Archivio mensile:Marzo 2022

Cubo Teatro

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A GIROLAMO LUCANIA

Con questa intervista a Girolamo Lucania, direttore del Cubo Teatro di Torino, si conclude il ciclo #ResistenzeArtistiche. In sedici puntate tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Sardegna, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata, abbiamo provato a raccogliere testimonianze e resistenze nel tempo di pandemia.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si è prefisso l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Ci siamo chiesti: come si è sopravvissuti al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Gli Orsi Panda di Matej Visniec Regia di Girolamo Lucania al Cubo Teatro di Torino

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Sono stati due anni molto intensi e altalenanti. Siamo passati da una prima fase di shock in cui si è provato a fare creazioni online, anche internazionali. Poi una prima flebile riapertura estiva. Poi di nuovo la chiusura e un andirivieni di aperture e nuove chiusure, contingentamenti, mascherine, etc. Tutto ciò non ha consentito a nessuno un vero e proprio progetto, una direzione univoca. Siamo stati travolti da situazioni di cui non avevamo il controllo. Molto spesso, anzi oserei dire sempre, le azioni anche nobili che sono state effettuate da compagini e spazi si sono perse nel vuoto laddove in seguito e improvvisamente si è dovuti ritornare sui vecchi – traballanti – passi. Quando consentito abbiamo fatto ricerca. Il biennio è servito senz’altro a riflettere sull’esistente, a pensare al necessario. Di sicuro molte realtà hanno fatto lo stesso e hanno trovato la propria risposta, soprattutto in relazione al pubblico e ai cittadini, che sono il vero senso del nostro lavoro. C’è da valutare se istituzioni e finanziatori la pensano o la penseranno allo stesso modo, insomma se si daranno le stesse risposte.

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Ovviamente c’è stato un susseguirsi di riflessioni. Non del tutto scontate, ma che in qualche modo hanno portato – almeno personalmente – a ritornare un po’ alle origini del percorso di vita che ha portato la creazione del nostro progetto artistico. Le riflessioni hanno prodotto 2 pensieri, che poi sono stati messi in sviluppo. Dal punto di vista della programmazione, a una maggiore valutazione e qualificazione di progetti legati al territorio, ovvero di artisti del territorio. Questo perché il nostro sistema cittadino propone delle fragilità notevoli nella ricerca, nella formazione e nella qualificazione di compagnie torinesi, che faticano a trovare spazio. Un percorso invece che mira all’ospitalità e alla cura di progetti del territorio può consentire una maggiore capacità di esportazione, e una migliore capacità attrattiva di pubblico, oltre che – ovviamente – una più sostenibile copertura economica. È chiaro ed evidente, insomma, che una compagnia torinese può sostenere più repliche rispetto a una pari compagnia esterna. Ciò ovviamente non vuol dire rinunciare a ospitare compagnie fuori Piemonte – anzi! – bensì concentrarsi maggiormente sulla qualità dell’importazione, che diviene così necessaria, e fare ricerca sui prodotti territoriali. La seconda riflessione ha portato a una attenzione maggiore al pubblico limitrofo, al rapporto con il territorio e con i cittadini del territorio, nel pensiero profondo che definisce la funzione di uno spazio come fondamento per il benessere di una civiltà fragile. Uno spazio, e le sue produzioni, devono volgere lo sguardo, tendere la mano, ascoltare chi abita il territorio. Per questo abbiamo intrapreso una strada che avevamo già iniziato tempo addietro, per poi interromperla: la costruzione di opere ed eventi per la gente e con la gente del territorio.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

C’è stato un notevole scambio di idee e opinioni. A volte ascoltate, altre volte ahimé, no. È un peccato, perché spesso le decisioni prese dai sostenitori non hanno rispecchiato le esigenze delle realtà (compagnie o spazi), anzi a volte non hanno rispecchiato la natura delle stesse. Si è forse persa l’occasione di dialogare fra le parti, ascoltarsi, capirsi. Nessuno come gli operatori, i gestori di spazi, gli artisti, i tecnici, gli attori, nessuno come loro può sapere quali sono le esigenze reali del nostro mestiere. Si è però avviato un percorso di dialogo, con alcune realtà che hanno provato ad aprire un discorso. Noi come Fertili Terreni abbiamo ad esempio fatto un convegno dove abbiamo provato a mettere insieme tutte le parti del sistema, con grande partecipazione. Speriamo che questa, come altre iniziative, possano contribuire a un fertile e fervido dialogo. Insomma, sono ottimista.

Cubo Teatro interno platea

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Dialogare con la gente del territorio. Questa è stata la prima azione. Dopodiché, costruire una base insieme ad altre realtà del territorio per fare fronte comune alla grande diffidenza e noncuranza che purtroppo caratterizza lo spettacolo dal vivo negli spazi piccoli. Bisogna ritornare all’essenza della narrazione.

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Chi è già robusto diventerà ancora più robusto. Attenersi ai criteri sarà difficile per molti, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione. Sembra che la pandemia sia terminata, mentre invece a quanto pare è lungi dall’essere finita e le difficoltà saranno ancora maggiori. Cosa ci si prospetta fra un mese? E fra tre mesi? Con questa precarietà è molto difficile riuscire a programmare e poi a mantenere ciò che si è prospettato.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Eliminare il parametro quantitativo come principale parametro. Pare evidente a tutto il comparto che esiste un problema di iper-produttività a fronte di una carenza di spazi. Dove vanno tutte le produzioni richieste? Quanta vita avranno? In questo modo non si riuscirà a dare sicurezza e stabilità a un comparto fragilissimo, e di conseguenza non sarà possibile creare operazioni d’arte utili, necessarie, posso dire? Belle. Manca il tempo, sussiste la paura. Bisognerebbe incentivare la qualità del tempo impiegato per produrre e creare: tempo di creazione. E stabilità: un’opera deve poter replicare stabilmente nel proprio territorio. Incentivare le produzioni territoriali, e le stanzialità territoriali. Incentivare il repertorio: un artista deve produrre un’opera quando sente di doverlo fare, e non perché deve. E se un’opera costruita nel tempo/spazio corretto è meritevole, deve poter vivere finché può.

Hommelette for Hamlet Carmelo Bene

ADDIO MASCHERINE: UN RICORDO DI CARMELO BENE

Il 16 marzo 2002 si è spento Carmelo Bene, il più grande uomo di teatro italiano del secolo scorso. Non faremo certo un discorso commemorativo, non a CB poiché già in vita gridava a gran voce (amplificata e in playback): «Me ne fotto del mio trono! I morti son morti!».

Cercheremo di ricordarlo con alcune delle sue più importanti battaglie teoriche da lui portate avanti e riportate alla luce in questi giorni da due pubblicazioni importanti, Carmelo Bene di Armando Petrini e Oratorio Carmelo Bene di Jean Paul Manganaro.

Le due opere sono per opposti versi importanti, imprescindibili: più rigoroso, scientifico e critico il Petrini, tanto da riuscire a mettere in evidenza luci e ombre della parabola artistica del Maestro; più partecipato, accorato, al limite di tra il romanzo, il saggio, il florilegio di ricordi quella di Manganaro. Eppure nonostante tale siderale distanza di atteggiamento nei confronti di CB, entrambi gli autori fanno emergere alcuni temi che non sarebbe superfluo affrontare dando contemporaneamente uno sguardo a questo smemorato presente.

Cominciamo dal principio, dal fatto semplice seppur così colmo di conseguenze, dell’essere Carmelo Bene, come nota Petrini, non un “padre fondatore” ma un “figlio degenere”. Oggi questo fattarello risulta in tutta la sua diversità e folgorante luminosità. Carmelo ha lottato come un figlio pronto a tutto pur di dispiacere il padre padrone che lo voleva diverso da ciò che era, normalizzato, educato ai buoni principi del senso comune. Quel padre era ed è il teatro conformista, quello delle messe in scena di testi riferiti, di coloro che fingendo il rispetto della tradizione rinnegano ogni giorno la Tradizione: quella dell’attore inventore, del teatro che precede il testo, di tutto quello che risulta essere un atto insubordinato in quanto, prima di tutto, è artistico nel senso più sublime del termine.

Carmelo Bene

Non a caso una delle ossessioni di CB è stato, insieme ad Amleto (altro figlio degenere), Pinocchio, per quel voler rimaner bambino sempre, schifando l’età adulta del buon senso mediocre. Così cita Manganaro: «Quel Pinocchio “che sono” è più che mai rifiuto a crescere, civilmente e umanamente, è lo spettacolo dell’infanzia prematuramente sepolta, che si risveglia e scalcia nella propria bara. Adulta è la terra-padre-avvenire che la ricopre».

Quanto diverso l’atteggiamento di Carmelo, lui desiderante il Ministero disinteressato per sempre di lui, da quello di tutti questi figli del teatro d’oggi che diligenti compilano al medesimo Ministero e alle banche per ottener da loro, padri-padroni elargitori di paghette da pagare a caro prezzo, la tanto agognata approvazione, il riconoscimento di esser stati bravi, obbedienti e precisi nei numeri? In fondo lo sappiamo come avrebbe reagito, lui, Cassandra inascoltata, che l’aveva previsto questo asservimento ministerial-bancario, e nel prevederlo è stato deriso e offeso.

CB poi avrebbe avuto molto da insegnare sull’uso dei media, lui che li aveva provati tutti: radio, televisione, cinema, concerto e in ogni suo visitare sempre attento a utilizzare il mezzo scorticandolo e tradendolo per, in fondo, esaltarlo. In TV non solo produceva versioni amletiche e pinocchiesche ma non disdegnava andar a Domenica In da Corrado insieme a Lydia Mancinelli a cantar di Ungaretti, Pascoli e D’annunzio secondo Luciano Folgore. Per non parlare dei due opposti (e opposti perché CB usa la televisioni in due modi sideralmente distanti): CB al Maurizio Costanzo Show e Quattro momenti su tutto il nulla per la RAI. Nel cinema poi irrompe con Hermitage e Nostra Signora dei Turchi, facendo cinema distruggendo e scorticando cinema. Nei teatri lirici ecco Manfred o Egmont, concertando ed esaltando la voce sonante in rinnovato carme; infine la radio con le Interviste impossibili, la Salomé, il Tamerlano, e ovviamente Amleto e Pinocchio.

Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi

Oggi come avrebbe usato CB il mezzo digitale? Di certo non si sarebbe limitato allo streaming. Non avrebbe disdegnato il mezzo ma avrebbe affondato il colpo, esplorando la tecnologia, dimostrandone i limiti, demistificando, usando senza mai aderire, restando CB nella sua unicità irriducibile. E questo lo avrebbe fatto da partigiano dell’indisciplina contro la interdisciplinarietà, per usar le parole di Armando Petrini. Il fine era sempre infatti la distruzione della rappresentazione e della spettacolarizzazione della rappresentazione. Così cita Armando Petrini: «Sulla pagina è distruzione della narrazione, sul palcoscenico è distruzione dello spettacolo, sullo schermo è distruzione dell’immagine. Tre annullamenti che convergono in uno solo: quello di ogni rappresentazione»

Forse però, nel suo abitar sempre la battaglia, lui innamorato del teatro che non rinunciò mai a bestemmiar il nome dell’amato, dove si è dimostrato più estremo e rigoroso, fu nell’esser sempre nell’oralità della poesia. Non fu mai uno che riferiva il già detto, il morto orale. Diceva Carmelo nella sua Vita: «Il Testo!Il Testo!Il Testo! Nel teatro moderno-contemporaneo si persevera insensatamente su questa sciagurata conditio sine qua non del testo, considerato ancora propedeutica, premessa (padronale) alla “sua” messinscena. La messinscena subordinata al testo […] Mi ripeto: quel che più conta (urge) è liberare il teatro da testo e messinscena! Da qui il “levar di scena”, il testo della messinscena e la messinscena del testo. Tra-dire. Dire-tra».

Oggi nulla è cambiato. Ancora non si prescinde, anzi impera la messinscena. Senza testo i teatranti sembrano persi, incapaci di inventare la scena, di partire dal suolo come diceva Mejerchol’d, altro grande dimenticato che affermava senza mezzi termini: il testo alla fine!

Ma che ci si poteva aspettare da un Paese in cui, come diceva CB citato da Petrini: «Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, guai a essere anticonformista senza essere conformista». Giudizio condiviso da Pasolini, altro grande irregolare che oggi tutti in qualche modo vogliono tirar per la giacchetta dalla propria parte, e citato da Manganaro afferma: «Il teatro italiano, in questo contesto (in cui l’ufficialità è protesta), si trova certo culturalmente al livello più basso. Il vecchio teatro tradizionale è sempre più ributtante. Il teatro nuovo […] (escludendo Carmelo Bene, autonomo e originale) è riuscito a divenire altrettanto ributtante che il teatro tradizionale. È la feccia della neoavanguardia e del ’68. Sì, siamo ancora lì, con in più il rigurgito della restaurazione strisciante».

Carmelo Bene in Lorenzaccio

Come non vedere in queste parole di due dei più grandi artisti e intellettuali del Novecento, lo specchio dei tempi nostri, in cui tutto sembra rinchiudersi nel recupero delle messinscene, del teatro di regia veterotestamentario, nei dicitori di testi propri e altrui, in un deserto senza ricerca, perché impossibile nei diciotto giorni canonici o nelle residenze sparse pochi giorni qua e là con mesi in mezzo a far altro per sbarcare il lunario. Rispetto ad allora c’è in più forse una certa “locura” come dicevano in Boris, una sventagliata di paillettes e finto giovanilismo, per svecchiare i testi, renderli più digeribili, premasticati per il pubblico-consumatore. Ma sempre dal testo si parte, si è ingordi di nuova drammaturgia, di scrittori, di drammaturghi più che di grandi attrici o attori, di sublimi e scandalose ricerche che smuovano l’orrenda e immota palude in cui siamo immersi come sonnambuli dimentichi di tanto glorioso recente passato.

Eppure per quanto iconoclasta, CB era artista e attore profondamente impregnato di Tradizione. Non solo quella, per così dire semplificando, d’avanguardia, quella di Mejerchol’d e Artaud, ma anche quella dell’opera, del melologo, dei lieder, grandi attori italiani, di Petrolini, della Commedia dell’Arte, fino agli antichi attori del romano imperio, reietti e sublimi, parlati dalle voci, inventori di impossibilità rese per un attimo possibili prima di sparir nel buio. D’altronde per poter variare il canone bisogna conoscerlo a menadito. La Tradizione viene portata avanti da coloro che la tradiscono pur amandola profondamente. E per tradire bisogna conoscere. Quello di Carmelo era un amore da teologia negativa, un toglier di mezzo dio per amarlo di più, un bestemmiarlo per scuoterlo. La sua è stata una lotta epica come quella di Giacobbe con l’angelo e come il patriarca rimase sciancato e offeso nel corpo.

Oggi invece tutto scompare senza lotta alcuna, in pochi secondi, nel silenzio. Non rimane nulla. Ci si dimentica non solo di CB, ma di Kantor, di Leo de Berardinis e di tanti altri, non persi nella notte dei tempi , ma scomparsi da poco nel buio oltre le quinte della vita.

Carmelo Bene in Salomé

Ultimo punto: il togliersi di mezzo. CB per quanto accusato di essere istrione, vanitoso nell’esporsi, non ha fatto altro in tutta la sua carriera d’attore che sabotare l’io, il soggetto. Pensate al protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sempre contuso, ferito, ingessato. Carmelo diceva amleticamente «povero pallido individuccio / che non crede che al suo io che a tempo perso». CB operò come John Cage con la stessa tenacia, seppur senza la sua olimpica serenità, a portare l’arte oltre l’espressione di sé, a essere fatto fisico corporeo materiale e proprio nel suo esser tale sconvolgeva i valori e le dinamiche del mondo acquisito e non messo in discussione. Non era certo nel comunicare qualche fattarello privato, qualche sentimetuccio a buon mercato per commuovere l’anziano abbonato, e nemmeno nel promuovere la cronaca personale o mondana che sia, il luogo in cui risiede il nucleo proprio e più profondo del teatro.

CB, come Cage, portò l’arte al di sopra di tutto questo, facendone una questione di filosofia se non di teologia applicata. Un rivolgere l’occhio verso altri cieli non contaminati dal berciare quotidiano. Ecco perché Carmelo era trasversale e riuniva le folle: per il suo essere universale, per esser capace di far risuonare la parola poetica all’interno di qualsiasi orecchio, benché sussurrasse solo al suo come Epitteto al mercato.

Per concludere, ricordare Carmelo Bene oggi non è un vezzo da anniversario, ma è rammemorare una ricerca estrema e radicale nei suoi esiti e i cui frutti furono la totale messa in discussione di tutte le funzioni e le pratiche del teatro e di tutti i media attraversati nel corso della sua carriera. Oggi si viene derisi, persino da gente carica di premi Ubu, quando si parla di ragionare e mettere in discussione le funzioni del teatro. Anzi si invita a tacere per tornare a far spettacolo, come ce ne fosse poco di spettacolo in giro. Quel che manca è il teatro, ma sembra non importare molto a nessuno. Ecco perché siamo così pronti a dimenticare questo figlio degenere, perché la sua scomoda presenza ci rammenta ad ogni istante quanto siamo distanti dal Teatro con la maiuscola, che non facciamo nulla per ottenerlo per paura di non ricevere il tanto agognato placet ministeriale. E così perdiamo tempo, inabili a qualsiasi rivoluzione, procrastinando mentre nell’ombra CB continua a sussurrare: «l’arte è tanto grande, la vita è così breve!».

Armando Petrini Carmelo Bene, Carocci Editore, Roma, 2022

Jean Paul Manganaro Oratorio Carmelo Bene, Il Saggiatore, Milano, 2022

Love!Battle!Revolt! di Alice Conti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA AD ALESSANDRO SESTI

Per la quindicesima intervista del ciclo #Resistenze artistiche si torna in Umbria per incontrare Alessandro Sesti, direttore del Festival Strabismi di Cannara.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato. 

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Devo dire che abbiamo provato a non fermarci mai. Non appena il primo lockdown ha iniziato ad allentarsi, abbiamo tentato di elaborare cosa avremmo potuto fare. Consci che sarebbe stato un periodo senza pubblico dal vivo e assolutamente contrari a quell’assurdità del teatro in streaming, idea che andava serpeggiando in quel periodo (ma si sa, la disperazione fa brutti scherzi), abbiamo concentrato il nostro lavoro sulle residenze. Abbiamo aperto il teatro a tutti quegli artisti, chiaramente della zona data l’impossibilità di spostamenti regionali, che avevano bisogno di spazi per provare. Il ritorno del pubblico dal vivo, per noi, ha coinciso con la sesta edizione del Festival Strabismi e nonostante le restrizioni, distanziamenti e sanificazioni che sballavano tutti gli orari, abbiamo ricevuto una risposta del pubblico incredibile. Quasi tutti gli spettacoli sono andati sold out, ma soprattutto ricordo un momento. Al termine del primo spettacolo del Festival (era “Requiem for Pinocchio” de Leviedelfool) ricordo un applauso infinito. Ma non era solo per il bellissimo lavoro fatto da Simone Perinelli, c’era qualcosa in più e lo vedevi negli occhi degli spettatori. Forse erano gli occhi di chi si era dimenticato cosa significasse provare e condividere qualcosa. 

Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Devo dire che non abbiamo cambiato direzione. Da sempre il lavoro di Strabismi è incentrato su due vettori: il lavoro sul territorio e il sostegno e la promozione dei giovani artisti. Nel tempo abbiamo potenziato questo aspetto e da quest’anno abbiamo aggiunto un’azione rivolta al teatro ragazzi: StraBimbi Festival.

StraBimbi è frutto di un lavoro di molti anni sul territorio, infatti, proprio quest’anno l’istituto comprensivo di Bevagna-Cannara ha inserito nei patti formativi l’attività teatrale. Ciò significa che gli allievi e le allieve delle scuole medie e elementari della nostra città vivranno il teatro come attività curricolare. Ed insieme a questo importante traguardo, abbiamo potenziato anche il Festival Strabismi aumentando sia gli studi che andremo a selezionare da Bando, ma anche i premi messi a disposizione. 

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Come anticipato prima, quando ci siamo trovati in confusione, come suppongo tutti, con l’arrivo del primo lockdown, abbiamo avuto forte supporto da parte dell’amministrazione del Comune di Cannara. Sempre pronti a confrontarsi con noi suggerendo possibilità e sostenendoci nelle nostre scelte.  

Lucia Guarino per il progetto Emergenze Artistiche a Strabismi Festival

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico? 

Una prima strategia fu quella di andare ad abbassare quanto più possibile i costi dei biglietti. Sapevamo benissimo che molte persone avevano perso il lavoro, tante vite si sono dovute riorganizzare o reinventare e per far si che il teatro continuasse ad essere di tutti, abbiamo deciso di realizzare un festival con biglietti al costo simbolico di due euro e concerti gratuiti. 

Una seconda azione che non definirei strategica, ma che ha aiutato molto a riportare il pubblico locale nel nostro teatro fu quella di dedicare il festival del 2020 agli artisti Umbri. Abbiamo pensato solamente che in una scena teatrale umbra ormai affermata a livello nazionale e che anche gli artisti a noi vicini, esattamente come tutti gli altri, avevano vissuto lo stop totale dell’attività, quindi prima di riaprire “i confini” abbiamo deciso di ripartire dalle nostre radici.  

Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

La pandemia è alle spalle. Si parla già da tempo di endemia, il covid sarà parte della nostra vita quotidiana, o almeno così sembra da quel che dicono gli esperti del settore. Io mi occupo di altro e più che notare l’assenza degli “stati di eccezionalità legati alla pandemia” mi preoccupo perché questa situazione d’emergenza non ha portato a nessun miglioramento per la nostra condizione di lavoratori dello spettacolo. Avevamo un’occasione, la macchina si era fermata nostro malgrado ed era il momento di fare una bella revisione, cambiare pezzi e ripartire meglio di prima. Per esempio mi chiedo, perché non si è fatto o non si sta facendo un lavoro per adeguare la nostra intermittenza (al momento i lavoratori dello spettacolo devono utilizzare la Naspi, strumento del tutto inadeguato) sul modello francese o sullo Lo statut d’artiste belga? 

I sindacati lottano per questo, ma quando dal Palazzo dicono che i soldi non ci sono è come quando la mamma da piccolo ti lasciava piangere perché tanto prima o poi avresti smesso di fare i capricci. Visto il periodo, per vedere quanto questi soldi “non ci sono” andate a vedere l’investimento italiano nell’industria bellica e quello nel settore culturale. 

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Credo di aver già risposto nella precedente domanda. Sicuramente sento la costante mancanza di tutela per il teatro emergente ed il troppo spazio a nomi televisivi nelle stagioni. Prendo in prestito le parole di Massimiliano Civica che descrive molto bene la maggior criticità di ciò che abbiamo ora: 

“…Lo Stato finanzia il passivo dei Teatri Pubblici proprio perché devono produrre arte e innovazione, che comporta un rischio economico di passività: quando producono spettacolo “biecamente” commerciali stanno quindi tradendo il loro mandato pubblico…”

Guardiamo le stagioni dei teatri nazionali e Tric e vediamo quanti non fanno questo tipo di programmazione. Se solo ci fosse un minimo di attenzione e di interesse nel far circuitare un’arte che potremmo definire “rischiosa” probabilmente non ci accontenteremmo più e si rimetterebbero in discussione certe posizioni. 

CHI SIAMO

L’obiettivo di Strabismi Festival è la promozione e il sostegno di giovani artisti attraverso un percorso strutturato di residenze e tutoraggio artistico. Nel cuore della Grande Madre Umbria, a Cannara, Strabismi Festival ogni anno ospita artisti da tutta Italia creando un momento di incontro dedicato alla condivisione e allo scambio. Con un’attenzione particolare per gli artisti emergenti, Strabismi è un festival creato da giovani, rivolto ai giovani.

https://www.strabismi.com/
La scena delle donne

LA SCENA DELLE DONNE: INTERVISTA A BRUNA BRAIDOTTI

Inizia domani in Friuli Venezia Giulia, tra Pordenone, Cordenons e e Vigonovo di Fontanafredda, La scena delle donne, un festival dedicato interamente al femminile e che giunge alla sua diciottesima edizione. Spalmato sul un lungo periodo fino all’autunno La scena delle donne vuole fornire uno spaccato non solo artistico sulla condizione femminile non solo in Italia. Il primo blocco di programmazione si dona un titolo importante: Connessioni Intergenerazionali e vuole appunto mettere in comunicazione e confronto artiste di diverse generazioni. In occasione di questo inizio, rimandato causa Covid, ma che coincide con la Feste delle donne, abbiamo intervistano la direttrice artistica Bruna Braidotti.

Parlando della questione femminile e di genere in questi ultimi anni vi è stata una graduale messa in discussione di diritti che si pensavano ormai acquisiti (penso all’aborto, per esempio) e una crescente ostilità nel riconoscere da parte della politica prima e della società in generale, parità di genere a qualsiasi genere: quali sono secondo te i motivi di questi passi indietro?

Credo sia accaduto a partire dagli Ottanta e Novanta, una sorta di riflusso del femminismo, la voce femminista si è come acquattata. Questa trasformazione l’ho anche un po’ vissuta nel mio lavoro e nella mia attività di creazione in teatro di un movimento per le donne e per la parità di genere. A un certo punto, l’interesse per il femminismo è andato scemando, addirittura anche la parola “femminismo” è stata un po’ messa all’indice. Nonostante stessero nascendo e si diffondessero le commissioni per le pari opportunità, i centri antiviolenza, che sono stati dei catalizzatori dell’attivismo delle donne, c’è stata una involuzione culturale, dovuta all’espandersi di una cultura effimera superficiale, promossa dai media come la televisione e anche, se vogliamo, i social network. Chiaro che la politica c’entra molto in questo discorso: ti dico solo che nel 2006 ho tenuto un convegno a Pordenone sulle donne e teatro, su La rappresentanza e la rappresentazione, c’era il governo Prodi. Fu bellissimo, venne anche Judith Malina del Living Theatre, fu il primo passo per la nascita della rete che tuttora è attiva in Italia. Nacquero molte speranze, iniziammo a fare convegni in giro. Dopodiché tutto è morto, in concomitanza con il cambio di governo e il berlusconismo. C’è stata secondo me questo tipo di influenza, quella che io chiamo la cultura dell’effimero, che ha fatto scemare l’urgenza delle donne di tutelare ciò che avevano già conquistato.

A seguito dei movimenti #metoo anche in Italia si sono mosse le acque sulle questioni di violenza esercitate nel mondo dello spettacolo. È nata Amleta per contrastare le disparità e violenze di genere, le cui denunce su Facebook hanno fatto emergere un panorama vergognoso e avvilente. Cosa si può fare ancora secondo te per impedire a episodi di questa gravità di ripetersi?

Chiaro, il movimento #metoo ha rilanciato il movimento delle donne e dei loro diritti. In effetti la cultura del rispetto delle donne fa fatica ad affermarsi. Quello che secondo me le donne potrebbero fare sarebbe attivarsi maggiormente, soprattutto sui media, attraverso la rappresentazione stessa delle donne. Le donne non fanno abbastanza. Si accetta troppo tranquillamente che per esempio in televisione siano tutte con il “tacco 12”: perché? Perché bisogna essere sex symbol? Le donne stesse purtroppo si adattano a questo. Una volta durante un incontro è successa una cosa che mi ha fatto ridere: una ragazza femminista, sempre nell’ambito del teatro, affermava quanto fossero importanti tutte queste cose che stiamo dicendo, ho guardato poi com’era vestita, era novembre: praticamente in mutande. Una si può vestire come vuole, sia chiaro, ma spesso non riflettiamo su come il nostro abbigliamento (quello a cui siamo condizionate dalla moda e dalla pubblicità) abbia la sola funzione di attrarre sessualmente gli uomini secondo il loro desiderio di cui abbiamo introiettato lo sguardo. Ma bisogna cominciare a cambiare. Volevo raccontarti un episodio, una manifestazione a cura di Marisa Ulcigrai di Fotografaredonna che è stata fatta a Trieste un po’ di anni fa, FemminileReale, e che io ho subito ripreso a Pordenone, organizzando una mostra su questo. Nel mese di marzo, in collaborazione con l’azienda dei trasporti di Trieste, furono affisse sui mezzi di trasposto pubblico grandi immagini di donne del quotidiano. Donne anche belle, se è per quello, ma nella loro normalità, non sex symbol. L’effetto in termini di comunicazione è stato fortissimo, perché non siamo più abituati a questo tipo di immagini. Siamo abituati ai filtri bellezza, alle immagini patinate, smussate, spesso ammiccanti. Gli uomini non accettano di vedere le donne per quello che sono. Servirebbero più iniziative di questo genere. C’è molto da fare sui media per cambiare l’immaginario femminile preteso dagli uomini, secondo cui le donne sarebbero adatte solo a espletare “quella” funzione.

Emanciphate Teatro al femminale

Per quale motivo, secondo la tua opinione, il mondo maschile è così restio ad accogliere il femminile e ciò che di inconsueto e raro può portare non solo in ambito creativo, ma politico e sociale?

Secondo me gli uomini sono ancora dentro il pensiero dell’assoluto e dell’Uno. Non hanno ancora compreso la differenza, o meglio, che la differenza è un limite. A partire da quella sessuale. Anche se sullo stesso piano, gli uomini e le donne sono differenti. Ciò significa che uno non può appropriarsi dell’altro o rappresentare l’altro. Sono come una pera e una mela: entrambi frutti, ma sono differenti. Il desiderio dell’altro o dell’altra può essere un limite al proprio e la convivenza felice tra i due dipende dall’accettazione e il rispetto di questo limite. Gli uomini non sono abituati a questo, perché si sentono il soggetto unico. Una rivoluzione culturale degli uomini comporterebbe pensare di perdere la propria identità così come gli era stata trasmessa. Gli sembrerà di perdere qualcosa, perché sin da bambini viene fatto percepire l’essere maschio come un valore aggiunto, un “di più”. E questo è quindi un problema per gli uomini: una donna si può vestire da uomo ed essere comunque riconosciuta come donna, può mettere una cravatta e nessuno si permetterebbe di dire in modo spregiativo che quella donna è un uomo, ma un uomo può sentirsi libero di mettere, nella nostra società, una gonna rosa? Se la mette, perde la sua identità di uomo. 

Non possono mai mostrarsi come donna, perché gli è stato fatto intendere che essere donne è un minus. È un problema di identità costruita dal patriarcato, che per loro è difficile perdere, perché fin da bambini gli hanno insegnato che è meglio essere uomini che donne. Cosa vuol dire in campo politico? Per il politico accettare l’affermazione delle donne significa perdere potere e quelle poche che salgono al potere vengono spesso prese di mira. Se le donne fossero in massa  in politica sono certa che i Comuni farebbero vertere i loro programmi su contenuti diversi. Forse avremmo meno campi di calcio e più asili nido o servizi per la maternità. E poi mi domando: il genere femminile, che capisce che cosa vuol dire avere la vita dentro il proprio corpo, la concepirebbe la guerra? Di donne guerrafondaie ce ne sono, per carità, ma sarebbe da provare: se le donne fossero veramente al potere (cosa che ancora dal matriarcato in poi non è più successo) forse il mondo sarebbe più pacifico? Le donne in generale sono più legate alla conservazione della specie.

Ti faccio una domanda che può apparire provocatoria, ma non lo è: c’è qualcosa in cui i movimenti femministi e di difesa della donna hanno, non dico sbagliato, ma omesso o trascurato nella comunicazione con l’universo maschile più conservatore e legato al patriarcato? Il dialogo e la comprensione sarebbero potuti avvenire in forme diverse da quelle utilizzate?

Non credo. Anzi, credo le donne siano state fin troppo gentili e poco aggressive; hanno inventato le femministe la lotta non violenta, si legavano ai cancelli ai primi del Novecento per chiedere il diritto di voto. Credo però che le donne dovrebbero osare di più, essere forti e non avere la minima condiscendenza verso il maschilismo, perché altrimenti gli uomini se ne approfittano. Le donne mantengono sempre un po’ quest’atteggiamento. Anche la femminista più cruda, per esempio, si depilerebbe sempre le gambe, perché alle radici c’è sempre una cultura patriarcale verso la quale si è condiscendenti, “io mi adatto al tuo sguardo, che vuole che io sia attraente, con la pelle liscia, ecc. ecc.”. È una cosa tutta culturale, non naturale. Secondo me dovremmo osare di più, mettere più forza nella nostra lotta. Come formano gli uomini la loro identità, fra di loro? Lottando, competendo, spesso anche i bambini hanno bisogno di lottare fra loro, far a botte per mostrare quella forza che afferma la loro identità. E quindi anche le donne avrebbero bisogno, per farsi rispettare di mostrare la loro forza e determinazione. 

La stanza delle anime di e con Arianna Ardonizzo Regia Bruna Braidotti

Parlando de del festival da te diretto Scena delle donne, avete riscontrato negli anni un crescere di pubblico maschile? Gli uomini si sentono toccati dai temi e dagli spettacoli che proponete o il pubblico è prettamente femminile?

Devo dire che sono aumentati numericamente ed è aumentata la sensibilità verso i temi femminili. Qualcosa insomma si è mosso in questi ultimi anni. Non so quanto il mio festival abbia contribuito, perché nel frattempo anche altre cose sono successe. Stanno cambiando anche le nuove generazioni, e in questo cambiamento io confido. Devo dire che tuttavia persistono tra i giovani maschi alcuni stereotipi. Dico questo perché io lavoro molto nelle scuole, anche elementari, e se c’è una cosa che è retro-tendente, che non contribuisce a far cambiare le cose, è il linguaggio. Si dice sempre “i bambini” e mai “le bambine”: questo fa capire alle bambine che il loro genere è meno importante; non sono mai protagoniste nel linguaggio. Sarebbe importante incominciare a fare questa fatica di declinare le parole sia al maschile sia al femminile (per esempio, “i bambini e le bambine”), di modo che le bambine si sentano protagoniste anche loro. Comunque tornando alla domanda che mi hai fatto, il pubblico rimane prevalentemente femminile, spesso è anche un pubblico femminile già particolarmente sensibile a questi temi, mentre quello che vorremmo è rivolgerci a tutto il pubblico, stimolare una programmazione maggiore di proposte femminili nei festival (per questo facciamo anche concorsi come La giovane scena delle donne all’interno del festival), nelle rassegne e nei circuiti affinché sempre più drammaturghe e registe possano accedere ai cartelloni dei teatri (cosa che non succede). I cartelloni infatti vedono il 30% di drammaturghe e il 20% di registe, questo almeno secondo la ricerca da me condotta qualche anno fa e da quella realizzata da Amleta recentemente. La partecipazione maschile del pubblico  però, anche se è un po’ aumentata,  resta un problema. Giovani attori che io interrogo ogni tanto, anche quelli che lavorano con me, a cui chiedo se andrebbero a vedere lo spettacolo che tratta della violenza sulle donne mi rispondono “no, perché riguarda le donne”. È terribile questa cosa, è come se non fosse chiaro che il soggetto protagonista della violenza non sia la donna, ma l’uomo che la agisce. 

Magda Siti

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A MAGDA SITI

Siamo alla quattordicesima intervista di Resistenze Artistiche e torniamo sulla via Emilia, a Modena per incontrare Magda Siti, direttrice e anima forte di Drama Teatro. Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Dal 2014 gestiamo uno spazio comunale sempre con l’idea che il nostro sia un vero e proprio servizio pubblico. Servizio che in questi due anni è rimasto chiuso per centinaia di giorni. Dopo il momento iniziale di shock abbiamo subito attivato quel sistema di difesa che si chiama creatività: abbiamo cioè continuato a progettare e ipotizzare azioni nel mondo reale per un futuro che non sapevamo quando sarebbe arrivato. Lo spazio fisico quindi è rimasto chiuso, lo spazio virtuale si è limitato a un contatto diretto con gli spettatori attraverso la call per il festival internazionale Cinedanza e le dirette settimanali su YouTube “Inside Cinedanza”. Nell’estate del 2020 il teatro era sempre chiuso e le performance che abbiamo organizzato per la rassegna “Frequenze” si sono svolte in un cortile privato e in un parcheggio di un circolo Arci. Sul filo del rasoio (ottobre 2020) siamo riusciti a portare a termine il festival Cinedanza in presenza e in diretta streaming su YouTube. Il secondo lockdown è stato più pesante del primo, ma siamo comunque riusciti ad elaborare il progetto “La vostra voce” che ha coinvolto cittadini e spettatori. Il focus erano loro, la loro voce, i loro racconti, le loro esperienze, che abbiamo raccolto sia davanti all’ingresso del teatro (registratore alla mano) sia attraverso una call di raccolta di racconti brevi. Poi c’è stata anche una piccola azione politico/artistica: un countdown al contrario: dirette video in cui, ogni giorno di chiusura, dalla bacheca del teatro strappavamo un foglio così che il numero stampato crescesse. A 100 giorni di chiusura abbiamo fatto un flashmob sul tetto del teatro.

Da gennaio 2021 abbiamo esplorato il mezzo radiofonico e proposto l’ascolto in prima serata di alcune opere costruite apposta da Radio Tempi Tecnici. In più ci siamo lanciati nelle prove di Era meglio Cassius Clay che ha debuttato in estate al festival Inequilibrio.

Infine l’imbuto infernale delle riaperture. Da maggio ad oggi non ci siamo mai fermati, tra attività all’aperto e al chiuso abbiamo proposto 17 titoli per un totale di 26 serate in 3 spazi della città.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e la vostra attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Abbiamo continuato il percorso con gli artisti con cui condividiamo da alcuni anni una riflessione sul lavoro dell’attore in scena e la scrittura scenica. Abbiamo sfruttato ogni momento possibile, tra una chiusura e l’altra e siamo arrivati al termine di una nuova produzione con testo e regia di Rita Frongia: ” Era meglio Cassius Clay”. Contemporaneamente abbiamo stretto i rapporti con un gruppo di attori giovani, a cui era giusto dare spazi sia fisici sia di creazione. È stato fondamentale per noi pensare a cosa diventava inutile. Pensare alle priorità,cercando di salvaguardare il più possibile le nostre linee culturali, compatibilmente con la sopravvivenza.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Abbiamo avuto una vicinanza con l’amministrazione comunale che ha sostenuto il settore anche con dichiarazioni pubbliche oltre a dare sostegno economico nei limiti delle loro possibilità.

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il vostro pubblico?

Pensandoci bene, forse non abbiamo modificato radicalmente le strategie,se non nel adeguare il mezzo comunicativo alle esigenze sanitarie( radio,interviste,) perché comunque noi abbiamo sempre privilegiato un rapporto continuativo, spesso personale o coinvolgendo piccoli gruppi di spettatori. La riflessione maggiore che abbiamo fatto, riguarda la nostra attività : su cosa investire? È il momento di farlo?

Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»