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Resistenze Artistiche

RESISTENZE ARTISTICHE. INTERVISTA A FRANCESCA GAROLLA

Secondo appuntamento col il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche. Questa settimana risponde alle nostre domande Francesca Garolla, drammaturga e direttrice artistica del Teatro I di Milano, direzione che condivide con Federica Fracassi e Renzo Martinelli.

Il progetto Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Francesca Garolla Ph: @Valerio Ferrario

D: Puoi raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conduci in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

Teatro I è rimato chiuso al pubblico per un anno e mezzo. Prima la chiusura forzata, poi una riapertura impossibile, perché avremmo potuto ospitare solo 20 spettatori, nel rispetto della normativa. In tutto questo tempo, soprattutto tra fine 2020 e inizio 2021, abbiamo lavorato su progetti collaterali legati alla scrittura, alla drammaturgia, allo scouting e alla valorizzazione di istanze artistiche non ancora emerse, “invisibili” già in tempi di normalità e in quel periodo del tutto impossibilitate ad esprimersi. Nel tentativo sia di mantenere, nella distanza, un contatto con un pubblico conosciuto, prossimo al progetto culturale del teatro, sia di intercettare un pubblico più estemporaneo, magari distante dal teatro, ingaggiabile grazie ad una proposta differenziata e, soprattutto, a un buon utilizzo dei mezzi a disposizione. Niente streaming, insomma, ma rinnovamento e sperimentazione.

D: Verso quali direzioni si è puntata la tua ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Sulla molteplicità dei punti di vista, sull’ampliamento delle progettualità, sulla necessità di valorizzare la drammaturgia al di là della sua rappresentazione scenica inevitabilmente ridotta, sul confronto tra artisti grazie a iniziative collettive e a momenti di scambio tra pari, sull’alta formazione e la creazione di format differenti (e-book, podcast, biblioteca online, incontri online, scritture collettive).

La parte produttiva ha inevitabilmente subito un arresto, ma questo è stato compensato da un progetto culturale più ampio e variegato.

D: Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Le istituzioni non si sono esposte in maniera particolare a tutela del settore, a parte, appunto, i fondi elargiti e qualche estemporanea manifestazione di solidarietà o dissenso. C’è stato, questo è vero, il tentativo di “ammorbidire” la normativa, di posticipare, di venire incontro, ridefinendo i parametri che permettono di accedere ai contributi pubblici.

Non c’è stata, però, alcuna riflessione di sistema, né un reale coinvolgimento degli operatori in un dibattito che poteva essere un’occasione, in questo tempo di sospensione, di confronto e di ridefinizione di un contesto che già prima della pandemia era traballante.

Crediamo che la solidarietà sia stata soprattutto “dichiarata”, ma, in un certo senso, anch’essa istituzionalizzata, purtroppo però non è riuscita a trasformarsi in reale partecipazione.

D: Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

Nell’impossibilità di presentare spettacoli, abbiamo voluto rendere visibile il processo che porta a delle scelte artistiche. In realtà non solo abbiamo voluto renderlo visibile, ma anche partecipato e condiviso, attraverso i media a disposizione.

Un esempio di questa strategia è stato la creazione di una biblioteca online dedicata alla scrittura contemporanea (www.teatroi.org/biblioteca-virtuale/). Grazie ad una call inaugurata nel dicembre del 2020 abbiamo creato uno spazio virtuale dove iniziare a scoprire la nuova drammaturgia, i testi sono stati selezionati, tra oltre 200 proposte, dapprima da un Comitato di Lettori esperti (Magdalena Barile, Federico Bellini, Claudia Di Giacomo e Valentina De Simone, Valentina Diana, Omar Elerian, Chiara Lagani, Pier Lorenzo Pisano, Michelangelo Zeno) e, in seconda istanza da un Comitato di Spettator-Lettor, coinvolti anch’essi tramite una call.

Ecco, a questo secondo step hanno partecipato più di 100 persone, a livello nazionale, confermando il fatto che è necessario “compromettere” il proprio percorso, aprirlo, metterlo in discussione, per avvicinare (oltre a mantenere) nuovo pubblico.

D: Quali sono le tue aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Crediamo che non si possa ripartire come niente fosse. I teatri, i progetti artistici, non possono rimanere fermi per più di un anno e poi riprendere dallo stesso punto in cui si sono interrotti. Ma il nuovo decreto, ci pare, mira soprattutto al ritorno ad una presupposta normalità, afferma: fate lo stesso numero di repliche, le stesse giornate lavorative, assumete, mantenete il personale, fate tournée come prima, eccetera eccetera. Non si tiene conto di quello che è successo, ed è come pensare che dopo un anno di prigione qualcuno riprenda la sua vita (e la sua libertà) come se niente fosse, con le stesse relazioni, lo stesso lavoro, la stessa faccia, gli stessi pensieri. È impossibile. Non si vuole vedere, si preferisce andare avanti, negare l’incertezza, non ammettere che nel frattempo alcuni progetti si sono esauriti e dovranno ripensarsi completamente, non ammettere che il futuro che ci aspetta risentirà di quello che è successo, comunque.

Quello che ci aspettiamo è che, presto o tardi, questa contraddizione tra ciò che si vorrebbe e ciò che è, questa visione alterata del contesto teatrale, si evidenzi sempre più, obbligandoci, in ogni caso, a una presa di coscienza e quindi ad un rinnovamento, se non delle istituzioni, dei singoli soggetti, nel bene e nel male.

Teatro I – Interno

D: Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la tua opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Si è sospeso il tempo, non lo si è sfruttato per una riflessione di sistema e sul sistema. Le istanze di rinnovamento sono state diverse, ma anche frammentate, per grandezza, per categoria, per territorio. Si è evidenziata la mancanza di confronto.

Al contempo, pensiamo, sono diventati visibili, sempre più, i limiti di questo agire e quindi, se anche non sono stati sfruttati appieno questi due anni, potrebbero essere serviti a rendere visibile la necessità di un cambiamento. Non è successo ieri e non sta succedendo oggi, ma è un punto di partenza per domani.

www.teatroi.org

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Babilonia Teatri

IMPRESSIONI DI SETTEMBRE: TODI OFF E CASTEL DEI MONDI

Teatro non è solo un arte, è prima di tutto un luogo, quello da cui si guarda. Nel consumo frettoloso, nel vortice affollato di eventi, si dimentica un aspetto fondamentale del teatro: la contemplazione del luogo, il lasciarsi impregnare dallo spirito che anima il territorio. Non parlo quindi solo dell’edificio-teatro ma delle città, dei borghi, delle province, spesso molto periferiche rispetto a ipotetici centri d’attività e di potere, e quindi portatrici di dinamiche, problematiche e relative pratiche risolutive spesso originali, da studiare e capire. La consuetudine bulimica da ingordi ci porta invece a guardare e passare senza veramente vedere, e soprattutto capire, come turisti in crociera.

Se vogliamo recuperare un senso e una funzione al teatro, dobbiamo cominciare dalle piccole cose: dalla lentezza e dall’indugio per dar riposo all’occhio invece di saturarlo con bombardamenti di immagini senza soluzione di continuità. Il teatro è arte antica, necessita, nella creazione così come nell’osservazione, di tempo, bene sempre più messo a rischio in quest’era di capitalismo crepuscolare.

Questa volontà di recupero del tempo, sia di visione, che di chiacchiera, di conoscenza, di discussione anche accesa, è battaglia tutt’altro che agevole perché tutto congiura a favore della velocità, del frettoloso voltare pagina per rincorrere il prossimo evento, più fresco quindi più buono e bello solo perché più recente. Sembriamo tutti rincorsi dai Langolieri di Stephen King, creature fameliche divoratrici del passato prossimo. Siamo ormai esseri privi di storia.

La fretta ci fa divorare l’evento e trascurare il luogo. Vediamo tutto come avulso da un contesto, come se l’opera non si nutrisse di ciò che la circonda, soprattutto quando in trasferta, lontana da un pubblico amico e consueto. Per osservare, frequentare e conoscere ci vuole tempo. Come si può conquistare un pubblico in una sola sera? Che relazione si può trovare in così poco tempo? Questo vale certo per l’artista, ma anche per il critico che deve in qualche modo restituire quanto vede.

Un esempio delle disfunzioni generate dalla brevità congenita delle programmazioni e delle tenute dei cartelloni è La febbre di Veronica Cruciani da un testo di Wallace Shawn (drammaturgo e noto attore di tanti film di Woody Allen e Luois Malle) per l’interpretazione della sempre ottima Federica Fracassi.

Wallace Shawn

Il testo di Shawn è un lungo monologo, una riflessione autoaccusatoria sui privilegi di una certa casta benestante, democratica, colta, molto spesso cieca di fronte ai propri privilegi ottenuti grazie allo sfruttamento di molta parte del mondo. Una drammaturgia politica, forte, difficile da ascoltare per i toni appunto febbrili e ostica per le questioni che pone alla coscienza del pubblico. Il primo allestimento degli anni ’90 prevedeva un semplice reading in appartamento. In seguito il regista Robert Icke lo allestì in una suite di lusso al May Fair Hotel per 25 persone fornite di tutti i comfort, dalle bevande ai cioccolatini, il tutto per far immergere il pubblico stesso in una atmosfera di privilegio. Forse un po’ troppo. Come si dice in cucina: less is more. Veronica Cruciani opta per una soluzione più sobria e nello stesso tempo drammatica: un lussuoso bagno di camera d’hotel, inclinato paurosamente verso il pubblico. Un water dove vomitare, una vasca dove fare un bagno. Sul finestrone in fondale, anch’esso inclinato e aggettante, continue proiezione sfumate del corpo della Fracassi. L’attrice al centro della scena a intessere il proprio flusso di coscienza, sempre più piretico e convulso, alla ricerca delle complicità più sepolte, compiacendosi di risvegliare il sopito senso di colpa. Il problema è che la strada è senza uscita a meno di non rovesciare il sistema su cui si basa il sistema di privilegi di cui noi tutti siamo partecipi, e nessuno sembra, a oggi, disposto a scuotere l’albero dalle fondamenta,

Federica Fracassi In La febbre

Un allestimento dunque importante, ricco di questioni scomode, affrontato da una grandissima attrice ma in sala per una sola sera. Non è certo colpa del Todi Festival. Difficilmente i festival possono permettersi una tenuta di più di un giorno. Veniamo però a sapere che oltre a qualche data al Teatro India quest’autunno, un lavoro di questa portata non ha, per ora, altre piazze previste. Non pare un’assurdità? Un tale investimento creativo e di denaro per neanche dieci date? Come fa a crescere un lavoro con così poche repliche? Come fa a influenzare un dibattito se solo pochi lo vedranno? E come è possibile rientrare nell’investimento, ora che tanto si parla di impresa culturale, laddove viene impedito dal sistema stesso un rientro di cassa?

Questi sono alcuni dei temi di cui si è parlato proprio a Todi, nel convegno Se non ora, quando? condotto da Viviana Raciti durante il Todi Off diretto da Roberto Biselli. Critici, operatori, artisti, rappresentanti di categoria, titolari di progetti di residenza si sono confrontati in un pomeriggio di discussione. Ovviamente non basta parlare per poche ore. Si deve continuare il confronto e soprattutto ricercare un’unità d’intesa nello spettacolo dal vivo al di là dei corporativismi. Si deve lottare per ottenere un sistema equo non solo a livello contrattuale ma anche nel rispetto delle opere e dei repertori sempre più fagocitati dalla fretta di proporre novità. Solo essendo uniti si potrà confrontarsi con la politica in maniera efficace. Divisi non potremo che perdere terreno ogni giorno di più. E il franare costante è sotto gli occhi di tutti da un bel po’, ma si preferisce festeggiare per l’inserimento nel FUS o per l’ennesimo inutile premio.

Nel proseguire queste brevi riflessioni ci spostiamo da Todi direzione sud, verso Andria, sede del Festival Castel dei Mondi, diretto da Riccardo Carbutti. Andria è città molto viva, il centro animato e vissuto da giovani e meno giovani. Il Festival Castel dei Mondi si inserisce organicamente in questo vivace tessuto cittadino. Gli spettatori sono numerosi, grazie a Dio non di soli addetti ai lavori, ma di appassionati e curiosi di ogni fascia d’età. Un pubblico caloroso, partecipante e attento. Di fronte a Romeo e Giulietta. Una Canzone d’amore di Babilonia Teatri che oltre alla coppia Enrico Castellani e Valeria Raimondi vede in scena Ugo Pagliai, Paola Gassman e Simone Scimemi, questo pubblico, per una volta vivo davvero, ha percepito la grande umanità insita nel progetto e ha risposto con un sincero entusiasmo che da molto non vedevo in teatro.

Merito senz’altro di Babilonia Teatri che ha saputo restituire alla tragedia Shakespeariana tutta la sua bruciante vitalità al di là degli intellettualismi, dei dotti commentari, del marinettiano verminaio di glossatori. Romeo e Giulietta sono portati in scena da due vecchi attori Ugo Pagliai e Paola Gassman, e il racconto della loro relazione sentimentale lunga quasi mezzo secolo rivela l’amore dei due ragazzi. E così le parole di Shakespeare non sono solo poesia alta, ma parole che descrivono la quotidiana passione, aldilà degli anni e dei cliché. Fondamentale la presenza di Scimemi, mago e comico di grande levatura, la cui azione, da fool vero e proprio, crea i giusti stacchi ritmici ed emotivi, legando il sorriso alla commozione. Il pubblico ha capito e ha donato le proprie emozioni al palcoscenico che se ne è nutrito ricostruendo, una volta tanto, quel circolo virtuoso che fa grande l’arte dal vivo, dove l’opera diventa carne ed emozione e s’accresce nello scambio tra attori e spettatori.

Romeo e Giulietta Babilonia Teatri

Le istituzioni cittadine paiono essere presenti e vicine al festival e all’organizzazione, soprattutto la sindaca sempre partecipante, resta però purtroppo un calo dei sostegni e i finanziamenti risultano non adeguati per un evento che ha una storia di venticinque anni e una programmazione importante votata alla scoperta di giovani talenti nel corso del tempo (Ricci/Forte sono forse l’esempio più luminoso). La politica, locale, regionale o ministeriale che sia, ha il dovere civico di sostenere, gli eventi che hanno dato prova di costruire comunità e cultura per più di un ventennio. Mantenere il tessuto sociale costituito con tanta fatica è un imperativo di cui la politica in questo paese pare essersi dimenticata.

Il direttore artistico Riccardo Carbutti oltre alla programmazione, in cui quest’anno mancano gli stranieri proprio per la diminuzione dei fondi e per le restrizioni pandemiche, ma in cui spiccano Babilonia, Beradi/Casolari, Equilibrio Dinamico, Cantieri Koreja, Massimiliano Civica, ha voluto promuovere dei momenti di dibattito e confronto proprio per affrontare le criticità che attanagliano il sistema da ben prima del Covid e che quest’ultimo ha solo aggravato.

Di particolare interesse la proposta di costruzione di un’etica teatrale proposta da Andrea Cramarossa e Federico Gobbi de Il Teatro delle Bambole. Durante l’incontro è stato presentato il libro L’edera, per un’etica rampicante dello spettacolo, edito da Edizioni Corsare, pubblicazione che contiene parecchi spunti di riflessione su cui il comparto dovrebbe ragionare più attentamente. Il punto fondamentale, all’avviso di chi scrive, è la messa in rilievo del principio di responsabilità individuale: ogni scelta ha delle conseguenze che ricadono su tutti. Da qui la riflessione in cui un principio di sana etica lavorativa è; non prendere decisioni le cui conseguenze nefaste ricadano su tutto il comparto. La capacità di dire no di fronte a condizioni umilianti di lavoro sia a livello tecnico che contributivo è la chiave di volta. Un no che dovrebbe essere detto all’unisono per cancellare dalla lavagna i comportamenti abietti che continuano a perpetrarsi nel mondo dello spettacolo. Purtroppo perdurano proprio perché si accetta nonostante tutto, persino le offerte al ribasso pur di lavorare. Ovviamente non è solo questo. Gli aspetti etici del lavoro sono anche quelli comportamentali, di discriminazione di genere, la parità di contribuzione tra uomini e donne, e molto altro ancora. Immensa è la mole di lavoro da fare. C’è da ragionare per agire, di concerto, non divisi, per acquisire forza di fronte a una società che sta mettendo all’angolo i valori umanistici rispetto a quelli meramente tecnici.

Intrigante la riflessione di Alberto Oliva, regista milanese e giornalista, autore del libro Il teatro al tempo della peste. Modelli di rinascita. edito da Jaca Book. Oliva nel suo libro analizza in una prima parte le innumerevoli pesti che hanno chiuso i teatri nel corso della storia, confrontando ciò che stato con ciò che sta avvenendo; nella seconda parte propone invece una nuova alleanza con la politica per creare un teatro volto alla rinascita. La tesi è che senza il sostegno della politica, la sola forza dell’arte non basti a creare i presupposti per una vera rinascita. Oliva propone quindi un rinnovato pensiero politico sostenuto da quello artistico. La sua fiducia è certo contagiosa benché sia difficile trovare oggi nel panorama italiano un/a politico/a che faccia minimamente sperare in un pensiero illuminato riguardo agli affari culturali. Di certo Franceschini è figura quando più distante possibile da Elisabetta I d’Inghilterra. Forse è il momento di pensare ad aiutarci da soli trovando alternative all’appoggio istituzionale. Forse si deve tornare a essere carbonari, ritrovando quel senso di utopismo volto alla riforma della società tutta che in questi anni è mancato. Come diceva Eugenio Barba, nato in terra di Puglia, il teatro è “solitudine, mestiere, rivolta”.

Federica Fracassi

EVA: Federica Fracassi racconta l’amore nero di Eva per Adolf

Il 10 e 11 marzo all’interno della stagione Schegge proposta da Cubo Teatro, è andata in scena al Polo del ‘900 Federica Fracassi con Eva per la regia di Renzo Martinelli.

Federica Fracassi interpreta Eva Braun, l’amante di Adolf Hitler, colei che ne condivise il suicidio nel bunker di Berlino poche ore dopo averlo sposato. Il testo di Massimo Sgorbani è il secondo episodio di una trilogia sulle femmine che amarono Hitler e di cui il primo episodio è dedicato a Blondi, la cagna regalata al Fuhrer da Martin Bormann, e il terzo a Magda Goebbels, anch’essa suicida nel bunker dopo aver sterminato i suoi sei figli.

Quella di Federica Fracassi è un’immersione in una declinazione liminale dell’amore, perché l’amore di Eva Braun per Hitler è in tutti i sensi estremo, composto di fedeltà, devozione, paura, sensi di colpa, delusione e solitudine, tanto che fu da molti definita la donna più infelice del Terzo Reich.

Tentò due volte il suicidio con un colpo di pistola nel ’32 e poi con le pillole nel ’35, fino al tragico epilogo nel bunker dove si tolse la vita con una fiala di cianuro, la cui efficacia fu testata prima sul cane Blondi.

Eva Braun non fu l’unica donna nel destino di Hitler, e non fu l’unica a tentare il suicidio. Mimi Reiter tentò di impiccarsi quando molto giovane fu lasciata da Hitler già trentasettenne. E Geli Raubal, nipote del Fuhrer con il quale pare abbia intrattenuto una relazione incestuosa e morì, in sospetto suicidio, con un colpo di pistola, la stessa che Hitler usò nel bunker per togliersi la vita. Il tocco del diavolo lascia ferite profonde nelle povere anime che vi si accostano.

Eva Braun fedele a Hitler fino alla fine, si immerse nel gelo dell’amore di un demone, ne fu travolta e straziata. Condivise le perversioni, i segreti più atroci, le vittorie folgoranti e la miserevole sconfitta.

Federica Fracassi interpreta la fragile e devastata psiche di Eva in maniera sublime e toccante, in un lavoro attorico tra i più difficili e complessi. Gli sbalzi d’umore, la depressione colma d’amore perverso, i sensi di colpa per le depravazioni dell’amante, il suo mancato riconoscimento come moglie del Fuhrer se non nelle ultime ore, le speranze frustrate, tutto avviene a scatti, da un estremo all’altro, toccando corde lontane persino antitetiche con una naturalezza e una maestria da grande attrice.

L’amore di Eva, un amore colmo di paura e di gelo, perché il diavolo è gelido come racconta Dante perché è il punto più lontano dall’amore di Dio, è contrappuntato da stralci del film Via col vento, in cui lo sfacelo del Sud narra per affinità il crollo del Terzo Reich. Ma rappresenta anche la vana attesa di un altro giorno che non verrà mai, un altro giorno in cui Eva sarà finalmente amata.

Una storia complessa e un’indagine psicologica molto fine e dura. La prova di attrice di Federica Fracassi è di indubbio valore, seppur mai commovente. Ma non per sua colpa o mancanze: non si riesce mai a essere veramente empatici con chi ha amato il diavolo.