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Yoko Ogawa

DAL TEMPO DI MNEMOSINE AL TEMPO DI AMNESIA

Il bellissimo libro di Yoko Ogawa L’isola dei senza memoria, uscito in Giappone nel 1994, racconta con delicata crudeltà di uno strano stato insulare in cui spariscono oggetti per ordine di una ferrea ed efficientissima polizia segreta. Si tratta di cose semplici, usuali e concrete: i francobolli, i frutti di bosco, le cartine geografiche, gli uccelli.

La gente avverte come una sensazione, una sorta di perturbazione nell’aria, e sente di doversi liberare degli oggetti cancellati, bruciandoli, o gettandoli nel fiume. Altre volte finisce per non percepirli più e piano piano se ne dimentica: «tutti tornano presto alla quotidianità di sempre. Non si ricordano nemmeno più cosa abbiano perso».

Coloro che, sfortunatamente, continuano a rammentare vengono subito arrestati e fatti sparire dalla polizia segreta. A costoro non rimane che nascondersi in rifugi e nascondigli, aiutati da poche persone sensibili e volenterose che, pur assuefatti alla dimenticanza, non vogliono veder sparire anche amici e parenti.

Non è un vero atto di ribellione però. Dal lato di chi dimentica è più un atto di pietà e di solidarietà per questi sfortunati incapaci di dimenticare; da parte di coloro con la memoria intatta, è un mero atto di sopravvivenza. Il risultato è comunque il medesimo: la gente che ricorda sparisce dalla circolazione così come gli oggetti

L’isola prosegue senza scossoni la sua vita nonostante le cancellazioni delle cose, persone, animali, sentimenti e mestieri: «era come se quest’isola non potesse stare a galla che su un mare di vuoto dilagante». Gli abitanti, da parte loro, sembrano in grado di «accogliere qualsiasi vuoto».

Come detto non vi è ribellione. Solo rassegnazione. Anche quelli che si nascondono non fanno altro se non condurre una vita da talpe in tane profonde e silenziose.

Alla fine si giunge alla scomparsa di parti del corpo. Poi come per la ninfa Eco, non rimane che una voce non più comunque capace di dire, perché priva di parole, di ricordi, di sensazione, di memoria, inaridita dalla mancanza di appigli con la realtà, presente ma non percepita.

Il libro di Yoko Ogawa non è l’unica opera negli ultimi anni in cui la perdita di memoria è al centro di un discorso, non solo narrativo, ma politico e filosofico. Potremmo ricordare Embers di Claire Carré, dove il mondo è caduto preda di un virus per cui si rimane solo con la memoria di breve termine, ossia non più di 30 secondi; oppure i più famosi e celebrati Memento e Inception di Christopher Nolan.

Sembra che per molti artisti e pensatori (non ultimo Byung Chul Han) la malattia di questi ultimi decenni sia proprio la scomparsa del passato (e conseguentemente di un futuro) di una società occidentale appiattita sul momento presente, sempre più uguale a se stesso, ripetibile e riproducibile.

Persino in questa terribile crisi tra Ucraina e Russia appare evidente la rimozione della storia recente del continente. Anche giornalisti di grande levatura come Antonio Caprarica o Enrico Mentana insistono sul ribadire la fine di un’epoca di pace durata per l’Europa più di settant’anni. Come? Ci siamo dimenticati delle guerre balcaniche che hanno insanguinato gli anni ’90? Dei massacri e delle pulizie etniche? E ancora prima: la rivolta d’Ungheria o la Primavera di Praga, la Guerra Fredda? E di tutte le guerre in cui siamo stati coinvolti a partire dalla Prima Guerra del Golfo? Memoria corta, se non cortissima.

La storia sparisce non solo dai tavoli della geopolitica ma persino dalle assi polverose dei palcoscenici. Parlando con molti giovani autori si scopre la quasi non conoscenza di veri e propri giganti della ricerca scomparsi nell’ultimo trentennio come Kantor o Carmelo Bene.

Carmelo Bene

Quali le ragioni di questa scomparsa della memoria? E quali le conseguenze? Difficile rispondere a queste domande. Bisognerebbe innanzitutto riaprire gli occhi, togliere la polvere che si è posata sulle nostre palpebre e cercare di analizzare il mondo con occhio limpido scevro di pregiudizi.

Certo potremmo individuare alcune cause palesi come la logica neocapitalista che spinge a frettolosi risultati per incassare un utile il prima possibile. Potremmo accusare la pratica dei social in cui gli eventi si succedono con tale velocità da cascare nell’abisso della dimenticanza nel giro di pochi minuti. Qualsiasi sia la causa ci siamo trasformati in una civiltà non solo smemorata ma senza nessun progetto per l’avvenire.

Questo accade in politica in ambito energetico, scolastico, sanitario. L’ambito culturale non sfugge a questo destino e ci troviamo di fronte alla riproposizione di pratiche già ampiamente esplorate nel recente passato e credute oggi eclatanti novità, così come reinvenzione di soluzioni già percorse ma cadute nel dimenticatoio.

Pensiamo solo alla migliore ricerca teatrale del secolo scorso, quell’asse immaginario che potremmo far passare da Mejerchol’d ad Artaud fino a Carmelo Bene, ossia quel teatro che vedeva il testo come ultimo elemento tra tanti e il teatro come invenzione e non semplice messa in scena di un già detto. Tutto questo sembra per lo più lettera morta, si inneggia alla drammaturgia, al recupero di testi vetusti, ai classici rivisitati e semplificati. Dal testo non solo si parte ma non si prescinde.

La Classe Morta Tadeusz Kantor

Come è stato possibile quindi che ciò che ha reso effervescente e innovatore il Novecento sia improvvisamente sparito dall’orizzonte dimenticato come se si fosse tutti caduti per sbaglio nel fiume di Leté? Qualcuno potrebbe dire che sono i corsi e ricorsi della storia, che è normale un certo ritorno della drammaturgia dopo tanto sperimentalismo. Tutto vero, ma non dimentichiamo che la drammaturgia in teatro non passa per forza e necessariamente da un testo e che per moltissimi secoli quest’ultimo era scritto dopo l’invenzione dell’attore e del drammaturgo sulla scena. Quello a cui mi riferisco è una smemoratezza più profonda, qualcosa che intacca il cordone ombelicale della Tradizione, quella con la maiuscola, non quindi il trito conservatorismo ma quel tesoro inestimabile di conoscenze e di pratiche che hanno costituito la storia del teatro come arte.

La dimenticanza non è solo grave quindi solo nei riguardi delle più spericolate e ardite ricerche Novecentesche ma persino appunto del Canone. Marinetti e Carmelo Bene non furono grandi innovatori solo perché ebbero splendide e geniali idee ma soprattutto perché seppero ancorare la loro ricerca alla migliore tradizione riuscendo a vivificarla, a donargli nuovo spirito e forza.

Carmelo Bene, di cui ricorre il ventennale della morte, si scontrò con questa Tradizione, ma seppe saccheggiarne il meglio ed esaltarlo mutandolo in nuova forma: il grande attore/creatore inventore della scena, la tradizione del melodramma, il lieder e il melologo, il grottesco e il comico della migliore Commedia dell’Arte.

Per innovare occorre conoscere il canone a menadito, solo così si può imporre una variazione. Se oggi sulle scene vediamo il ripetersi di un già visto che poco appassiona è perché vi è stata una netta cesura tra chi oggi agisce sulla scena e la generazione passata. Trovare la causa di questo distacco placentare poco importa perché al passato non si pone rimedio. Occorre trovare delle ricette per riannodare le fila, ripartire da una conoscenza che ci leghi al passato per proiettarci in un futuro, per non essere simili agli abitanti dell’isola dei senza memoria pronti a dire senza tanti rimpianti: «Finora abbiamo accettato ogni tipo di sparizione. Anche quando si è trattato di cose molto importanti, piene di ricordi, insostituibili, non ne siamo rimasti sconvolti o addolorati in maniera eccessiva. Siamo in grado di accogliere qualsiasi vuoto!»

Neoliberismo e teatro

NEOLIBERISMO E TEATRO: LE INSIDIE DELL’AZIENDA CULTURALE

Iniziamo con una domanda: c’è un fattore, un elemento che plasma le strutture e gli ordinamenti e nello stesso tempo ostacola lo sviluppo e le riforme in ambito artistico culturale? Non è facile rispondere. Innumerevoli sono le cause e le circostanze di cui bisognerebbe tener conto. Per rispondere alla domanda occorrerebbe innanzitutto compiere un paziente lavoro di scavo per liberare il campo dalla retorica e dai pregiudizi, ossia da quelle concrezioni che impediscono una visione chiara del problema. Bisognerebbe compiere un’analisi storica approfondita di ciò che è avvenuto negli ultimi trenta o quarantanni per provare a comprendere cosa ci ha spinto verso l’oggi che stiamo vivendo. E tutto questo andrebbe fatto con coraggio, senza timore di scoprire di essere in qualche modo complici, se non persino fautori, della presente situazione. Un antico adagio tibetano recita: ciascuno è autore della propria miseria. Comprendere quindi le vere cause di un problema è il solo modo per scorgere delle vie d’uscita, per quanto doloroso possa essere il processo. Una riforma efficace del mondo dello spettacolo dal vivo è possibile solo se si individuano i fattori generanti la crisi che si sta attraversando.

A mio avviso, il principale motore della crisi strutturale e ideologica del settore è da ricercarsi innanzitutto nella colonizzazione del pensiero da parte del modello economico neoliberista, fenomeno avvenuto in tutti i settori dell’attività umane, e iniziato per i più negli anni ’60, come risposta ai movimenti radicali e progressisti che portarono al ’68, per altri negli anni ’70 in seguito alla crisi petrolifera, ma senza dubbio già trionfante negli anni ’80 quando Margaret Tatcher coniava il famoso aforisma: al capitalismo non c’è alternativa. Nel nostro paese si è assistito al fenomeno con un po’ di ritardo, diciamo a partire dagli anni ’90 e che ha condotto alla trasformazione in azienda della politica, della sanità, delle università, dello sport e ora, da ultimo, delle attività culturali con la metamorfosi delle Associazioni in Aziende di cultura e con il materializzarsi delle riforma del terzo settore più volte rimandata.

È altrettanto evidente come tale conversione aziendalista non abbia portato benefici né sul livello di istruzione, né sull’efficacia dei servizi sanitari né tanto meno nell’attività politica. Vogliamo dunque sperimentarne il fallimento anche in ambito culturale? Eppure questa transizione ci viene venduta da ogni parte come inevitabile ed estremamente vantaggiosa. E Infatti, non solo le fondazioni bancarie o i Think-tank come Fitzcarraldo cantano da anni il peana all’idea della trasformazione in azienda come unico scenario possibile e maggiormente vantaggioso, ma persino la Comunità Europea nel suo Libro Verde per lo sviluppo e il potenziamento delle industrie culturali afferma: «Con il concorso del settore dell’istruzione, le industrie culturali e creative possono anche svolgere un ruolo decisivo nel dotare i cittadini europei delle necessarie competenze creative, imprenditoriali e interculturali. In questo senso, le industrie culturali e creative possono alimentare i centri d’eccellenza europei e aiutarci a diventare una società fondata sulla conoscenza. Allo stesso tempo, queste competenze stimolano la domanda di contenuti e di prodotti più differenziati e più raffinati, e questo può dare ai mercati di domani una forma meglio consona ai valori europei». Cultura e istruzione sono subalterne e funzionali allo stimolo di domanda per creare mercati consoni ai valori europei. Quali valori? Non se ne fa cenno.

Il filosofo cinese Mencio

Prima di incominciare ad analizzare, certo in maniera sommaria alcuni degli effetti più perniciosi del pensiero neoliberista e aziendalista nel campo dello spettacolo dal vivo, vorrei riportarvi un piccolo aneddoto tratto dalla vita del filosofo cinese Meng-tzu, vissuto all’epoca degli Stati Combattenti e che illustra con adamantina evidenza quali siano gli effetti di un pensiero rivolto esclusivamente alla sfera del profitto:

:« Mencio fece visita al re Hui di Liang – O venerato maestro Meng, sei venuto a me senza che ti sembrasse lunga la distanza di mille chilometri. Allora devo ritenere che tu abbia dei suggerimenti per il profitto del mio regno?

– O re perché dici: profitto? Dì piuttosto: hai suggerimenti di carità e giustizia, null’altro. Se il re dice: “Che farò per il profitto del mio regno?” i dignitari diranno: “Che farò per il profitto della mia casata?”, e i funzionari e il popolo diranno: “Che farò per il profitto della mia persona?”. I superiori e gli inferiori si strapperanno l’un l’altro questo profitto e lo stato sarà in pericolo».

Per sostenere che il pensiero economico abbia colonizzato quello culturale bisogna innanzitutto esibire delle prove. I maggiori indizi che evidenziano il processo li troviamo senza ombra di dubbio nel linguaggio: stakeholder, business plan, mission, target, audience engagement, governance, Know-how, tutte parole ora abitualmente utilizzate in ogni progetto, bando o documento, ma provenienti da ambienti economici ed estranei alle finalità tradizionalmente attribuibili al teatro d’arte. Confucio affermava che quando le parole non corrispondono alle cose inizia la decadenza dello stato. E le parole più pericolose sono falsamente e furbescamente neutre, quelle in apparenza inoffensive e lontane dagli ambiti economici. L’esempio più fulgido sono le cosiddette Buone pratiche. Tutti usano questo termine ma quasi nessuno pare sapere l’ambito di provenienza e che tale locuzione va a braccetto con un altro bell’argomento: il benchmarking. Soffermiamoci un momento su questo binomio linguistico da cui derivano non poche disfunzioni in ambito culturale. Innanzitutto cos’è il Benchmarking? In maniera semplice potremmo dire: il paragonare tecniche e modalità di un’impresa ad altre che ottengono risultati migliori al fine di clonarne le pratiche. La tesi è quella per cui un’idea, se funziona, è buona per ogni contesto. Da qui le Best Practises ossia la costruzione di graduatorie, parametri e punteggi alla cui cima si trovano appunto le tecniche e i metodi considerati i migliori e quindi da imitare. L’adozione del concetto di buone pratiche ha comportato come conseguenza l’introduzione degli algoritmi quantitativi e delle graduatorie in ambito culturale. Le parole quindi, non sono solo importanti, come dice Nanni Moretti, ma sono anche pericolose perché esse portano in sé pensieri e concetti che usati male o fuori contesto creano conseguenze nefaste. Pensiamo al concetto su cui si è basata la politica estera americana di esportazione della democrazia laddove non vi sono le condizioni socioculturali per il suo sorgere, e pensiamo ai danni conseguenti alla pace mondiale e al benessere di intere popolazioni che ne sono derivate.

Infatti il Benchmarking e le Best practises partono da un assunto illogico, non scientifico e palesemente fasullo: non è detto che ciò che funziona in un ambito funzioni anche in un altro. Le condizioni cambiano, gli assunti ideologici, etici, morali alla base di un’attività né modificano e modellano l’agire. In ambito culturale e artistico per esempio non è il profitto d’impresa il motore principale. E nemmeno le strategie di comunicazione sono le stesse di una merendina o un detersivo. I presupposti sono talmente distanti e divergenti che proprio non si capisce il motivo per cui le strategie che funzionano per un’azienda di pannolini debbano essere utilizzati da una compagnia di danza. Eppure questo avviene giornalmente senza che nessuno si chieda il perché. Inoltre le graduatorie e i punteggi non tengono in alcun conto dei diversi contesti geografici e socio-ambientali: agire in Calabria, in Lombardia o in Sardegna non è la stessa cosa. Fare teatro a Milano non è uguale a farlo ad Aosta. Ma nemmeno tra Milano e Roma, due grandi città, si può minimamente fare un paragone. Eppure…

Alain Badiou afferma:«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». E infatti se c’è una crisi di governo si chiama un banchiere o un economista. E non a caso se si presenta un problema nell’ambito dello spettacolo dal vivo, non si chiede ai funzionari preposti la competenza artistica e organizzativa propria al teatro, ma si invoca a gran voce la presenza di un manager come se avesse per magia la capacità di risolvere ogni problema, pur non avendo conoscenza alcuna del settore di cui si deve occupare. E questo avviene nonostante sia proprio il pensiero economico neoliberista ciò che ha condotto alle crisi economiche, politiche, ambientali e sanitarie attuali. Sarebbe questo il momento di mettere in discussione questa egemonia del modello capitalista e trovare delle valide alternative che privilegino l’umano al profitto.

David Harvey

Prima di proseguire sulla strada tracciata dal mondo economico neoliberale, proviamo quindi a porci una serie di questioni: Vogliamo veramente diventare azienda di cultura? Ma soprattutto siamo in grado di diventarlo? I presupposti dell’economia di mercato sono applicabili allo spettacolo dal vivo e al teatro e alla danza d’arte e di ricerca? Nel divenire aziende culturali e quindi aderendo di fatto ai principi del neocapitalismo, quali sono gli obbiettivi che de facto incorporiamo nell’agire artistico? Partiamo dagli obiettivi del capitale, che per comodità sintetizzeremo in tre concisi assunti: esso deve accrescersi, deve potersi accumulare, e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito per garantire una nuova e maggiore crescita. A questo processo di accumulo si possono frapporre degli ostacoli che, qualora trascurati, possono provocare delle crisi. Compito dei governi e delle imprese è la rimozione di tali impedimenti affinché la crescita non abbia battute d’arresto. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta come conseguenza l’inadeguatezza dei mezzi artistici, tecnologici e amministrativi; infine, per un’efficiente organizzazione del lavoro, si dovrebbe assumere e coinvolgere figure professionali adeguate agli scopi della creazione le quali per lo più non possono essere reperite proprio per mancanza di fondi. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti volti esclusivamente all’elaborazione di nuovi oggetti culturali, abbiamo un mercato inflazionato da iperproduzione e la conseguente veloce obsolescenza delle creazioni.

Inoltre, e non secondaria, vi è la questione della concorrenza, altro principio base del capitalismo. Da ogni parte si parla di reti, di agire di concerto nel settore, ma se avvenisse la trasformazione in azienda di cultura, non vi saranno più colleghi con cui solidarizzare ma concorrenti da superare a qualsiasi costo per ottenere successo e profitto. E così il clima da guelfi e ghibellini che già attanaglia il settore verrebbe solo estremizzato e inasprito. Da ultimo, e non meno importante degli altri aspetti, i diritti dei lavoratori: come tutti possono osservare, dall’affermazione del neoliberismo, ossia dagli anni ’70, essi sono venuti meno in maniera graduale e costante così come d’altra parte è aumentata la precarizzazione. Sorge spontanea la domanda: perché in ambito culturale dovrebbe accadere qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri settori? Cosa vi lascia pensare che i diritti dei lavoratori verranno difesi, estesi e affermati con maggior forza con l’instaurazione dell’azienda di cultura, l’assunzione dei principi del neocapitale e i conseguenti aumenti dei costi di gestione per il venir meno delle agevolazioni fiscali?

E così pur non essendoci le condizioni per avviare un’impresa culturale da ogni dove vi è la spinta verso un’aziendalizzazione di un settore che nasce senza fine di lucro e che, proprio per questo motivo, si è trovato escluso da numerosi sostegni in epoca Covid per essendo le attività iscritte al registro delle imprese per obbligo di molte legislazioni regionali (ad esempio la Lombardia). Non sarebbe il caso di trovare altre strategie e scenari per il mondo artistico-culturale e che tengano conto della diversità proprie del settore?

Altra ossessione del mondo economico è la quantificazione. Raccogliere dati, stilare classifiche, e puntare a un incremento nell’anno successivo è il mantra di ogni economista ma anche l’ossessione di ogni teatrante, danzatore o operatore che deve fare domanda per il FUS o per i contributi regionali. Questo vale soprattutto per il pubblico, il quale deve crescere, essere sempre più ingaggiato, coinvolto, partecipante. Una battuta d’arresto è impensabile. Ma questa fiducia nel numero e soprattutto nella crescita costante è un pensiero proprio del mondo culturale o, forse, è un’ossessione di quello economico e finanziario neoliberista?

Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911 Frederick Taylor aveva già impresso il marchio ai successivi sviluppi di questo pensiero fiducioso nell’imperio del numero e della quantificazione. Ecco i suoi sei assiomi nella loro adamantina evidenza: unico e principale obiettivo del lavoro è l’efficienza; il calcolo tecnico è sempre superiore al giudizio umano; il giudizio umano non è affidabile; la soggettività è un ostacolo; tutto ciò che non si può misurare non esiste o comunque non ha valore; gli affari dei cittadini devono essere guidati da esperti. Chris Anderson su Wired ha affermato: «con dati sufficienti, i numeri parlano da soli». Davvero è così? Oppure, come dimostrato da quanto successo in quest’epoca Covid, i numeri possono essere letti in modi talmente diversi tanto da creare una confusione senza fine?

Forse ha ragione Mark Fisher quando parla di Stalinismo di mercato ossia di: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno che proprio durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

L’imperio del numero ci conduce a un altro mantra del neoliberismo volto a potenziare lo sviluppo dell’economia e delle tecnologie digitali: la datafication. Ancora una volta quello che possiamo constatare è che il principio che apre la porta del successo e dei finanziamenti sono i numeri determinati da sua maestà l’algoritmo. Come dice Massimo Airoldi: «la cultura risultante rispetta i canoni di significazione statistica stabiliti […], l’algoritmo registrerà e riproporrà le correlazioni più forti, nascondendo quelle statisticamente non significative». Ma se è solo il numero che conta, allora la vista dalla cima dell’Everest è meno bella perché l’anno vista in pochi? E ancora, se oggi Grotowsky facesse la prima de Il principe costante a Woclaw sarebbe ininfluente perché pochi spettatori ne avrebbero l’accesso?

Secondo questo principio, a essere sotto attacco e a rischio di estinzione sarebbero quelli che nel film Divergent vengono definiti Outlier, tutti coloro che non seguono il modello statistico e la cultura così normalizzata dalla production of prediction. E ad affondare nell’oceano scuro e profondo della comunicazione digitale saranno tutti coloro che non riescono a trovare le catene di parole chiavi giuste o a investire sulla visibilità. Il numero infatti vive dell’immediato, sicuro di essere sostituito da uno nuovo il giorno successivo. Nessun pensiero sull’impatto a lungo termine di un’azione civile, artistica o politica, solo risultato immediato prima di essere sommersi da un altro contenuto inneggiato da migliaia di like.

Inception di Christopher Nolan

Pur procedendo sempre per accenni ma in modo rigoroso e conseguente è venuto il momento di porsi un’ulteriore domanda: questo movimento egemonico da parte dell’economia liberista è forse avvenuto senza la complicità degli artisti e degli operatori? O forse in qualche modo, in buona fede, convinti dal sistema in cui abitiamo e lavoriamo, abbiamo agito in modo che tali idee si affermassero nel passato tanto da divenire oggi imprescindibili? Pensiamo per un momento a due scene contenute in due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. A seguire ci siamo convinti, e ne siamo ancora convinti, che bandi, fondazioni bancarie, algoritmi fossero il modo migliore per sostenere un settore in crisi già negli anni ’90, e questa convinzione si è rafforzata negli anni nonostante l’evidenza della diminuzione dei sostegni da parte pubblica. Ci siamo assuefatti a questo pensiero e l’abitudine impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Inoltre siamo avvezzi alla bistecca elargita, benché diventi sempre più esigua, servita fredda e in ritardo. Ci siamo lasciati convincere che sia succosa e succulenta seppur insufficiente.

Forse è giunto il momento per tutti noi di immaginare scenari alternativi, rigettando le semplicistiche e falsamente ottimistiche ricette elargite da mamma economia. Essa non è in grado di risolvere le sue proprie e continue crisi, e quindi come potrebbe risolvere quelle degli altri? Forse dovremmo prendere esempio da Santo Francesco che in queste lande scatenò la più grande rivoluzione culturale del Medioevo semplicemente scegliendo di essere povero. Francesco abbracciò sorella povertà in un’epoca in cui nessuno si sarebbe sognato di farlo, soprattutto uno ricco come lui. Quell’atto di denudamento e spoliazione avvenuto nella piazza di Assisi cambiò volto al Medioevo. Serve trovare un gesto altrettanto forte, un modello d’azione altrettanto rivoluzionario, qualcosa che induca a ripensare al mondo in cui viviamo e in cui vogliamo vivere e che il neoliberismo capitalista ha messo fortemente in crisi. Il capitalismo si combatte con le idee e dunque sforziamoci tutti insieme di immaginare mondi alternativi smettendo di sognare di tornare a “come era prima”, perché è “il come era prima” che ci ha condotto al mondo aberrante di oggi.

Per concludere vorrei riportare un breve ma bellissimo racconto di Kafka da porre in chiusura di questo fugace ragionamento. Si intitola Piccola favola e forse ci induce a riflettere sul momento attuale e sulle conseguenze derivanti dalle scelte affrettate

:«Ahi!» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era così ampio che avevo paura. Continuavo a correre ed ero felice finalmente di vedere a sinistra e a destra in lontananza delle pareti, ma queste lunghe pareti si corrono incontro l’un l’altra così rapidamente che io sono già nell’ultima stanza, e lì, nell’angolo, c’è la trappola nella quale cadrò».

«Dovevi solo cambiare la direzione della corsa» disse il gatto e lo mangiò».

LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

LE SALE VUOTE DEL PALAZZO DELLA MEMORIA

:«Abbiamo perso la memoria del Quindicesimo Secolo» cantavano gli Area nel 1976 in una canzone dal titolo profetico: Evaporazione. Infatti se guardiamo alle nostre spalle, ma anche ai film e alla letteratura fantascientifica di questi ultimi anni, la memoria nella civiltà occidentale sembra si sia persa ben più del Quindicesimo secolo. La memoria del nostro passato recente, delle lotte e delle rivoluzioni culturali, paiono evaporate. Sembra che questa nascente civiltà digitale abbia non solo sbiadito i ricordi, persino recentissimi, facendoli affogare nel mare magnum del megastore dell’informazione, ma in più abbia appiattito tutto in un eterno presente, sempre disponibile con un semplice click e pronto a reiterarsi nel nome del sette giorni su sette h24.

Questa temporalità profana che innalza a unica gloria il giorno lavorativo ha quindi, come conseguenza, scalzato il divino riposo, sopprimendo così quella cesura che dava senso al tempo nella discontinuità permettendo il pensiero libero e fluttuante, quello da cui nascono i pensieri fecondi e critici, e così il passato si è perso nelle nebbie ingoiato dai Langolieri di Stephen King. Senza passato si è costretti, come Bill Murray in Ricomincio da capo, a vivere in un loop temporale senza via d’uscita: non riusciamo a immaginare il futuro, costretti come siamo a sopravvivere alla velocità di replicazione del medesimo travestito da novità.

Bill Murray in Ricomincio da capo

Ciò che più risente di questo eterno ritorno dell’eguale è proprio la memoria tanto da averci fatto perdere non solo quella del Quindicesimo secolo, ma anche quella degli ultimi trent’anni e con essa si è smarrita nelle nebbie la storia recente della ricerca teatrale in Italia. Nomi come Leo De Berardinis, Antonio Neiwiller, Jerzy Grotowski o Tadeusz Kantor sembrano affiorare da soffitte dimenticate coperti da nugoli di polvere. Eppure sono il recentissimo passato.

Eterno presente digitale e amnesia (o rimozione?) sembrano attanagliare il mondo culturale italiano non solo in ambito artistico ma anche politico sindacale. Ritroviamo così riproposizioni di ricerche già date e dimenticate così come annosi problemi le cui radici si conficcano nei decenni e sembrano invece apparire dal nulla improvvisi come fulmini in un temporale estivo.

Proviamo giocando un po’ con le immagini a cercare di comprendere cosa comporti questo malfunzionamento mnemonico dispiegato in un tempo piatto sempre uguale a se stesso, processo che nemmeno il Covid ha scalfito, tanto che tutti fremono a ritornare alla normalità, a com’era prima, nascondendo sotto il tappeto i pericolosi cambiamenti comunque avvenuti (soprattutto una preoccupante sperequazione dei poteri).

Cominciamo il nostro gioco. La prima immagine esemplifica quello che potremmo chiamare Effetto Jason Bourne, dal nome del protagonista della famosa saga di spionaggio interpretata da Matt Damon. Bourne si sveglia ferito, non sa chi è, da dove proviene. Non sa nulla del suo passato. Sottopelle trova un chip con delle coordinate bancarie di un istituto di Zurigo. Visitando la banca le cose si complicano: passaporti con identità multiple: chi è dunque? Quale identità corrisponde alla sua persona? E, soprattutto: che vita conduce uno che può disporre di tali mezzi e materiali? Inoltre Bourne scopre di avere delle abilità: sa combattere, individua potenziali pericoli, immagazzina informazioni che potrebbero essere utili, reagisce con prontezza impressionante agli imprevisti, parla diverse lingue. Bourne ha dei doni e delle arti ma non sa come le ha apprese, a cosa gli servono e non sa soprattutto chi gliele ha insegnate e perché. Bourne non ha funzione pur avendo potenzialità da supereroe, e questa mancanza, che prova a sanare per tutta la saga, gli impedisce appunto di costruire un futuro. Ogni volta che ci prova lo vengono a cercare e tutto riprecipita in un vortice di fuga e violenza in cui l’unico a non sapere il motivo scatenante è proprio lui.

Il passato serve da contrasto, perché opponendosi ad esso i giovani fanno sorgere il futuro. Le generazioni si susseguono tra conservatorismo e innovazione. Ciò che è stato è la radice da cui sorge un domani diverso benché non necessariamente migliore. L’idea del progresso come parabola in ascesa tendente a infinito è una mistificazione come ricordava già il Manzoni. In arte ciò che è diventato canone viene messo in discussione e nella variazione nasce un nuovo canone. Sembra che questo perenne movimento di ascesa e caduta, di crescita e declino, si sia arrestato. Nell’eterno presente non si pensa al perdurare della memoria, ma solo a viverlo evitando i rischi di essere risucchiati nell’obsolescenza, unico vero peccato della contemporaneità. Aggiornamento continuo è il comandamento. Il problema è che come Jason Bourne non sappiamo più chi siamo né quale funzione svolgiamo nel contesto in cui ci si muove. Come Jason Bourne non sapremo costruire un futuro senza aver riscoperto il nostro recente passato in cui sono contenuti i motivi dell’attuale crisi. Ristudiare gli ultimi trent’anni di teatro italiano, sotto i vari aspetti politici, antropologici, sociologici e sindacali sarebbe alquanto utile per trovare delle soluzioni e delle vie di fughe all’alquanto problematico oggi.

Memento di Christopher Nolan

La seconda suggestione fa sorgere quello che chiameremo Effetto Memento, dal famoso film di Christopher Nolan, e utilizzeremo come sottotitolo proprio la frase che inizia il film: ricordati di non dimenticare. Leonard è affetto da amnesia anterograda. Non trattiene nessun ricordo di quello che gli accade per più di pochi minuti. Nonostante questo limite è alla ricerca di colui che lo ha aggredito e ha ucciso sua moglie. Per ricordare visi e indizi importanti per la sua indagine si tatua il corpo e gira con un mucchio di polaroid, ritratti di persone con appunti che lo aiutino a comprendere di chi può fidarsi. Leonard è aiutato da Teddy, il quale viene ucciso all’inizio del film. La storia si svolge all’indietro e grazie a questo movimento a ritroso, ecco che il presente si illumina. Leonard è colui che ha ucciso sua moglie. Lo ha semplicemente rimosso. Teddy è solo un poliziotto che ha sfruttato la sua malattia per uccidere delle persone a lui scomode. La ricerca di Leonard è fasulla, basata su presupposti sbagliati e non può avere nessun esito perché non conosce il proprio passato. Contrariamente a Edipo che si punisce per aver scoperto di essere la causa dei mali di Tebe, Leonard dopo pochi secondi dimentica tutto e rimane con una serie di diapositive e di tatuaggi incisi sul corpo che non lo porteranno a nessuna verità ingabbiandolo in un circolo vizioso. La sua ricerca sarà sempre deludente perché svincolata da un passato e quindi infruttuosa perché incapace di proiettarsi verso un qualsiasi futuro.

Mai come in questi ultimi mesi si è parlato di teatro di ricerca eppure questo è nello stesso tempo un periodo alquanto arido di discussioni teoriche. La ricerca si muove verso un ignoto sognato e pre-visto ma parte da un’origine ben definita. Sembra invece che la ricerca oggi non sia tanto una tecnica acquisita (in un processo sia di ammirazione/devozione, sia di opposizione), o un discorso artistico/filosofico/politico che metta in discussione in teatro o la danza come lo abbiamo ricevuto dal passato, quanto un fenomeno dovuto alla professione. Certo non è che si voglia generalizzare, ma indicare una linea di tendenza, un pericoloso adattarsi a termini che sembrano svuotati di senso. Come la ricerca di Leonard sembra che quella teatrale, nell’ampia accezione del termine, sia eterodiretta dai bandi che come Teddy nel film orientano Leonard verso un nuovo obiettivo. Dimenticare perché si fa una ricerca, cosa serve veramente, impedisce di comprendere che il regime di frettolosa iperproduzione non ci potrà aiutare a ricercare un bel niente. Dimenticare le motivazioni di una ricerca ci ingabbia in processi produttivi o residenze assolutamente inutili. La ricerca prima di essere intrapresa deve sapere di cosa necessita e soprattutto cosa possa metterla in pericolo, ma la cosa più importante: l’artista che la intraprende deve conoscere se stesso. Leonard non sa chi è, né cosa ha fatto. Il socratico conosci te stesso, scritto anche sulla porta dell’oracolo in Matrix, diventa fondamentale per intraprendere qualsiasi processo creativo e questo deve avvenire prima del bando, prima della residenza, prima del debutto in un festival o in un teatro.

Mickey Rourke in Angel’s Heart

Ulteriore curioso fenomeno è quello che chiameremo effetto Angel’s heart. Nel film di Alan Parker, il detective Harry Angel, viene ingaggiato per un’indagine dal misterioso signor Luis Cyphre. Harry deve trovare qualcuno che non ha pagato un grosso debito al suo committente. Le sue ricerche lo portano a New Orleans, in luoghi sordidi, colmi di riti indecenti e a scoprire, con orrore che il debitore non è che lui stesso e il suo creditore altri non è che il diavolo in persona. Harry aveva venduto la sua anima ma se ne era dimenticato. E non ha nemmeno fatto una vita di successo, colmo di denaro e gloria, ma un’esistenza sordida, di mezzucci, ai margini della società.

La rimozione dei ricordi avviene per molte ragioni non sempre traumatiche e dolorose. A volte si dimentica perché si ritiene concluso un percorso. In quello che viene chiamato effetto Cliffhanger avviene che si memorizza meglio ciò che resta incompiuto in quanto il bisogno riattiva la memoria. Martin Heidegger in Essere e tempo dice: «il pensante impara in maniera più durevole dal mancante». Non solo l’incompiutezza aiuta la memoria ma anche l’insoddisfazione per le soluzioni applicate e trovate. Per ricordare meglio bisogna mancar di qualcosa. Forse dunque il recente passato è stato dimenticato perché risolto. Forse i percorsi giunti a noi dal Novecento erano conclusi e non erano più utili all’oggi e dunque sono semplicemente scomparsi dietro le cortine del tempo. Bisognerebbe indagare il fenomeno per comprendere perché ciò che ci è più prossimo è sfilato nelle nebbie del passato. Un’indagine pericolosa come quella di Harry Angel, perché potremmo venire a scoprire una certa correità del mondo teatrale nella crisi del teatro e questo perché si sono detti molti pericolosi sì, magari anche in buona fede, a delle pratiche e a delle modalità che hanno condotto alla costruzione di una filiera iperproduttiva premiante la quantità e non la qualità. E se così fosse verremmo anche a scoprire che tutto ciò non ha portato benessere e gloria al comparto, ma a una vita misera, ai margini della società, in molti casi al limite della sussistenza. Eppure se compissimo tale indagine come fossimo sulla sedia dell’analista potremmo anche far riaffiorare ciò che invece è assolutamente necessario al teatro e ricordarne le funzioni perdute e mai riaggiornate. Come diceva Freud in Costruzioni nell’analisi: «il terapeuta dà la possibilità al paziente di ritrovare qualcosa che in realtà non aveva mai perduto. Il paziente scopre che ciò che sta disperatamente cercando è già in suo possesso».

Da ultimo l’effetto Embers, dal film di Claire Carré, dove troviamo un’umanità colpita da un’epidemia i cui effetti sono quelli di provocare nei sopravvissuti un’inguaribile amnesia anterograda. Nessuno ricorda niente se non per pochi istanti. Nemmeno gli affetti più stretti e sinceri sopravvivono a un semplice distacco di pochi minuti. Coloro che ricordano sono rintanati in rifugi sotterranei, circondati da oggetti di cultura ormai obsoleti e inutili e da ogni comfort tranne la socialità. Miranda, unico personaggio ad avere un nome, decide di lasciare il suo rifugio, affrontare la perdita di memoria pur di avere la possibilità di sfuggire alla noia di una prigionia autoimposta. Avendo a disposizione solo il passato, non potendo costruire un futuro, sceglie di vivere un eterno presente, seppur senza senso alcuno e senza la speranza di poterlo avere.

Embers di Claire Carré

L’epidemia, come ben sapeva Artaud, non avviene solo nel regno della biologia, ma anche nel mondo delle idee. Ci siamo avvinti con troppa foga al mondo digitale, sposando le sue tecnologie senza mettere in dubbio nemmeno per un secondo che andassero soppesate prima di essere utilizzate. Il mondo etereo del digitale però è orizzontale privo com’è della verticalità del tempo. Tutto è a disposizione sullo stesso piano, tutto dura un battito di ciglia, il tempo di un post, di una tempesta furiosa di commenti. Siamo tutti connessi ma scollegati, privi del confronto, della discussione, dell’analisi. Si legge disattenti, veloci, saltellando da una frase all’altra e nulla si fissa veramente nella memoria. Stiamo tutti diventando smemorati perché non sappiamo più soffermarci. Ciò che è avvenuto due anni fa sui palchi difficilmente si rammemora, recensioni di spettacoli di soli tre stagioni fa non sono più lette, considerazioni di prima della pandemia sono già obsolete, si corre verso il prossimo appuntamento dimenticando già quello di ieri. Così oggi nell’apertura frettolosa e generalizzata ci troviamo già subissati di nuovi lavori, di conferenze stampa, di programmi, e a correre su e giù per l’Italia. Poco rimarrà nella nostra memoria perché non diamo tempo alle cose di sedimentare, alla mente di riflettere, di considerare, di confrontare, di scoprire, come diceva Benjamin, una realtà nei frammenti di specchio che incontriamo sulla nostra strada.

Alla fine di questo che non è stato altro che un gioco innocente, fatto per celia, un viaggio per immagini e metafore non troppo serio e scientifico, ci possiamo lasciare pensando alle anime dantesche e alla loro unica preoccupazione di essere ricordate da chi ancor viveva. Non c’è pena maggiore in tutto l’inferno che l’essere dimenticati. :«fama di loro il mondo esser non lassa» viene detto degli ignavi negletti sia da Dio che dai suoi nemici, e così degli avari : «la sconoscente vita che i fé sozzi,/ad ogne conoscenza or li fa bruni». Questa la sorte dei peccatori spiacevoli. Nel nostro contemporaneo invece rischiamo di garantire tale bieco destino a figure che invece meriterebbero memoria e i cui insegnamenti e pratiche potrebbero essere alquanto utili al nostro tempo colmo di confusione. Dovremmo aver la forza di rispolverare i ricordi, tornare a guardare al recente passato con coraggio e indagare con serenità e rigore perché oggi il teatro sia attanagliato dalla foga di produrre lavori che nel giro di mezza stagione verranno dimenticati e, soprattutto, perché ci siamo piegati al principio di valutazione quantitativa e, forse, solo così torneremo a incontrare veramente il pubblico sul piano della necessità e non su quello della convenienza e del bisogno.

Nessun amico al tramonto

NESSUN AMICO AL TRAMONTO: Cuenca/Lauro, Teatro Patalò, Paola Bianchi

Viviamo un mondo crepuscolare. Nella guerra tutt’altro che fredda tra passato e futuro ritratta da Christopher Nolan in Tenet, la frase di Walt Whitman torna e ritorna come un preghiera sussurrata nel momento del bisogno. A queste parole si risponde: Nessun amico al tramonto. Due frasi, due parentesi a racchiudere il nostro presente compresso tra uno sciagurato passato e un futuro quanto mai incerto eppur pronto a reclamare a gran voce il diritto di esistere. Due aforismi difficili da ignorare, e pronti a rimbalzare molesti come le palline di Blumfeld.

In questi giorni, nel visionare alcune opere, le due asserzioni mi tornavano alla mente prepotenti come bulletti di quartiere e nel dare ascolto alla loro insistenza, ho cominciato a sospettar una loro fascinante capacità di rappresentare uno stato d’animo sospeso tra il “non più” e il “non ancora” in cui siamo imbrigliati. Il mondo, non solo quello dello spettacolo, vive intrappolato come insetto sulla ragnatela in un limbo tra due universi, un interregno abitato da ombre, fantasmi, luci soffuse, bagliori taglienti. E ora, proprio in questo attimo di fragilità, il teatro ha scoperto di non avere nessun amico al tramonto.

Vorrei quindi parlare di una serie di opere, lavori intensi e sapienti, capaci di sussurrare parole al nostro tempo, nonostante il confinamento digitale per cui non sono nate. Tre lanterne nel buio, tre mormorii raccolti, nel dolore lievi, tre domande tra il “non più” e il “non ancora”.

Regenland – Elogio del buio, solo di Elisabetta Cuenca, prodotto da Cuenca/Lauro e Sosta Palmizi, fin dal titolo, richiama il mondo notturno, un mistero profondo, itinerario dell’anima tra morte mistica e novella trasformazione. All’esordio l’occhio della danzatrice è velato da occhiali a specchio, che rimandano a noi un riflesso di un’assenza, la nostra, dall’orizzonte di danza. Anche il corpo è fasciato da vesti, belle, leggere, sensuali maschere del corpo vivo e politico. Gradualmente lo sguardo si svela, il corpo si spoglia, fino a rimanere crocifisso da un raggio di luce (ed è subito sera), come insetto trafitto da uno spillo. Il viaggio iniziatico avviene in un teatro vuoto, la sguardo digitale a frugare, distante e protetto, in un mondo che urla e richiede il confronto fisico. La danzatrice scende in una platea vuota, e offre il suo sguardo al palco, prima di girarsi verso di noi, assenti eppur presenti, muta e rogante, punto interrogativo di una domanda troppo pressante per essere espressa a parole.

Inventare la vita di Luca Serrani e Isadora Angelini per la produzione di Teatro Patalò, è pellicola che nasce da una mancanza e un’assenza. Quello che avrebbe dovuto essere un lavoro per una tournée negli Stati Uniti, diventa un’altra progettualità, diventa cinema e si gira in un teatro vuoto, abbandonato dallo sguardo dello spettatore. Un futuro mancato nell’assenza di compagni al tramonto. Sono le ombre a parlare, quelle proiettate sul muro, quelle evocate dalle parole, in un bianco e nero d’effetto che ci scaglia in un passato ormai inevitabilmente trascorso. Un Sogno di una notte di mezz’estate, i cui spiriti sono ombre all’ennesima potenza, sagome evanescenti, specie in via d’estinzione, miraggi di una cultura che non può essere più e di cui si sente più nostalgia che vera e propria mancanza. Eppure questi spettri provano a inventare una vita, a cercare la natura e il sole negli spazi aperti, lontani dalle spente e fioche luci del teatro.

Ultimo un trittico: ON, Other Otherness, NoPolis di Paola Bianchi. Un segno radicale, un corpo che da sempre viene inteso come politico, orfano oggi di quell’agorà che lo rende tale, obbligato a offrirsi non alla comunità ma alla community. Le tessiture musicali di Fabrizio Modonese Palumbo, tra loop morbidi e non ossessivi che ricordano William Basinsky e e flussi di suono duro e rumore bianco alla Fennezs di Hotel Paral.lel, modulano onde diverse di un mare da cui emergono suoni concreti come relitti di un mondo che fu, una musica sempre segno e non un tappeto sonoro, una trama su cui si intreccia il danzare in un unione da cui sorge ed emerge il disegno per l’occhio. Una danza nervosa, faticosa, costretta a terra e circondata dal buio in un cerchio di luce tenue (a volte persino oscurata come in piccola eclissi), o sotto una pioggia leggera e circoscritta di luce, dentro un quadrato con un vago sentore di prigione. L’elevarsi è sforzo mai leggero, è lotta contro ciò che ci rivolge al basso. Il buio non è accogliente ma muro impenetrabile. Tre brevi coreografie in cui i corpi intessono un movimento da cui affiorano altri residui, rovine di un mondo rimasto indietro ma ancora piene di un fascino e di un senso che sembra quasi sfuggirci: un dito medio, un pugno alzato verso il cielo, una ballerina di Degas. Gesti politici, di rivolta, di insulto, culturali, iconici, mai neutri. Hanno la forza disperata dei sopravvissuti.

Tre opere in un mondo crepuscolare, quello che abitiamo senza amici al tramonto e in cui, come in Tenet, lo specchio si è rotto prima dell’incidente. Opere che ci parlano di un mondo trascorso ma presente, come le poesie di Rutilio Namaziano erano un amaro osservare il calar del sole su un impero non più tale ma non pronto a prenderne atto. Non c’era e non c’è ancora un futuro. Dobbiamo farlo emergere, dobbiamo tutti sforzarci di farlo affiorare da una notte avvilente e nebbiosa. Per ora c’è spazio per canti notturni, quelli che si rivolgono agli spiriti e alle ombre, canti di sfida e di lotta. Come Ulisse nell’Ade dobbiamo lottare per tener lontane le teste vuote dei morti facendo avvicinare solo quelli pronti a fornire uno sguardo su un futuro che ancora non è, ma sicuramente sarà se sapremo inventarlo.

neoliberismo

A NON PIÙ COME PRIMA: NEOLIBERISMO E TEATRO

Quella da Coronavirus non è la prima pandemia che ci troviamo a vivere. L’AIDS è molto più silenziosa, più letale, vive tra noi da vari decenni, ma facciamo in modo di ignorarne la presenza. Questo nuovo virus al contrario si è imposto all’attenzione del mondo con prepotenza, obbligandoci a trincerarci nelle nostre case. La principale causa del suo manifestarsi è la medesima del suo ben più letale predecessore e di altri virus dai nomi inquietanti apparsi negli ultimi anni come Ebola, Marburg o Nipah: l’economia neocapitalista sfruttando e invadendo ogni tipo di nicchia ecologica ha portato a una contiguità senza precedenti tra animali e l’uomo favorendo il fenomeno dello spillover e delle conseguenti zoonosi. La globalizzazione ha poi permesso il rapido viaggiare di questi scomodi passeggeri in ogni angolo del pianeta.

Questa pandemia, al contrario dell’altra, era attesa da anni e non solo dalla scienza (Obama ne parlava già nel 2014 cfr. https://www.youtube.com/watch?v=pBVAnaHxHbM ). Al suo apparire ha avuto come principale effetto di bloccare intere nazioni tra cui il nostro paese dove è esplosa con particolare virulenza e dove tutte le attività economiche e sociali hanno rallentato, quando non si sono del tutto fermate. Uno degli ambiti che più si sono trovati spiazzati e colpiti è stato sicuramente il comparto delle arti dal vivo e non solo per la lontananza dal proprio pubblico ma soprattutto per la precarietà degli artisti e dei lavoratori, a cui pochi negli anni hanno cercato di porre rimedio. Lo spettacolo dal vivo si è trovato impreparato, ma è anche senza un piano per affrontare non solo l’emergenza del momento ma soprattutto l’azione di ricostruzione. Tutt’al più spera di ripartire al più presto e questa è solo l’idea con meno conseguenze dannose.

La stasi obbligatoria a cui tutti siamo stati costretti poteva far pensare a un momento di riflessione e di dialogo costruttivo per cercare di risolvere i problemi che erano già presenti, per tentare di emendare gli errori e le aberrazioni esistenti del sistema produttivo-distributivo, invece si è assistito a risposte per lo più frettolose, dettate dall’emozione quando non a dolorosi silenzi. Da una parte dunque il ricorso da parte di molti artisti, così come di molti enti, dello streaming, ora abbracciato anche dal Ministro Franceschini, e che pone molte questioni a un’arte come il teatro che nasce in Occidente con agorà. Di questo non parleremo in questa sede in quanto il discorso che vogliamo fare è di altra natura, anzi semmai è la dimostrazione dell’infiltrazione di un pensiero che tende a considerare la cultura niente più che un prodotto di consumo al pari di un detersivo. Dall’altra un ricalendarizzazione degli appuntamenti e dei festival come se questo tempo che ci è imposto non esistesse e tutti non si aspettasse altro che riprendere da dove eravamo rimasti. Tutto questo dimenticandosi che la crisi del comparto non è nata con il coronavirus ma era persistente da anni, e che il presente lockdown ha semplicemente fatto esplodere.

Da lungo tempo i continui tagli alla cultura, l’incertezza sui pagamenti delle istituzioni, la colonizzazione da parte dell’economia degli obbiettivi propri dell’arte, la precarietà del lavoro (quando è riconosciuto), e l’incapacità degli artisti come degli operatori di sentirsi parte di un unico sistema (per difendersi si necessitava di posizioni unitarie e come dice Fredric Jameson :«una cultura veramente nuova potrebbe venire alla luce soltanto attraverso la lotta collettiva per la creazione di un nuovo sistema sociale»), da tempo tutto questo incide sulla capacità del sistema teatro di rinnovarsi veramente, di costruire e implementare strumenti veramente utili agli artisti, veri protagonisti insieme al pubblico, di tutti i nostri discorsi e senza i quali nessun sistema teatro sarebbe possibile.

Questa crisi quindi da dove deriva? Da mancanza di idee degli artisti, dalla loro incapacità di rispondere alle sfide del Ventunesimo secolo? Oppure sono venute meno alcune condizioni a partire dal sistema educativo, per passare alla produzione, distribuzione e promozione? Non sarà che lo spettacolo dal vivo è malato perché le condizioni economiche imposte dal neocapitalismo sono difficilmente compatibili con un’attività che prevede: incertezza, fallimento, mettersi in dubbio, ricercare l’incerto e l’improbabile e tempi di produzioni lunghi e riflessivi?

Partiamo dagli obiettivi del capitale: per accrescersi deve potersi accumulare e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito, ma vi sono a volte degli ostacoli che possono provocare delle crisi. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta la conseguenza che i mezzi spesso siano inadeguati al progetto, così come le tecnologie applicabili e infine per un’efficiente organizzazione del lavoro si dovrebbe assumere e coinvolgere altre figure professionali le quali per lo più non possono per mancanza di fondi essere chiamate a collaborare. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti abbiamo sul mercato un’iperproduzione che porta più prodotti di quanti se ne possano consumare. All’artista si chiede di produrre almeno un’opera all’anno imponendogli inoltre la necessità di un risultato certo. Conseguenza: troppe opere da smaltire e in più l’artista, per soddisfare in maniera certa il pubblico e gli operatori, è indotto a ricercare la via facile e consueta ripercorrendo stilemi già accolti, sentiero che ha la controindicazione di annoiare e non rispondere veramente alle mutate esigenze.

In conclusione: eravamo malati ben prima del conclamarsi del coronavirus.

David Harvey

Il teatro si configura come una non-economia che chissà per quale motivo il capitale vuole sia gestito e trattato come un’azienda nonostante non abbia minimamente gli stessi scopi; una non-economia le cui maggiori immissioni di capitale sono elargite da benefattori e solo in parte dal pubblico. Tali “mecenati” pubblici e privati, essendo dei donatori volontari, impongono delle regole a chi vuole ottenerli e i loro scopi spesso divergono da quelli dell’arte e forse sono proprio questi obiettivi che oggi ci hanno condotto a una impasse.

Marc Fisher nei suoi scritti sostiene che una delle caratteristiche principali della nostra cultura è quella di essere affetta da hauntologia, dal verbo inglese To Haunt che indica sia l’abitare che l’essere infestati da fantasmi. Con il termine “rubato” a Derrida il filosofo e critico inglese, intende uno stato emotivo sospeso tra il “non più” e il “non ancora”, uno spazio abitato da fantasmi in cui per lo più si è incapaci di immaginare un futuro. Causa principale di questo sentimento o disposizione d’animo è per Fisher appunto il neocapitalismo. In questo passo spiega bene perché: «i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all’impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l’eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo». Questa necessità di immediato riscontro delle proprie azioni a cui segue il conseguente pensiero per cui il fallimento non è proprio contemplato, prevede che la maggior parte dei cosiddetti successi sia in gran parte solo sulla carta e non incida minimamente sulla realtà delle cose (spesso per esperimento chiedo a colleghi e addetti ai lavori chi abbia vinto il Premio Ubu di due o tre anni fa e raramente ottengo una risposta corretta…). Questa tendenza Fisher la chiama Stalinismo di mercato ossia: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno appunto che durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

Marc Fisher

Il problema è che gli obiettivi dell’arte dovrebbero essere lasciati nelle pertinenze di artisti e direttori artistici, in quanto unici e veri competenti nelle questioni che riguardano il proprio ambito, e invece vengono abbandonate nelle mani della politica e, cosa ancor più perniciosa, degli economisti della cultura. Da qualche anno laddove la politica con il suo sistema assistenziale che non premia i migliori progetti ma la sussistenza di un comparto, è venuta meno a causa delle continue crisi economiche (in Italia il 2011 è stato per esempio un anno orribile), il posto è stato preso dalle fondazioni bancarie, salutate dai più come i veri salvatori della patria. Per usare le parole di Alain Badiou :«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». Peccato che, sempre per stare alle parole del filosofo francese, questi signori non sono stati in grado di prevedere i disastri causati, limitandosi a constatarli soltanto in seguito, come chiunque altro.

Alain Badiou

Trattare l’arte come un’azienda, caricarla di obbiettivi quali l’incremento infinito del pubblico come fosse il PIL, vessarla di continui questionari e autovalutazioni assolutamente inutili, è la risposta ai problemi del teatro? Certo nei decenni addietro il teatro non era stato in grado di concepire soluzioni alle male gestioni, al suo proprio sostentamento, a un rapporto solidale e costruttivo con un nuovo pubblico (pensiamo all’ossessione dell’abbonato di cui già parlava Carmelo Bene) ma adottare i metodi del neoliberismo non sembra aver migliorato la situazione. Anzi si osservano sempre più eventi e spettacoli cloni rispondenti più ai parametri e agli algoritmi che ai desideri di chi li realizza e di chi li fruisce. Sempre più spesso si partecipa a festival che si distinguono solo per il luogo in cui si svolgono e per lo spirito con cui vengono gestiti che per i contenuti o per le modalità. E così pure gli spettacoli vengono ad assomigliarsi per argomento o per tipo di interazione a seconda dei parametri scelti dai finanziatori politico-economici senza considerare i reali bisogni di pubblico e artisti. Con bisogni del pubblico non intendo parlare di gusti ma proprio di temi non risolti i quali affliggono una comunità o società. Se fosse solo una questione di gusti basterebbe far scegliere agli spettatori consegnandogli le chiavi della direzione artistica (e in qualche caso qualcuno ci è arrivato vicino).

Per altro il considerare il teatro un azienda dovrebbe almeno comportare che la filiera produttiva distributiva venga implementata secondo metodi capitalisti in modo che l’investitore possa guadagnare e reinvestire. E questo si sa è cosa praticamente impossibile. Nessuno sano di mente pensa di guadagnare un surplus da reinvestire rispetto a quanto speso per la produzione. E questo dai teatri stabili alla piccola compagnia indipendente. Inoltre in qualsiasi azienda il settore ricerca e sviluppo sarebbe uno dei più cruciali invece nel teatro (e con teatro intendo anche la danza o le performing arts) la ricerca è quasi un di più, qualcosa da fare in residenze creative dislocate nel tempo e nello spazio quando ci sarebbe bisogno di continuità e in molti casi autofinanziate dall’artista stesso con la speranza che questo comporti un inserimento nella programmazione.

Tutto questo, in questa sede semplicemente accennato e non approfondito come dovrebbe, evidenzia come l’aver adottato supinamente i metodi del neocapitalismo non abbia in alcun modo migliorato la qualità delle opere e la situazione lavorativa degli artisti per cui sorge spontanea la domanda: perché tutta questa smania di tornare a come era prima? Perché non approfittare della situazione per chiedere alle istituzioni di cambiare marcia e concordare nuove strategie che comprendano i reali bisogni degli artisti? Perché non pensare insieme a soluzioni alternative che siano veramente di condivisione con il pubblico senza cercare risultati facilmente ottenibili nell’istante ma piuttosto attraverso procedure di lungo periodo? E queste famose reti di cui tutti parlano, perché non farle diventare un luogo di co-creazione invece di una forma mascherata di concorrenza gentile (i tanto sbandierati concetti di rete e collaborazione nella ricalendarizzazione sono sfumati totalmente in una totale sovrapposizione per l’autunno facendo i conti senza l’oste, ossia con il legislatore che pare invece orientato a riparlarne per la fine dell’anno)?

A questo punto del discorso mi vengono in mente due scene tratte da due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. Ci siamo abituati a questo pensiero il quale impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Dall’altra ci siamo abituati alla bistecca che ci veniva elargita. Benché diventasse sempre più esigua, servita fredda e in ritardo ci siamo lasciati convincere che fosse succosa e succulenta seppur insufficiente.

Questo è il momento del coraggio. Dobbiamo scuoterci, prendere la pillola rossa e essere magari pronti a una terribile realtà, ma non ritrarre lo sguardo da una verità: quanto c’era prima era solo un lenta agonia di un sistema incapace di reale rinnovamento e colonizzato da pensieri non propri. Come dice Mark Fisher: «Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono: e non perché in loro il desiderio c’è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio».

Milo Rau
Milo Rau

Solo nel prendere coscienza delle nostre reali competenze e delle funzioni proprie del teatro potremo inventare formule nuove e necessarie per noi e per la società o comunità che abitiamo. Smettiamola di parlare di pubblico o di spettatore, cerchiamo il contatto con chi come noi ha vissuto una storia e condividiamo il momento del racconto. Cerchiamo come suggerito dal Gent Manifesto di Milo Rau di far comprendere la necessità di una nuova filiera produttiva che integri creazione, produzione, distribuzione e che renda il teatro un luogo di condivisione vera, un luogo in cui si possa ricostruire l’agorà, dove le persone possano rielaborare le crisi, trovare soluzioni condivise, ed essere veramente una polis. Se non saremo pronti a cambiare non potrà che avvenire quanto ritratto da Laurens Bancroft, il Mat miliardario di Altered Carbon di Richard K. Morgan: «I giovani di spirito, gli avventurosi, sono partiti a stormi sulle astronavi. Sono stati incoraggiati ad andarsene. Sono rimasti i flemmatici, gli obbedienti, i limitati. L’ho visto accadere, e all’epoca ne sono stato felice perché rendeva molto più facile creare un impero. Adesso mi chiedo se sia valsa la pena pagare quel prezzo. La cultura è ricaduta su se stessa, si è aggrappata alle norme per tenersi in vita, ha optato per il vecchio e il familiare».

Letture consigliate:

David Quammen, Spillover, Adelphi, Milano, 2014
Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018
Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019
Mark Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018
Richard K. Morgan, Altered Carbon, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Angeli spezzati, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Il ritorno delle furie, TEA Libri, Milano, 2018
Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2016
David Harvey, L’enigma del capitale: e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011
Fredric Jameson, Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, Fazi Editore, Roma, 2007
Jean Baudrillard, La scomparsa della realtà: antologia di scritti (comunicazione sociale e politica), Fausto Lupetti Editore, Milano, 2009