Con questa intervista a Girolamo Lucania, direttore del Cubo Teatro di Torino, si conclude il ciclo #ResistenzeArtistiche. In sedici puntate tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Sardegna, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata, abbiamo provato a raccogliere testimonianze e resistenze nel tempo di pandemia.
Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si è prefisso l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro
Ci siamo chiesti: come si è sopravvissuti al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.
Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?
Sono stati due anni molto intensi e altalenanti. Siamo passati da una prima fase di shock in cui si è provato a fare creazioni online, anche internazionali. Poi una prima flebile riapertura estiva. Poi di nuovo la chiusura e un andirivieni di aperture e nuove chiusure, contingentamenti, mascherine, etc. Tutto ciò non ha consentito a nessuno un vero e proprio progetto, una direzione univoca. Siamo stati travolti da situazioni di cui non avevamo il controllo. Molto spesso, anzi oserei dire sempre, le azioni anche nobili che sono state effettuate da compagini e spazi si sono perse nel vuoto laddove in seguito e improvvisamente si è dovuti ritornare sui vecchi – traballanti – passi. Quando consentito abbiamo fatto ricerca. Il biennio è servito senz’altro a riflettere sull’esistente, a pensare al necessario. Di sicuro molte realtà hanno fatto lo stesso e hanno trovato la propria risposta, soprattutto in relazione al pubblico e ai cittadini, che sono il vero senso del nostro lavoro. C’è da valutare se istituzioni e finanziatori la pensano o la penseranno allo stesso modo, insomma se si daranno le stesse risposte.
Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e la tua attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?
Ovviamente c’è stato un susseguirsi di riflessioni. Non del tutto scontate, ma che in qualche modo hanno portato – almeno personalmente – a ritornare un po’ alle origini del percorso di vita che ha portato la creazione del nostro progetto artistico. Le riflessioni hanno prodotto 2 pensieri, che poi sono stati messi in sviluppo. Dal punto di vista della programmazione, a una maggiore valutazione e qualificazione di progetti legati al territorio, ovvero di artisti del territorio. Questo perché il nostro sistema cittadino propone delle fragilità notevoli nella ricerca, nella formazione e nella qualificazione di compagnie torinesi, che faticano a trovare spazio. Un percorso invece che mira all’ospitalità e alla cura di progetti del territorio può consentire una maggiore capacità di esportazione, e una migliore capacità attrattiva di pubblico, oltre che – ovviamente – una più sostenibile copertura economica. È chiaro ed evidente, insomma, che una compagnia torinese può sostenere più repliche rispetto a una pari compagnia esterna. Ciò ovviamente non vuol dire rinunciare a ospitare compagnie fuori Piemonte – anzi! – bensì concentrarsi maggiormente sulla qualità dell’importazione, che diviene così necessaria, e fare ricerca sui prodotti territoriali. La seconda riflessione ha portato a una attenzione maggiore al pubblico limitrofo, al rapporto con il territorio e con i cittadini del territorio, nel pensiero profondo che definisce la funzione di uno spazio come fondamento per il benessere di una civiltà fragile. Uno spazio, e le sue produzioni, devono volgere lo sguardo, tendere la mano, ascoltare chi abita il territorio. Per questo abbiamo intrapreso una strada che avevamo già iniziato tempo addietro, per poi interromperla: la costruzione di opere ed eventi per la gente e con la gente del territorio.
Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.
C’è stato un notevole scambio di idee e opinioni. A volte ascoltate, altre volte ahimé, no. È un peccato, perché spesso le decisioni prese dai sostenitori non hanno rispecchiato le esigenze delle realtà (compagnie o spazi), anzi a volte non hanno rispecchiato la natura delle stesse. Si è forse persa l’occasione di dialogare fra le parti, ascoltarsi, capirsi. Nessuno come gli operatori, i gestori di spazi, gli artisti, i tecnici, gli attori, nessuno come loro può sapere quali sono le esigenze reali del nostro mestiere. Si è però avviato un percorso di dialogo, con alcune realtà che hanno provato ad aprire un discorso. Noi come Fertili Terreni abbiamo ad esempio fatto un convegno dove abbiamo provato a mettere insieme tutte le parti del sistema, con grande partecipazione. Speriamo che questa, come altre iniziative, possano contribuire a un fertile e fervido dialogo. Insomma, sono ottimista.
Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?
Dialogare con la gente del territorio. Questa è stata la prima azione. Dopodiché, costruire una base insieme ad altre realtà del territorio per fare fronte comune alla grande diffidenza e noncuranza che purtroppo caratterizza lo spettacolo dal vivo negli spazi piccoli. Bisogna ritornare all’essenza della narrazione.
Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?
Chi è già robusto diventerà ancora più robusto. Attenersi ai criteri sarà difficile per molti, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione. Sembra che la pandemia sia terminata, mentre invece a quanto pare è lungi dall’essere finita e le difficoltà saranno ancora maggiori. Cosa ci si prospetta fra un mese? E fra tre mesi? Con questa precarietà è molto difficile riuscire a programmare e poi a mantenere ciò che si è prospettato.
Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?
Eliminare il parametro quantitativo come principale parametro. Pare evidente a tutto il comparto che esiste un problema di iper-produttività a fronte di una carenza di spazi. Dove vanno tutte le produzioni richieste? Quanta vita avranno? In questo modo non si riuscirà a dare sicurezza e stabilità a un comparto fragilissimo, e di conseguenza non sarà possibile creare operazioni d’arte utili, necessarie, posso dire? Belle. Manca il tempo, sussiste la paura. Bisognerebbe incentivare la qualità del tempo impiegato per produrre e creare: tempo di creazione. E stabilità: un’opera deve poter replicare stabilmente nel proprio territorio. Incentivare le produzioni territoriali, e le stanzialità territoriali. Incentivare il repertorio: un artista deve produrre un’opera quando sente di doverlo fare, e non perché deve. E se un’opera costruita nel tempo/spazio corretto è meritevole, deve poter vivere finché può.
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