata rinnovata nel 2021 e proseguirà nel prossimo triennio, intrecciandosi con altre esperienze nate durante la pandemia come ad esempio RadioVisione.

Sempre attraverso RadioVisione è stato possibile gettare un ponte tra noi e chi ci ha sempre seguito, invitando all’ascolto della trasmissione Cavalieri nella tempesta nella quale l’incontro di esperienze e scelte fuori dai sentieri più battuti, le riflessioni sul presente e su futuri possibili, ci hanno sicuramente permesso di sentirci vicini.

Violently Snow White

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Non abbiamo aspettative. Proseguiremo l’attività del Festival finanziata dal decreto, con le solite problematiche e difficoltà. Proviamo ancora a inventare modi per fare il nostro lavoro, creiamo alleanze, guardiamo ad altre esperienze possibili, ma è chiaro che bisognerà capire fino a che punto si potrà agire nella costante riduzione.

Contemporaneamente si sono fatte più urgenti delle riflessioni sulle modalità del nostro operare, sul precisare sempre di più il nostro campo di intervento, mantenendo saldi i principi che muovono le nostre azioni. Tuttavia le domande non possono più riguardare semplicemente la sorte del teatro o dei teatranti perché quanto sta accadendo pone interrogazioni più ampie sul nostro modo di stare al mondo, coinvolge le nostre esistenze in modo totale e mette in discussione la nostra relazione con il pianeta e con tutto il vivente. È necessaria una trasformazione. E sicuramente noi non siamo quelli di prima, qualcosa è già cambiato e non sappiamo dove tutto questo ci condurrà.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Quello che non si è fatto e che non si è voluto (non potuto) fare è mettere tutto il sistema in discussione, lanciandosi alla rincorsa di un’attività spasmodica, assumendo la pandemia come alibi. La ripresa! La ripresa!

La nostra impressione è che le grandi strutture teatrali, che già prima della pandemia godevano di alcuni privilegi e le realtà artistiche “sulla cresta dell’onda” abbiano paradossalmente, grazie alla pandemia, migliorato la propria condizione, accumulando talvolta delle risorse o moltiplicando esponenzialmente la propria attività. Lo scenario che si prospetta è che queste realtà avranno sempre più opportunità, a discapito di una serie di esperienze artistiche eccellenti e di spazi virtuosi più piccoli o meno visibili, ma non per questo meno importanti, che invece rischiano di sparire per sempre. Ma può un bosco sopravvivere senza il prezioso lavoro sotterraneo del sottobosco?

Chi siamo

Siamo Alessandra De Santis e Attilio Nicoli Cristiani e nel 1999 fondiamo il Teatro delle Moire. Ci affiancano col tempo sulla parte organizzativa e amministrativa Anna Bollini e Barbara Rivoltella in modo continuativo e molte altre persone e professionalità a seconda dei progetti. Ci occupiamo di indagare nuove forme di linguaggio non solo con la produzione di nostri spettacoli per la sala, installazioni e performance per spazi urbani e luoghi non convenzionali, ma anche attraverso di Danae Festival, un progetto internazionale multidisciplinare nato nel 1999, che sostiene e presenta progetti di creazione contemporanea dai linguaggi “ibridi”. Da alcuni anni ci interroghiamo spesso sul senso del nostro fare e siamo piuttosto insofferenti al sistema teatrale, a maggior ragione adesso. Abbiamo sicuramente la necessità di coltivare una relazione di prossimità con gli artisti e le artiste, per conoscere il loro lavoro e creare talvolta assieme le condizioni per un intervento non necessariamente spettacolare. Dal 2008 abbiamo acquisito uno spazio di lavoro, LachesiLab, un luogo aperto a incontri e scambi, dove gli artisti e le artiste trovano le condizioni per conoscersi, imparare, creare, prendendosi il tempo per la ricerca.

Ci piace definirci agitatori culturali perché siamo stati anche motore di azioni artistiche e politiche realizzate su base comunitaria a partire da altre logiche rispetto a quelle che regolano il sistema e nella più completa gratuità.

Link:

teatrodellemoire.it

danaefestival.com

nelcuoredellanotte.it