Archivio mensile:Aprile 2021

Embers eterno presente

ETERNO PRESENTE : Embers e I giorni bianchi

«Bisogna avere uomini con un senso morale, e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza discernimento, senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge».

Colonnello Kurtz Apocalypse now

:«Muore tutto, l’unica cosa sei tu,

muore tutto, vivi solo tu, solo tu, solo tu»

CCCP – Fedeli alla linea Allarme

Nel purgatorio dantesco le anime vivono un tempo dilatato, sommerso, solo vagamente imparentato con il presente dei vivi. I giorni scorrono, le costellazioni dello zodiaco e i pianeti segnano, sull’immenso orologio cosmico dei cieli, il passare delle ore, ma tutto si ripete identico in un medesimo tempo atmosferico. Persino il rito della cacciata del serpente, cui Dante assiste nella Valletta dei Principi, si ripropone ogni sera al tramonto. Le anime nell’Antipurgatorio attendono senza nulla da fare, vagolano o pigramente indugiano, quelle nel Purgatorio propriamente detto subiscono la loro pena. Tutte vivono nella speranza di essere finalmente assunte in cielo. Sperano nell’aiuto dei vivi, nelle loro intercessioni, e insieme auspicano la grazia di Dio, l’intercessione dei santi e della Vergine. In altre parole il loro destino congelato, in mani altri, posticipato a data da destinarsi. Queste anime sono, come tutti noi di questi tempi, tra il “non più” e il “non ancora”, sospese in due sole possibili realtà: l’attesa e la pena.

Due opere cinematografiche rappresentano questi due stati, comuni al nostro contemporaneo, con lucidità agghiacciante: Embers di Claire Carré (produzione USA – Polonia del 2015), in questi giorni riproposto su SCIFI Club, il portale su Mymovies del Trieste Science+Fiction Festival, e I giorni bianchi di Denis Malagnino e Davide Alfonsi (Produzione Italia Donkey’s Movies/Full Frame, 2021), piccolo gioiello del cinema indipendente italiano.

Embers racconta di un’umanità falcidiata da una tremenda epidemia. I pochi sopravvissuti si aggirano senza nulla da fare tra le rovine di un mondo che fu, affetti da amnesia retrograda e anterograda. Tutto viene dimenticato in pochi istanti. Le poche conoscenze restanti sono relitti di cui non si sa la provenienza né l’utilizzo. Nel film noi seguiamo le vicende di sei personaggi: una coppia, un bambino, un maestro, un ragazzo violento, un padre e una figlia, Miranda, unica ad avere un nome.

La coppia si sveglia ogni mattina senza sapere di esserlo. I fazzoletti identici portati al polso sono gli unici elementi a rivelare un certo legame tra loro, legame che deve essere ricostruito ogni giorno da zero. Non sanno i loro nomi, non sanno quando si sono conosciuti, le uniche esperienze a formare un’affinità sono quelle presenti e terribilmente instabili, subito pronte a sparire. Basta solo un piccolo incidente, un chiodino che si infila nel piede di lei, a farli separare per un momento e subito si dimenticano uno dell’altro. Non c’è dolore. Semplicemente svaniscono uno all’altro come in una nebbia. Anche il ritrovarsi è casuale, sotto una pensilina per sfuggire alla pioggia, dopo un’occhiata sorpresa ai fazzoletti.

Il bambino si aggira tra le rovine solitario. Non ha genitori. Non parla perché non ha mai imparato. Ogni tanto qualcuno si prende cura di lui: prima un uomo che viene ucciso dal ragazzo violento, poi dal maestro il quale si affanna ogni giorno per cercare di fissare una qualsiasi conoscenza da libri da lui stesso scritti in un altro tempo e di cui non ricorda di esserne stato l’autore. Il ragazzo violento scatena le sue pulsioni senza una vera rabbia generata da cicatrici emotive. È solo istinto animale. Persino quando subisce una violenza sessuale da un gruppo di suoi simili, ne soffre per qualche minuto, tempo dolorosissimo che lo porta su un baratro pronto a suicidarsi ma, subito la disperazione svanisce e torna il caotico urlio e la violenza distruttiva senza scopo.

Miranda e il padre sono chiusi in un bunker e così separati e protetti mantengono memoria e conoscenza, private però di uno scopo e di un oggetto su cui posarsi. Il padre vive i suoi momenti tra un’ammirazione senza spasimi emotivi di ciò che resta dell’arte e il consumo di cibi esteticamente perfetti ma con la consistenza di omogeneizzato. La giovane Miranda non può sopportare la solitudine e l’essere priva di una raison d’être. Decide dunque di uscire nel mondo e perdere la memoria e il nome, non più rivolta a un passato morto, sola in un costante presente, priva di qualsiasi futuro possibile.

L’umanità ritratta da Claire Carré vive su un sottilissimo crinale, come la lumaca sul rasoio immaginata dal colonnello Kurtz in Apocalypse Now, e intorno il buio. Nessuno soffre più di tanto, le gioie sono piccole e non durature. E poi rovine in ogni dove. Un ritratto impietoso di una civiltà, la nostra, perennemente immersa in un presente digitale, senza più memoria di ciò che è stato, senza un progetto per il domani se non il ripetere sette giorni su sette e H24 un consumo vorace e non nutritivo. Niente dura: non gli affetti e non la conoscenza. Domani al risveglio sarà come oggi, ma avremo dimenticato di aver già tutto vissuto.

Se Embers rappresenta un’umanità congelata nell’attimo presente, I giorni bianchi di Denis Malagnino e Davide Alfonsi, presto in distribuzione su numerose piattaforme (Amazon Prime, Sky Primafila, Apple Tv, etc), ma speriamo e ci auguriamo anche in sala, ci costringe a volgere l’occhio sulla pena e su un dolore privo di voce ma capace di estrema violenza. Siamo nel primo giorno del primo lockdown. In sottofondo sentiamo l’annuncio dell’ex Presidente Conte. Siamo in un appartamento abitato da marito, moglie e il fratello di lei, disabile mentale. L’orizzonte della telecamera è estremamente ristretto, i luoghi sono chiusi persino quando sono all’aperto (il balcone, l’interno della macchina). L’orizzonte è scomparso. Forse non c’è mai stato. Lo scorrere dei giorni e del tempo sarebbe inavvertito se non vi fosse un accumulo di piccole e grandi pene mal sopportate: le insistenze autistiche del fratello, l’aborto della donna, le incombenze spiacevoli dell’occuparsi di una persona non in grado di lavarsi o pulirsi il culo da sola. Con l’aborto della donna (il futuro rifiuta perfino di venire al mondo) le cose si aggravano. Lei sostituisce il figlio mai nato con feticci che assorbono tutta la sua attenzione. Il marito arranca ma tace. Infine la violenza esplode senza nemmeno un grido di dolore. Il marito prima uccide la moglie. L’abbandona a lato del letto come se niente fosse dopo averla soffocata in quello che sembra inizialmente l’unico gesto d’affetto dell’intero lungometraggio. In seguito affoga il cognato disabile nella vasca mentre lo sta lavando tramutando, anche in questo caso, un cenno di cura in violenza cieca e disperata. Anche il fratello viene abbandonato senza sepoltura, lì nella vasca. L’uomo resta solo e, nella completa solitudine, si suicida con le pillole sul divano. Con questo ultimo atto finisce anche il lockdown, ma non c’è più nessuno in casa per vivere il futuro. La pena ha sommerso tutto, non c’è nessuno paradiso a venire.

Denis Malagnino (oltre che coautore anche interprete nella parte del marito) e Davide Alfonsi raccontano una storia durissima che non concede nulla alla speranza. Lucido e freddo come la lama di un bisturi e pronto a ferire l’occhio che osa posarsi su questo specchio impietoso del mondo. I giorni bianchi ci racconta anche il talento di due registi indipendenti, lontani dal mainstream, ma con chiare idee di un cinema volto a raccontare senza veli le violenze sommerse e dimenticate e lo fa nel luogo che più è stato colmato di vuote retoriche di sicurezza e comodità: la casa e la famiglia.

Se il luglio del ’68 vedeva in Paradise now del Living Theatre il sorgere di una speranza verso un cambiamento non più utopistico, i nostri tempi ci lasciano un’idea di un futuro non più possibile, congelato, in cui immaginare un futuro diverso da quello già confezionato dal realismo capitalista appare impossibile o, nella migliore delle ipotesi, difficile oltre ogni dire. In questa assenza di immaginazione, in cui prevale l’allineamento al motto: torniamo come prima, ci stiamo congelando in un eterno purgatorio di pena e vuota attesa in cui non possiamo attenderci nessuna intercessione né grazia alcuna. Occorre quanto prima svegliarci da questo sonno e uscire dalla selva pur se consci di non trovare nessun Virgilio ad attenderci e nessuna Beatrice a vegliare su di noi.

Nessun amico al tramonto

NESSUN AMICO AL TRAMONTO: Cuenca/Lauro, Teatro Patalò, Paola Bianchi

Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.

In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.

Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.

Regenland – Elogio del buio, solo di Elisabetta Cuenca, prodotto da Cuenca/Lauro e Sosta Palmizi, fin dal titolo, richiama il mondo notturno, un mistero profondo, itinerario dell’anima tra morte mistica e novella trasformazione. All’esordio l’occhio della danzatrice è velato da occhiali a specchio, che rimandano a noi un riflesso di un’assenza, la nostra, dall’orizzonte di danza. Anche il corpo è fasciato da vesti, belle, leggere, sensuali maschere del corpo vivo e politico. Gradualmente lo sguardo si svela, il corpo si spoglia, fino a rimanere crocifisso da un raggio di luce (ed è subito sera), come insetto trafitto da uno spillo. Il viaggio iniziatico avviene in un teatro vuoto, la sguardo digitale a frugare, distante e protetto, in un mondo che urla e richiede il confronto fisico. La danzatrice scende in una platea vuota, e offre il suo sguardo al palco, prima di girarsi verso di noi, assenti eppur presenti, muta e rogante, punto interrogativo di una domanda troppo pressante per essere espressa a parole.

Inventare la vita di Luca Serrani e Isadora Angelini per la produzione di Teatro Patalò, è pellicola che nasce da una mancanza e un’assenza. Quello che avrebbe dovuto essere un lavoro per una tournée negli Stati Uniti, diventa un’altra progettualità, diventa cinema e si gira in un teatro vuoto, abbandonato dallo sguardo dello spettatore. Un futuro mancato nell’assenza di compagni al tramonto. Sono le ombre a parlare, quelle proiettate sul muro, quelle evocate dalle parole, in un bianco e nero d’effetto che ci scaglia in un passato ormai inevitabilmente trascorso. Un Sogno di una notte di mezz’estate, i cui spiriti sono ombre all’ennesima potenza, sagome evanescenti, specie in via d’estinzione, miraggi di una cultura che non può essere più e di cui si sente più nostalgia che vera e propria mancanza. Eppure questi spettri provano a inventare una vita, a cercare la natura e il sole negli spazi aperti, lontani dalle spente e fioche luci del teatro.

Ultimo un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.

Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.