Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.
Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.
La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.
Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.
Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.
In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.
Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.
Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.
Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.
Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.
Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.
FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ
DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN
ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE
PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA
PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN
VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI
CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA,
YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI,
RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA
REGIA MARCO LORENZI
ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO
DRAMATURG ANNE HIRTH
VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA
COSTUMI ALESSIO ROSATI
SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO
LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO)
CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI
PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO
DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO
PRIMA ASSOLUTA ITALIANA
DURATA 110 MIN
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