Per il terzo appuntamento di Resistenze Artistiche ci spostiamo da Milano a Bergamo per incontrare Damiano Grasselli, direttore, regista e attore di Teatro Caverna, spazio artistico di proprietà del comune. Teatro Caverna abita un quartiere periferico della città: in esso vengono creati progetti che costruiscano attorno all’esperienza artistica un incontro con le persone, fiducioso nella possibilità di vivere una comunità attraverso un dialogo aperto e continuo col presente.
Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro
Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.
Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?
Spazio Caverna negli ultimi due anni ha vissuto diverse fasi. Per i primi 4 mesi di pandemia nessuno (nemmeno noi) è entrato nella sala. Bergamo era talmente sommersa dall’emergenza che ci si spostava solo per evidenti casi di necessità: i teatri erano chiusi e nessuno di noi usciva di casa. Poi abbiamo pian piano riprese, una prima volta, le attività, dedicandoci ai bambini del quartiere in primis. Con la seconda chiusura ci siamo inventati diverse “possibilità” per il nostro spazio: abbiamo creato alcuni podcast radiofonici; abbiamo costruito il progetto di solidarietà e protesta, che abbiamo chiamato Pane e Poesia e che ha avuto grandi riscontri sia tra gli abitanti del quartiere che a livello mediatico nazionale; abbiamo attrezzato un piccolo studio di registrazione e diffusione video per alcune letture e dibattiti coi ragazzi delle scuole superiori. Se però devo citare una cosa particolarmente significativa del nostro dialogo con le persone dico questo: nel nostro quartiere c’è una sede della Chiesa Evangelica. Loro potevano celebrare riti in presenza, ma la loro sede era troppo piccola per contenere tutti col distanziamento. Quindi abbiamo ospitato gruppi di giovani fedeli per i loro canti e preghiere. Sono stati momenti di incontro per decine di ragazzi che altrimenti sarebbero rimasti chiusi in casa ancora una volta. Ci è sembrato necessario farlo.
Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?
Personalmente ho letto molto, cercando di approfondire i temi che più mi stanno a cuore: il suono, il silenzio, la musica, la parola, il linguaggio. Il legame che esiste tra questi concetti: in questo senso si è orientata anche l’attività di Teatro Caverna nei periodi di chiusura totale, con produzioni radiofoniche che hanno coinvolti anche attori esterni alla compagnia. Ho lavorato molto per migliorare la ricerca sonora del nostro fare teatro. Ma al tempo stesso ho scritto, ho cercato di dialogare con tutte le persone con cui riuscivo a mantenere contatti: sia in forma pubblica, scrivendo su giornali e riviste, sia in privato, ritornando a fare una cosa che non facevo da un po’, scrivere lettere. E’ stato un modo per scoprire una dimensione più umana del tempo, fatta non solo di scadenze, ma anche di silenzi e riflessioni. La vera ricerca è stata cercare un modo per costruire ponti anche laddove le strade erano deserte.
Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.
I fondi sono ovviamente utili: avevamo una struttura da tenere viva anche se chiusa, avevamo delle incombenze. Ricevere i fondi dell’ExtraFus o del Fondo costituito dal Comune di Bergamo è stato molto positivo in quel periodo. Ma non sono mancati anche degli incontri istituzionali che ci hanno convinto a continuare malgrado tutto nel progetto che stavamo creando: per esempio nel secondo lockdown si è cominciato ad immaginare, con l’amministrazione comunale di Bergamo, la possibilità di avere un secondo spazio di lavoro, cosa che è accaduta poca settimane fa. E poi si sono create, anche su proposta di alcune istituzioni locali, reti di lavoro comune dove abbiamo potuto condividere con colleghi situazioni che affrontare da soli sarebbe stato impegnativo. Mi riferisco per esempio alla prima edizione di Lazzaretto On Stage e di Affacciati alla Finestra, due eventi che dopo la prima ondata il Comune ha proposto, le Fondazioni hanno sostenuto e gli artisti hanno programmato. Devo dire che soprattutto nell’estate 2020 e soprattutto nell’ambito cittadino si è avvertito un certo modo di agire “positivo”. In seguito la situazione è divenuta più “ombrosa per tutti”: ora bisognerà capire cosa può rimanere di quell’agire fianco a fianco. Se qualcosa rimarrà…
Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?
Questa per noi è stata una domanda centrale, soprattutto da settembre 2020 in poi, quando abbiamo capito che tutto era ancora in divenire e saremmo stati lungamente segregati. La radio su questo mi ha aiutato molto: ho iniziato a “giocare” col mondo radiofonico molto prima che con quello teatrale, avevo solo 15 anni. E così abbiamo iniziato a raccontare storie sia attraverso radio nazionali (abbiamo prodotto Fenoglio e le Langhe: una questione privata per Radio3), con le radio locali, con i podcast da scaricare o appositamente creati per le scuole, per raccontare fiabe ai bambini. Sono arrivati molti messaggi che dicevano: grazie, ci tenete davvero compagnia. Allora a settembre abbiamo deciso di creare un progetto, che oggi prende il nome di Radio Caverna, a partire da una delle tradizioni più amate a Bergamo: la consegna dei doni da parte di Santa Lucia. Su questa tradizione abbiamo realizzato un podcast originale di 8 puntate con un gioco interattivo per le famiglie. Abbiamo raggiunto quasi 5000 ascoltatori con picchi anche di 400 contatti giornalieri, per noi un grande successo. Certo però che ci è mancato molto lo sguardo, il vedersi, il sorridere insieme: per questo ci siamo inventati anche Pane e Poesia. Il nostro è un quartiere che ha qualche difficoltà a stare al passo col costo della vita di Bergamo. Per questo abbiamo inventato una consegna di pacchi alimentari preceduta però da una lettura, faccia a faccia, di una poesia. Chi veniva a prendere la spesa (offerta gratuitamente da un gruppo di donatori) aveva la possibilità di scegliere una poesia e sentirsela leggere da un attore, in presenza. Un modo per scambiare 4 parole, raccogliere storie, vivere delle idee insieme. Anche questo ci ha avvicinato molto alle persone. Non eravamo quelli sul piedistallo che fanno cultura. Eravamo tra la gente, con gli spaghetti, il pomodoro e Majakovskij. La cioccolata, il riso e Quasimodo. Amici poeti, attori, il quartiere. Persone, tra le persone.
Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?
Cerco sempre di chiedermi poco sul futuro. Certo penso a programmare: abbiamo attività in calendario fino a giugno 2024… Intendo però dire che, fissati alcuni obiettivi di base, serve anche che le cose viaggino un po’ da sole, sulla loro strada, con gli eventi che accadono. Il teatro, e lo stiamo scordando follemente, è accadere… Detto ciò è chiaro che si sta un po’ fingendo che tutto sia tornato “normale”. Le persone sono impaurite, impigrite dalle serrate, spaventate dalla situazione lavorative economica. Dire semplicemente: “abbiamo riaperto, ora tornate a teatro”, mi pare utopico e un po’ riduttivo. Forse addirittura canzonatorio. Mi aspetto che nascano progetti, idee (magari anche bandi) che riaccompagnino veramente le persone a teatro. Scriviamo sempre pagine e pagine sulla fidelizzazione del pubblico, ma raramente affrontiamo questo processo in maniera organica. È sempre tutto un po’ lasciato allo “speriamo che qualcuno venga”. Credo che adesso come non mai ci troviamo davanti ad una situazione tale per cui bisognerebbe fare qualcosa per cambiare la relazione col pubblico: non sono scatolette (vuoti ad arrendere) adagiate in platea, sono l’altra metà del nostro lavoro. L’altro è l’altro. Il che non significa andare nella direzione che la massa chiede, al contrario. Stimolare, creare, offrire diversità: YouTube e Mediaset sono molto meglio di noi nel creare intrattenimento. Smettiamo di inseguire quei modelli bulimici. Creiamo una dilatazione del tempo, che alimenti la curiosità delle persone. Nella frenesia aggressiva, il teatro offra lentezza e relazione. Chiaro che il Ministero sta chiedendo numeri e documenti. Ma forse noi non potremmo offrire idee diverse una volta tanto? Non la novità stucchevole (che poi spesso non è nuova). Idee diverse. Andare verso altro. L’altro. Il non IO. Si fa un gran parlare di individualismo: secondo me l’individuo, con la sua responsabilizzazione e la sua unicità, sta scomparendo. C’è un’affermazione cadaverica dell’Io invece: quando noi teatranti parliamo diciamo solo frasi in prima persona singolare sui nostri lavori. Ma credo che al centro del vivere attorale, citando Aldo Capitini, dovrebbe starci questa frase: La mia nascita è quando dico un tu. Non nasce alcun teatro senza il suono di un Tu. Mi aspetto che, Ministero o non Ministero, in me continui a rimanere viva questa cosa. Altrimenti possono seppellirmi anche valanghe di finanziamenti, ma sarei morto in quel caso, sepolto dalla bolsa burocrazia.
Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?
Ecco mi riallaccio a quanto ho appena scritto: non abbiamo considerato che c’è un ALTRO. Ripeto: non per seguire gusti e mode, ma per interrogare. L’altro è un punto interrogativo sulla fronte spaziosa delle nostre certezze. Se non siamo capaci di dire: voglio ascoltare altro, vivremo tombali nel nostro mausoleo, piccolo o grande che sia, sarcofago, loculo o urna per ceneri. Saremo la morte del teatro. Si è ripetuto molto questo concetto: il ministro, le istituzioni, le fondazioni… Stanno facendo quello che nessuno aveva fatto in migliaia di anni: uccidere il teatro! E gli artisti? Cosa fanno per tenerlo vivo? La nostra pratica masturbatoria è eccitante (Artaud si chiedeva se avesse senso cercare una compagna sessuale quando ci si può masturbare…). Ma è esclusiva. Non ci accorgiamo che stiamo lasciando fuori i punti di domanda. Carmelo Bene diceva di essere nel porno, e come lui lo era Kafka. Ecco forse la grande occasione persa è proprio questa: continuiamo sulla strada di un desiderio inesauribile di onanismo. Ma questo è molto distante dal creare arte. Poi certo se guardiamo alle occasioni perse dal punto di vista legislativo, possiamo scrivere dieci volumi… Ma in quanto artista tendo a guardare ciò di cui sono responsabile. E di cui mi posso fare carico. La domanda individuale che mi pongo come artista è: che cosa ho da dire realmente che riguardi la vita?
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