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Embers eterno presente

ETERNO PRESENTE : Embers e I giorni bianchi

«Bisogna avere uomini con un senso morale, e che allo stesso tempo siano capaci di utilizzare i loro primordiali istinti di uccidere senza emozioni, senza passione, senza discernimento, senza discernimento. Perché è il voler giudicare che ci sconfigge».

Colonnello Kurtz Apocalypse now

:«Muore tutto, l’unica cosa sei tu,

muore tutto, vivi solo tu, solo tu, solo tu»

CCCP – Fedeli alla linea Allarme

Nel purgatorio dantesco le anime vivono un tempo dilatato, sommerso, solo vagamente imparentato con il presente dei vivi. I giorni scorrono, le costellazioni dello zodiaco e i pianeti segnano, sull’immenso orologio cosmico dei cieli, il passare delle ore, ma tutto si ripete identico in un medesimo tempo atmosferico. Persino il rito della cacciata del serpente, cui Dante assiste nella Valletta dei Principi, si ripropone ogni sera al tramonto. Le anime nell’Antipurgatorio attendono senza nulla da fare, vagolano o pigramente indugiano, quelle nel Purgatorio propriamente detto subiscono la loro pena. Tutte vivono nella speranza di essere finalmente assunte in cielo. Sperano nell’aiuto dei vivi, nelle loro intercessioni, e insieme auspicano la grazia di Dio, l’intercessione dei santi e della Vergine. In altre parole il loro destino congelato, in mani altri, posticipato a data da destinarsi. Queste anime sono, come tutti noi di questi tempi, tra il “non più” e il “non ancora”, sospese in due sole possibili realtà: l’attesa e la pena.

Due opere cinematografiche rappresentano questi due stati, comuni al nostro contemporaneo, con lucidità agghiacciante: Embers di Claire Carré (produzione USA – Polonia del 2015), in questi giorni riproposto su SCIFI Club, il portale su Mymovies del Trieste Science+Fiction Festival, e I giorni bianchi di Denis Malagnino e Davide Alfonsi (Produzione Italia Donkey’s Movies/Full Frame, 2021), piccolo gioiello del cinema indipendente italiano.

Embers racconta di un’umanità falcidiata da una tremenda epidemia. I pochi sopravvissuti si aggirano senza nulla da fare tra le rovine di un mondo che fu, affetti da amnesia retrograda e anterograda. Tutto viene dimenticato in pochi istanti. Le poche conoscenze restanti sono relitti di cui non si sa la provenienza né l’utilizzo. Nel film noi seguiamo le vicende di sei personaggi: una coppia, un bambino, un maestro, un ragazzo violento, un padre e una figlia, Miranda, unica ad avere un nome.

La coppia si sveglia ogni mattina senza sapere di esserlo. I fazzoletti identici portati al polso sono gli unici elementi a rivelare un certo legame tra loro, legame che deve essere ricostruito ogni giorno da zero. Non sanno i loro nomi, non sanno quando si sono conosciuti, le uniche esperienze a formare un’affinità sono quelle presenti e terribilmente instabili, subito pronte a sparire. Basta solo un piccolo incidente, un chiodino che si infila nel piede di lei, a farli separare per un momento e subito si dimenticano uno dell’altro. Non c’è dolore. Semplicemente svaniscono uno all’altro come in una nebbia. Anche il ritrovarsi è casuale, sotto una pensilina per sfuggire alla pioggia, dopo un’occhiata sorpresa ai fazzoletti.

Il bambino si aggira tra le rovine solitario. Non ha genitori. Non parla perché non ha mai imparato. Ogni tanto qualcuno si prende cura di lui: prima un uomo che viene ucciso dal ragazzo violento, poi dal maestro il quale si affanna ogni giorno per cercare di fissare una qualsiasi conoscenza da libri da lui stesso scritti in un altro tempo e di cui non ricorda di esserne stato l’autore. Il ragazzo violento scatena le sue pulsioni senza una vera rabbia generata da cicatrici emotive. È solo istinto animale. Persino quando subisce una violenza sessuale da un gruppo di suoi simili, ne soffre per qualche minuto, tempo dolorosissimo che lo porta su un baratro pronto a suicidarsi ma, subito la disperazione svanisce e torna il caotico urlio e la violenza distruttiva senza scopo.

Miranda e il padre sono chiusi in un bunker e così separati e protetti mantengono memoria e conoscenza, private però di uno scopo e di un oggetto su cui posarsi. Il padre vive i suoi momenti tra un’ammirazione senza spasimi emotivi di ciò che resta dell’arte e il consumo di cibi esteticamente perfetti ma con la consistenza di omogeneizzato. La giovane Miranda non può sopportare la solitudine e l’essere priva di una raison d’être. Decide dunque di uscire nel mondo e perdere la memoria e il nome, non più rivolta a un passato morto, sola in un costante presente, priva di qualsiasi futuro possibile.

L’umanità ritratta da Claire Carré vive su un sottilissimo crinale, come la lumaca sul rasoio immaginata dal colonnello Kurtz in Apocalypse Now, e intorno il buio. Nessuno soffre più di tanto, le gioie sono piccole e non durature. E poi rovine in ogni dove. Un ritratto impietoso di una civiltà, la nostra, perennemente immersa in un presente digitale, senza più memoria di ciò che è stato, senza un progetto per il domani se non il ripetere sette giorni su sette e H24 un consumo vorace e non nutritivo. Niente dura: non gli affetti e non la conoscenza. Domani al risveglio sarà come oggi, ma avremo dimenticato di aver già tutto vissuto.

Se Embers rappresenta un’umanità congelata nell’attimo presente, I giorni bianchi di Denis Malagnino e Davide Alfonsi, presto in distribuzione su numerose piattaforme (Amazon Prime, Sky Primafila, Apple Tv, etc), ma speriamo e ci auguriamo anche in sala, ci costringe a volgere l’occhio sulla pena e su un dolore privo di voce ma capace di estrema violenza. Siamo nel primo giorno del primo lockdown. In sottofondo sentiamo l’annuncio dell’ex Presidente Conte. Siamo in un appartamento abitato da marito, moglie e il fratello di lei, disabile mentale. L’orizzonte della telecamera è estremamente ristretto, i luoghi sono chiusi persino quando sono all’aperto (il balcone, l’interno della macchina). L’orizzonte è scomparso. Forse non c’è mai stato. Lo scorrere dei giorni e del tempo sarebbe inavvertito se non vi fosse un accumulo di piccole e grandi pene mal sopportate: le insistenze autistiche del fratello, l’aborto della donna, le incombenze spiacevoli dell’occuparsi di una persona non in grado di lavarsi o pulirsi il culo da sola. Con l’aborto della donna (il futuro rifiuta perfino di venire al mondo) le cose si aggravano. Lei sostituisce il figlio mai nato con feticci che assorbono tutta la sua attenzione. Il marito arranca ma tace. Infine la violenza esplode senza nemmeno un grido di dolore. Il marito prima uccide la moglie. L’abbandona a lato del letto come se niente fosse dopo averla soffocata in quello che sembra inizialmente l’unico gesto d’affetto dell’intero lungometraggio. In seguito affoga il cognato disabile nella vasca mentre lo sta lavando tramutando, anche in questo caso, un cenno di cura in violenza cieca e disperata. Anche il fratello viene abbandonato senza sepoltura, lì nella vasca. L’uomo resta solo e, nella completa solitudine, si suicida con le pillole sul divano. Con questo ultimo atto finisce anche il lockdown, ma non c’è più nessuno in casa per vivere il futuro. La pena ha sommerso tutto, non c’è nessuno paradiso a venire.

Denis Malagnino (oltre che coautore anche interprete nella parte del marito) e Davide Alfonsi raccontano una storia durissima che non concede nulla alla speranza. Lucido e freddo come la lama di un bisturi e pronto a ferire l’occhio che osa posarsi su questo specchio impietoso del mondo. I giorni bianchi ci racconta anche il talento di due registi indipendenti, lontani dal mainstream, ma con chiare idee di un cinema volto a raccontare senza veli le violenze sommerse e dimenticate e lo fa nel luogo che più è stato colmato di vuote retoriche di sicurezza e comodità: la casa e la famiglia.

Se il luglio del ’68 vedeva in Paradise now del Living Theatre il sorgere di una speranza verso un cambiamento non più utopistico, i nostri tempi ci lasciano un’idea di un futuro non più possibile, congelato, in cui immaginare un futuro diverso da quello già confezionato dal realismo capitalista appare impossibile o, nella migliore delle ipotesi, difficile oltre ogni dire. In questa assenza di immaginazione, in cui prevale l’allineamento al motto: torniamo come prima, ci stiamo congelando in un eterno purgatorio di pena e vuota attesa in cui non possiamo attenderci nessuna intercessione né grazia alcuna. Occorre quanto prima svegliarci da questo sonno e uscire dalla selva pur se consci di non trovare nessun Virgilio ad attenderci e nessuna Beatrice a vegliare su di noi.

Trieste Science+Fiction Festival

RAGGI FOTONICI SUL TRIESTE SCI+FICTION FESTIVAL

RAGGI FOTONICI SUL TRIESTE SCI+FICTION FESTIVAL

Si è da poco conclusa l’edizione 2020 del Trieste Science+Fiction Festival, edizione quest’anno interamente digitale a causa della presente pandemia. Per chi scrive è stata questa la prima esperienza festivaliera interamente digitale. Inizierò quindi con alcune considerazioni su quanto vissuto considerato che, da più parti, si insiste su investimenti massicci in questo senso sia per ragioni di audience engagement sia per innovazione e sviluppo. L’esperienza suggerisce che se certamente maggiore è stato l’afflusso di pubblico nella sala virtuale di Mymovies, decisamente è stata nullificata l’esperienza umana che accompagna ogni festival: i commenti con gli altri spettatori durante le pause e le file per gli accessi, le feste dove molto spesso si creano occasioni per intessere relazioni umane e professionali, la conoscenza della città ospitante, tutto questo resta un ricordo. L’esperienza digitale è concentrata sulla fruizione del film, esperienza in solitaria se si escludono le possibilità di commento in chat. Se veniamo alle considerazioni più tecniche temo che i costi tra il vivo e il digitale siano pressoché identici: se da una parte calano le spese di ospitalità (e con esse il relativo indotto per la città) e forse di allestimento (il digitale comunque necessita di studi e ambienti per le dirette), dall’altra non diminuiscono le spese di personale né quelle per i diritti e le sottotitolazioni. Sugli incassi mancano dei dati definitivi ma scommetterei su un flessione rispetto alla sala. La rivoluzione digitale dei festival è avvenuta troppo in fretta e in condizioni di emergenza per capire pregi e difetti dell’esperienza. Sarà solo il ritorno a una vita normale e non distanziata né segregata a farci capire queli sono veramente le possibilità di integrazione digitale con la tradizionale fruizione del vivo. Sarò un tradizionalista ma spero vivamente si possa tornare ai festival dal vivo, sicuramente più caldi e divertenti, più ricchi di possibilità di crescita.

Veniamo ai film, veri protagonisti di un festival. La fantascienza da sempre si è caratterizzata come genere con forti valenze politiche, luogo fantastico e patafisico di messa in questione del presente, dove ci si prova a immaginare un futuro alternativo, distopico, utopistico, quasi mai compiacente con l’attualità, per quanto di essa si nutra. Ma in questa temperie che di fatto ci ha catapultato tutti in scenari tra L’ombra dello scorpione e Contagion, mai i territori della fantascienza hanno collimato con il complesso presente in cui siamo immersi. Chi scrive si trova ora in zona rossa, in un piccolo paese che in certe ore del giorno assomiglia agli scenari di Walking dead e Io sono leggenda esclusa la presenza degli zombi.

SF8 Trieste Science+Fiction Festival

Non è un caso quindi che molti dei film presenti nella ricca e complessa selezione del Trieste Science+Fiction Festival riflettano il reale in uno specchio non più tanto deformante, non solo per la pandemia in sé ma per gli effetti sulle nostre vite dell’immersione nel mondo digitale che essa ha accelerato. Esempio eclatante la straordinaria serie coreana SF8 in cui otto registi provano a raccontare il rapporto con la tecnologia e gli aspetti irrisolti del nostro rapporto con essa. Il primo episodio The prayer di Kyudong Min racconta di una robot infermiera destinata ad accudire una malata in coma irreversibile. L’intelligenza artificiale dell’automa perfettamente similare all’umano naturale, nel vedere gli effetti della lunga degenza sulla figlia della malata, depressa e vicina al suicidio, si risolve a togliere la vita alla paziente per poter salvare la giovane. La reazione è tutt’altro che di gratitudine. La robot viene smembrata e condannata a un limbo infernale in quanto considerata difettosa. Il tema etico è duplice: da una parte l’eutanasia e dall’altra quali siano i valori su cui un’IA si debba basare per prendere una decisione. Se si pensa che questo sia un tema di là da venire, meglio considerare i dibattiti sulla questione in merito alle Google Car. Il quarto episodio Manxin di Deok Roh si occupa della nostra dipendenza cronica da App. Manxin è infatti una app basata su un algoritmo altamente predittivo. Nessuno può più uscire di casa senza sapere da Manxin cosa riserverà il proprio futuro. Le decisioni autonome sono viste con orrore e meraviglia. Si crea persino una chiesa volta all’adorazione di questa tecnodeità pronta in ogni momento a venire incontro ai suoi fedeli con un semplice click. Il rapporto con le app e l’intreccio inestricabile tra virtuale e reale caratterizza anche il sesto episodio Love virtually di Kihwan Dia. Una coppia si conosce su uno spazio virtuale tramite avatar. I volti dei due protagonisti nella vita reale sono stati ricostruiti con plastiche disegnate da un’IA, i loro volti sono bellissimi ma comuni tanto da incontrare dei “gemelli” per la strada o al centro commerciale. Nel mondo virtuale i protagonisti si sono costruiti quindi degli avatar con i loro volti originari pieni di difetti. Cercano chi li ami per quello che sono. Un improvvviso aggiornamento del sistema li costringe lontano dal mondo virtuale e non potendosi incontrare i due innamorati decidono di vedersi dal vivo. Qualcosa però non funziona: non capiscono più cosa sia reale, quale sia la loro vera forma, e l’amore sfuma relegandoli nell’infelicità e nella solitudine. In SF8 la fantascienza assume aspetti più filosofici che spettacolari, ponendo domande sul mondo che stiamo costruendo senza fornire facili risposte. La serie si richiama alla nota Black Mirror e con essa apertamente si confronta, ma contrariamente alla serie britannica, SF8 riesce a porre in questione la realtà con maggiore leggerezza, per quanto non disdegni i toni fortemente tragici e patetici.

Post Mortem di Peter Bergendy

Nella selezione del Trieste Science+Fiction Festival non mancano riferimenti alla presente pandemia, allusioni per lo più involontarie in quanto le produzioni se terminate nel 2020 sono iniziate ben prima della sua diffusione a livello mondiale. Mi riferisco soprattutto a Post Mortem dell’ungherese Péter Bergendy che ambienta il primo horror della storia cinematografica del suo paese nel 1918 anno segnato dalle devastazioni della Prima Guerra e l’imperversare dall’epidemia di spagnola. Tomas è un fotografo specializzato nel rappresentare i defunti. Lavora nelle fiere dove, a un prezzo popolare, fornisce la possibilità a tutti di ritrarre i propri defunti. Qui incontra Anna, una strana bambina, orfana, che lo invita a fotografare i deceduti nel suo villaggio devastato dall’epidemia. Ben presto i due si troveranno ad affrontare le ombre catturate dalle fotografie. Quello di Bergendy è un horror magnificamente ambientato abile nella rappresentazione dello spirito di un’epoca gravata dalla morte, ma capace di convivere con la sua quotidiana presenza proprio attraverso l’uso delle immagini.

Alone di Johnny Matin

Più classico Alone di Johnny Martin, stuntman statunitense con alle spalle più di duecento film girati in carriera e per una volta regista. Aidan è un giovane uomo che viene improvvisamente costretto in casa dallo scoppio di una strana malattia che trasforma chi ne è affetto in zombie. Per salvarsi dall’epidemia non resta che isolarsi in casa. I giorni passano e la solitudine diventa più aggressiva degli zombie. Aidan è al colmo della disperazione pronto al suicidio quando vede, al balcone di fronte, una donna, Eva, con cui inizia una relazione a distanza. La distanza diventa insostenibile e i due provano a incontrarsi ma il mondo che li circonda, tra cannibali e un vicino mascherato dietro una gentilezza ingannevole (magistralmente interpretato da Donald Sutherland) rende il superamento dei pochi metri di distanza un’impresa quasi impossibile. Nonostante non dimostri una grande originalità di trama (siamo di fronte all’ennesima versione di un’epidemia zombie), il film si illumina proprio nel trasformarsi suo malgrado in una rappresentazione della pandemia. La solitudine di Aiden ed Eva, rifugiati e blindati in casa, depressi e pronti a tutto per incontrarsi nonostante i pericoli che li circondano, diventa la nostra storia e quasi controvoglia si empatizza con loro. Johnny Martin è stato capace di rendere materica la claustrofobica detenzione negli appartamenti, scegliendo un piccolo condominio, con appartamenti da single dove, già prima che la malattia si diffondesse, abitava la solitudine e la separazione sociale. Non è comunque superfluo ricordare che la figura degli zombi, famelici, decerebrati e inarrestabili, frutto di contagio è dal suo sorgere un’efficace rappresentazione della cannibalistica società capitalista, oggi più famelica che mai. Inoltre il contagio da sempre è innesco di molta letteratura fantastica da Dracula a L’esercito delle dodici scimmie.

Lapsis di Noah Hutton

Fantascienza filosofica pronta a gettare una luce inquietante sul nostro presente è Lapsis di Noah Hutton. Protagonista è la gig economy e i lavori ad essa associati. Ray Tincelli è un uomo modesto pronto a sacrificarsi per poter recuperare i denari necessari alla cura del fratello minore, afflitto da una strana malattia che provoca stanchezza cronica. Ray per sostenere le ingenti spese per la casa di cura, si lancia nel lavoro di cablaggio di cubi quantum nelle foreste dei monti Allegheny. I cablaggi a tecnologia quantistica fanno risparmiare tempo alle transazioni e quindi le compagnie interessate ben retribuiscono chi si offre di passare giorni nei boschi tirando cavi su e giù per le montagne. Il problema è la messa in concorrenza di umani e robot, umani così imperfetti da necessitare riposo e cibo mentre i robot risultano sempre efficienti H24. Ray si trova a dover affrontare una scelta: prendere i soldi e scappare o scendere in campo e difendere i diritti dei lavoratori. Noah Hutton con un film girato con semplici mezzi riesce dunque ad aprire squarci interessanti sul modello di economia del lavoro che il neocapitalismo arrembante sta imponendo.

Koma di Nikita Argunov

Molti film in selezione gettano uno sguardo preoccupato negli abissi della mente. Koma di Nikita Argunov si immerge nel mondo dei ricordi creando un mondo immaginario decisamente originale che da una parte ricorda Inception dall’altra Avalon. Sprazzi di memorie e paesaggi legati da ponti aperti sul vuoto, spazi liberi dalle leggi della fisica da cui i protagonisti imprigionati tentano la fuga, mondi fantasiosi e imperfetti, frutto di continua riorganizzazione, rendono il film appassionante e divertente. Decisamente deludente il finale dove il geniale giovane architetto al suo rientro nel mondo decide di adeguarsi al sistema anziché immaginarne uno alternativo. Meander di Matthieu Turi già presente al Trieste Science+fiction Festival con Hostiles, racconta la storia di Lisa, giovane e infelice cameriera. Dopo l’incontro con un serial killer si sveglia in un lungo cunicolo pieno di trappole dove deve affrontare non solo un difficile presente ma un passato doloroso. Claustrofobica l’ambientazione e ottima la tensione anche se la trama ricorda molto The cube senza però gli aspetti filosofici. Ultimo Come True del canadese Anthony Scott Burns, menzione speciale per il Premio Asteroide dedicato ai giovani autori emergenti. In un’atmosfera notturna e inquietante si dipana la storia della diciottenne Sarah, ribelle e solitaria affetta da disturbi del sonno. I suoi sogni monitorati da un’equipe di ricerca sono popolati da ombre che ricordano La horla di Maupassant. La fuga dalle ombre e dai sogni porterà a una scoperta ancora più inquietante.

Jumbo di Zoé Witcock

Eccezione dolce e commovente è Jumbo di Zoé Witcock. Tratto da una storia vera di oggettofilia ispirata alla vicenda di Erika Eiffel, ora sposa della celebre Tour Eiffel. Jeanne, giovane donna eccentrica e timida, lavora di notte in un parco divertimenti e si innamora perdutamente di Jumbo, l’ultima attrazione. Jumbo ricambia l’amore di Jeanne è la società che male accetta questo matrimonio che proprio non s’ha da fare. Le scene del corteggiamento sono di grande tenerezza e si situano in uno strano crinale tra Incontri ravvicinati del terzo tipo e Crash. Jumbo è un film che affronta la diversità e l’incredibile spettro di possibilità di quel sentimento chiamato amore con un tocco lieve, senza inutili pesantezze e retoriche, offrendo una storia semplice ma commovente.

Sputnik di Egor Ebramenko

Da ultimo come non nominare il vincitore del Premio Asteroide destinato alle migliori opere prime, seconde e terze di registi emergenti e quest’anno assegnato a Sputnik di Egor Abramenko. Il film si confronta con Life di Daniel Espinosa. Siamo in Unione Sovietica e Kostantin, cosmonauta in rientro, porta dentro di sé un alieno parassita. La psichiatra Tatjana prova con tutti i metodi a liberare Kostja dall’alieno simbionte. I tentativi di Tatjana ovviamente sono contrastati dal colonnello Semiradov (interpretato dal regista di block buster fantascientifici Fedor Bondarcuk) che vuole trasformare l’alieno in arma. Abramenko ci regala un film magistralmente girato e pieno di suspense in una ambientazione di fine impero sovietico estremamente intrigante. Sputnik così come Koma di Argunov oltre a The Black Out di Egor Baranov, successo venduto in tutto il mondo, ci regalano una fantascienza russa estremamente vitale e pronta a rinnovare i fasti del passato.

Il Trieste Science+Fiction Festival ci ha catapultato con la sua ricca selezione in un mondo di fantascienza più vicino e possibile di quanto mai sia stato in precedenza. Le questioni sono scottanti e verso le quali, presto o tardi tutti, dovremo prendere posizione. La fantascienza più che mai si presenta al pubblico come un genere dinamico ed esuberante, capace di coniugare cultura pop con l’alta riflessione filosofica e politica, genere abile come quanti altri mai di illuminare il reale con tinte forti e inquietanti. Sta a noi cambiare il futuro che la fantascienza ci presenta. 1984 o Il mondo nuovo sono solo possibilità e parti della fantasia, sono gli atti dei singoli uomini a rendere quei mondi più o meno reali.