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Teatro di Sacco

RESISTENZE ARTISTICHE: INTERVISTA A TEATRO DI SACCO

Per il nono appuntamento di Resistenze Artistiche, andiamo nel cuore verde dell’Italia e precisamente a Perugia, in Umbria per incontrare il direttore Roberto Biselli e l’organizzatrice Biancamaria Cola, i quali organizzano insieme anche la rassegna estiva Todi Off all’interno del Todi Festival.

Il ciclo di interviste dal titolo Resistenze artistiche si prefigge l’obbiettivo di delineare, almeno parzialmente, quanto avvenuto nei due anni di pandemia in luoghi artistici situati nelle periferie delle grandi città o nelle piccole cittadine di provincia. Questi sono spazi di azione artistica in cui il rapporto con il territorio e la comunità è stretto e imprescindibile. Tale relazione nel biennio pandemico è stata più volte interrotta in maniera brusca, improvvisa e, per lo meno la prima volta, impensata. Tutti si sono trovati impreparati a quanto è successo in questo periodo e le incertezze sull’entità degli aiuti o nelle normative istituzionali di accesso e conduzione delle attività non hanno certo giovato a una serena laboriosità creativa. Nonostante il continuo richiamo a una normalità riconquistata, ciò che stiamo tutti vivendo, artisti, operatori e pubblico è quanto più distante dalla prassi pre-covid. È giusto quindi porsi una serie di questioni in cui, partendo dall’esperienza passata, provare ad affrontare e immaginare un futuro

Come si sopravvive al distanziamento e alle chiusure? Cosa è rimasto al netto di ciò che si è perduto? Quali strategie si sono attuate per poter tenere vivo il rapporto e la comunicazione con i propri fruitori? Come è stato possibile creare delle opere in queste condizioni? Come lo Stato e la politica hanno inciso, se lo hanno fatto, sulle chance di sopravvivenza? Quali esperienze si sono tratte da quest’esperienza? Queste sono le domande che abbiamo posto ad alcuni artisti ed operatori dedicati a svolgere la propria attività sul confine dell’impero, non al suo centro, al servizio di un pubblico distante dai grandi luoghi di cultura e per questo bisognoso perché abbandonato.

Potete raccontarci brevemente come è stato abitato lo spazio (o attività artistica) che conducete in questi ultimi due anni a seguito del susseguirsi di lockdown, zone rosse e distanziamenti?

È stato molto difficile, specialmente riprendersi dopo il secondo lockdown poiché l’attività in presenza è fondamentale per gestire “a cuore caldo” la nostra attività.

Noi dirigiamo dal 1995 uno spazio teatrale perfettamente agibile in pieno centro storico, a Perugia che è il fulcro del nostro agire artistico, sede di laboratori, incontri, progetti, nonché di una rassegna di teatro e danza d’autore INDIZI. Purtroppo, a causa del contingentamento, non è stato possibile condurre alcuna attività e abbiamo dovuto gestire molte iniziative on line, modalità di sopravvivenza certo, ma non funzionale a ciò che riteniamo il contatto emotivo con la nostra “utenza”.

Verso quali direzioni si è puntata la vostra ricerca e attività a seguito di questo lungo periodo pandemico che non accenna a scomparire dal nostro orizzonte?

Come detto abbiamo sperimentato le modalità webinar che continuiamo ad utilizzare ancora adesso, con molti dubbi e perplessità. Già il fare teatro è divenuto, storicamente nel nostro paese, un progetto di nicchia dell’agire sociale, fargli dunque perdere anche quella necessità umana e fisica gli ha certamente “fatto del male” aggravando uno stato di cose già da tempo in grave crisi.

Certamente aver partecipato ad una serie di incontri on line, di rivendicazioni, di definizione di istanze comuni, di riconoscimento con altri artisti e operatori sull’intero territorio nazionale, ha contribuito a sopravvivere a quest’assenza, salvo poi riscontrare che il livello di consapevolezza del nostro settore latita in generale e di fatto solo lo stato di necessità economica aveva costruito una solidarietà alla fin fine abbastanza volatile.

Le istituzioni come sono intervenute nell’aiutare la vostra attività in questo stato di anormalità? Non parlo solo di fondi elargiti, anche se ovviamente le economie sono una parte fondamentale, ma anche di vicinanza, comprensione, soluzioni e compromessi che abbiano in qualche modo aiutato a passare la nottata.

Qui in Umbria il teatro, lo spettacolo dal vivo in generale, non è certo un settore privilegiato e le poche istituzioni, che dovrebbero occuparsi della sua tutela e sviluppo, dovrebbero sostenere, oltre al Teatro Stabile, anche medie e piccole realtà culturali che costituiscono l’humus del nostro territorio. Ci si auspica che, in un futuro prossimo, la politica del Paese e, di conseguenza quella locale, possa intervenire in maniera funzionale alla sostenibilità del settore.

Teatro di Sacco, già dal primo lockdown, ha avuto l’attenzione dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Perugia con cui ha collaborato alla realizzazione di pillole di teatro, presentate al pubblico attraverso il webinar. Questa attenzione continua anche nelle azioni future che stiamo realizzando come la Stagione INDIZI e altre attività di produzione teatrale e di eventi.

Va sottolineato però che, in generale, l’attenzione per gli spazi o le compagnie indipendenti è carente, in più, da sempre, esiste una mancanza di relazione attiva fra i soggetti che operano con grande difficoltà nei vari territori, così che l’isolamento e la separazione, che di fatto caratterizzano questo settore, non contribuiscono a creare un terreno comune di sostegno e di vicinanza e una rete funzionale alla creazione di un progetto “altro.”

Quali sono le strategie messe in atto al fine di mantenere un legame con il tuo pubblico?

La ripresa delle attività dal vivo – spettacoli, laboratori, incontri – è stata molto funzionale nel riprendere il filo con il pubblico, abbiamo riscontrato, infatti, una grande volontà di partecipazione e di voler essere di nuovo coinvolti in un progetto attivo.

Nell’assenza il web ha funzionato da collante e la buona memoria delle attività proposte negli anni precedenti ha fidelizzato l’attenzione del pubblico, anche attraverso pratiche parallele, ad esempio serie in webinar realizzate in collaborazione con gli Enti Locali, corsi dedicati al mondo della formazione lavorativa, del mondo delle imprese, dei corsi di formazione post diploma superiore.

In compagnia dei lupi, Laboratorio Teatro di Sacco 2019-2020

Quali sono le vostre aspettative per il futuro anche a seguito della pubblicazione del nuovo decreto per il triennio 2022-2024 dove non si contemplano più stati di eccezionalità legate alla pandemia?

Diciamo che continuiamo ad essere ottimisti ma anche realisti: il nuovo decreto non risolverà la problematica legata agli investimenti del comparto culturale. In dettaglio: se si considera la fattispecie legata alla produzione teatrale di teatri medio-piccoli, un grande problema resta la gestione dell’attività di distribuzione. La pandemia ha solo scoperchiato il vaso di Pandora: le difficoltà del settore dello Spettacolo dal Vivo permangono a prescindere o meno dallo stato di emergenza dovuto alla pandemia. Si tratta di capire, oltre ai sostegni, come ripensare ad un sistema virtuoso che possa garantire sostenibilità al nostro settore.

Posto che il decreto è già uscito e quindi determinerà nel bene e nel male la vita della scena italiana per i prossimi anni, secondo la vostra opinione, cosa non si è fatto, o non si è potuto fare, in questi due anni per mettere le basi per un futuro diverso per il teatro italiano?

Come sempre, in Italia grande è la disattenzione verso il mondo delle periferie, come se la produzione culturale si concentrasse esclusivamente nelle grandi città. Esistono una serie di attività collaterali che rendono vivo e attivo un professionismo teatrale gestito con un profondo legame con il territorio, capace di produrre iniziative e progettualità che forse nei grandi ambiti metropolitani avrebbero un tempo e un luogo diverso nel costruirsi.

Il nostro progetto si articola non solo con repliche di spettacoli, ma con continua attività laboratoriale, di corsi dedicati a diversi comparti della formazione e comunicazione, oltre a un avviata e concreta progettualità europea e alla costruzione di eventi site specific, rassegne, festival e incontri non quantificabili sul piano delle logiche ministeriali, ma davvero cuore pulsante di un lavoro professionale che si muove su un intero anno di attività.

Costruire dei nuovi parametri per l’accesso ai contributi del Ministero della Cultura per supportare la produzione e l’intera progettualità di soggetti che operano in ambiti poliformi – quanto mai necessari per una sorta di resistenza globale delle arti performative in Italia- è assolutamente indispensabile. Un patto di sostegno per le periferie è una delle poche strade percorribili per restituire dignità lavorativa al di là di logiche spesso legate ad una rendicontazione numerica che non restituisce la forza e l’impatto dell’intera progettazione sull’intero territorio nazionale.

Allo stesso tempo anche il mondo degli osservatori critici del fenomeno teatro in senso lato, pur essendo ormai ridotti di numero e di reale impatto sulla “pubblica opinione”, dovrebbe dare un segnale forte verso una considerazione più allargata e realmente più attenta a raccontare il presente, come detto molto spesso “agito” in luoghi periferici, meno canonici del paese ma spesso degni di una maggiore “narrazione”.

CHI SIAMO

Il Teatro di Sacco è una compagnia teatrale professionale fondata nel 1985. Ha sede a Perugia dove gestisce uno spazio teatrale agibile nel centro storico della città dove si svolgono molte delle sue attività, rassegne, incontri, laboratori.

Produce spettacoli, eventi site specific, progetti europei, festival, progetti speciali.

Ha sempre creduto che glocal fosse un concetto significativo proprio per riconoscere l’unicità e la specificità di un luogo, un’idea, un progetto.

Dalla sua fondazione cerca di trovare una corrispondenza in una regione difficile, chiusa, isolata, trovando però altresì le stesse difficoltà, chiusure, isolamento anche in altri luoghi e in altri spazi di questo nostro piccolo paese teatrale, sempre più al margine dei processi culturali, della relazione con il pubblico, apparentemente sempre più richiuso a riccio dentro se stesso, incapace di fare “squadra” politico-culturale anche nel tempo della più grande crisi che il nostro sistema paese abbia mai attraversato.

Continua, comunque, a sognare.

Babilonia Teatri

IMPRESSIONI DI SETTEMBRE: TODI OFF E CASTEL DEI MONDI

Teatro non è solo un arte, è prima di tutto un luogo, quello da cui si guarda. Nel consumo frettoloso, nel vortice affollato di eventi, si dimentica un aspetto fondamentale del teatro: la contemplazione del luogo, il lasciarsi impregnare dallo spirito che anima il territorio. Non parlo quindi solo dell’edificio-teatro ma delle città, dei borghi, delle province, spesso molto periferiche rispetto a ipotetici centri d’attività e di potere, e quindi portatrici di dinamiche, problematiche e relative pratiche risolutive spesso originali, da studiare e capire. La consuetudine bulimica da ingordi ci porta invece a guardare e passare senza veramente vedere, e soprattutto capire, come turisti in crociera.

Se vogliamo recuperare un senso e una funzione al teatro, dobbiamo cominciare dalle piccole cose: dalla lentezza e dall’indugio per dar riposo all’occhio invece di saturarlo con bombardamenti di immagini senza soluzione di continuità. Il teatro è arte antica, necessita, nella creazione così come nell’osservazione, di tempo, bene sempre più messo a rischio in quest’era di capitalismo crepuscolare.

Questa volontà di recupero del tempo, sia di visione, che di chiacchiera, di conoscenza, di discussione anche accesa, è battaglia tutt’altro che agevole perché tutto congiura a favore della velocità, del frettoloso voltare pagina per rincorrere il prossimo evento, più fresco quindi più buono e bello solo perché più recente. Sembriamo tutti rincorsi dai Langolieri di Stephen King, creature fameliche divoratrici del passato prossimo. Siamo ormai esseri privi di storia.

La fretta ci fa divorare l’evento e trascurare il luogo. Vediamo tutto come avulso da un contesto, come se l’opera non si nutrisse di ciò che la circonda, soprattutto quando in trasferta, lontana da un pubblico amico e consueto. Per osservare, frequentare e conoscere ci vuole tempo. Come si può conquistare un pubblico in una sola sera? Che relazione si può trovare in così poco tempo? Questo vale certo per l’artista, ma anche per il critico che deve in qualche modo restituire quanto vede.

Un esempio delle disfunzioni generate dalla brevità congenita delle programmazioni e delle tenute dei cartelloni è La febbre di Veronica Cruciani da un testo di Wallace Shawn (drammaturgo e noto attore di tanti film di Woody Allen e Luois Malle) per l’interpretazione della sempre ottima Federica Fracassi.

Wallace Shawn

Il testo di Shawn è un lungo monologo, una riflessione autoaccusatoria sui privilegi di una certa casta benestante, democratica, colta, molto spesso cieca di fronte ai propri privilegi ottenuti grazie allo sfruttamento di molta parte del mondo. Una drammaturgia politica, forte, difficile da ascoltare per i toni appunto febbrili e ostica per le questioni che pone alla coscienza del pubblico. Il primo allestimento degli anni ’90 prevedeva un semplice reading in appartamento. In seguito il regista Robert Icke lo allestì in una suite di lusso al May Fair Hotel per 25 persone fornite di tutti i comfort, dalle bevande ai cioccolatini, il tutto per far immergere il pubblico stesso in una atmosfera di privilegio. Forse un po’ troppo. Come si dice in cucina: less is more. Veronica Cruciani opta per una soluzione più sobria e nello stesso tempo drammatica: un lussuoso bagno di camera d’hotel, inclinato paurosamente verso il pubblico. Un water dove vomitare, una vasca dove fare un bagno. Sul finestrone in fondale, anch’esso inclinato e aggettante, continue proiezione sfumate del corpo della Fracassi. L’attrice al centro della scena a intessere il proprio flusso di coscienza, sempre più piretico e convulso, alla ricerca delle complicità più sepolte, compiacendosi di risvegliare il sopito senso di colpa. Il problema è che la strada è senza uscita a meno di non rovesciare il sistema su cui si basa il sistema di privilegi di cui noi tutti siamo partecipi, e nessuno sembra, a oggi, disposto a scuotere l’albero dalle fondamenta,

Federica Fracassi In La febbre

Un allestimento dunque importante, ricco di questioni scomode, affrontato da una grandissima attrice ma in sala per una sola sera. Non è certo colpa del Todi Festival. Difficilmente i festival possono permettersi una tenuta di più di un giorno. Veniamo però a sapere che oltre a qualche data al Teatro India quest’autunno, un lavoro di questa portata non ha, per ora, altre piazze previste. Non pare un’assurdità? Un tale investimento creativo e di denaro per neanche dieci date? Come fa a crescere un lavoro con così poche repliche? Come fa a influenzare un dibattito se solo pochi lo vedranno? E come è possibile rientrare nell’investimento, ora che tanto si parla di impresa culturale, laddove viene impedito dal sistema stesso un rientro di cassa?

Questi sono alcuni dei temi di cui si è parlato proprio a Todi, nel convegno Se non ora, quando? condotto da Viviana Raciti durante il Todi Off diretto da Roberto Biselli. Critici, operatori, artisti, rappresentanti di categoria, titolari di progetti di residenza si sono confrontati in un pomeriggio di discussione. Ovviamente non basta parlare per poche ore. Si deve continuare il confronto e soprattutto ricercare un’unità d’intesa nello spettacolo dal vivo al di là dei corporativismi. Si deve lottare per ottenere un sistema equo non solo a livello contrattuale ma anche nel rispetto delle opere e dei repertori sempre più fagocitati dalla fretta di proporre novità. Solo essendo uniti si potrà confrontarsi con la politica in maniera efficace. Divisi non potremo che perdere terreno ogni giorno di più. E il franare costante è sotto gli occhi di tutti da un bel po’, ma si preferisce festeggiare per l’inserimento nel FUS o per l’ennesimo inutile premio.

Nel proseguire queste brevi riflessioni ci spostiamo da Todi direzione sud, verso Andria, sede del Festival Castel dei Mondi, diretto da Riccardo Carbutti. Andria è città molto viva, il centro animato e vissuto da giovani e meno giovani. Il Festival Castel dei Mondi si inserisce organicamente in questo vivace tessuto cittadino. Gli spettatori sono numerosi, grazie a Dio non di soli addetti ai lavori, ma di appassionati e curiosi di ogni fascia d’età. Un pubblico caloroso, partecipante e attento. Di fronte a Romeo e Giulietta. Una Canzone d’amore di Babilonia Teatri che oltre alla coppia Enrico Castellani e Valeria Raimondi vede in scena Ugo Pagliai, Paola Gassman e Simone Scimemi, questo pubblico, per una volta vivo davvero, ha percepito la grande umanità insita nel progetto e ha risposto con un sincero entusiasmo che da molto non vedevo in teatro.

Merito senz’altro di Babilonia Teatri che ha saputo restituire alla tragedia Shakespeariana tutta la sua bruciante vitalità al di là degli intellettualismi, dei dotti commentari, del marinettiano verminaio di glossatori. Romeo e Giulietta sono portati in scena da due vecchi attori Ugo Pagliai e Paola Gassman, e il racconto della loro relazione sentimentale lunga quasi mezzo secolo rivela l’amore dei due ragazzi. E così le parole di Shakespeare non sono solo poesia alta, ma parole che descrivono la quotidiana passione, aldilà degli anni e dei cliché. Fondamentale la presenza di Scimemi, mago e comico di grande levatura, la cui azione, da fool vero e proprio, crea i giusti stacchi ritmici ed emotivi, legando il sorriso alla commozione. Il pubblico ha capito e ha donato le proprie emozioni al palcoscenico che se ne è nutrito ricostruendo, una volta tanto, quel circolo virtuoso che fa grande l’arte dal vivo, dove l’opera diventa carne ed emozione e s’accresce nello scambio tra attori e spettatori.

Romeo e Giulietta Babilonia Teatri

Le istituzioni cittadine paiono essere presenti e vicine al festival e all’organizzazione, soprattutto la sindaca sempre partecipante, resta però purtroppo un calo dei sostegni e i finanziamenti risultano non adeguati per un evento che ha una storia di venticinque anni e una programmazione importante votata alla scoperta di giovani talenti nel corso del tempo (Ricci/Forte sono forse l’esempio più luminoso). La politica, locale, regionale o ministeriale che sia, ha il dovere civico di sostenere, gli eventi che hanno dato prova di costruire comunità e cultura per più di un ventennio. Mantenere il tessuto sociale costituito con tanta fatica è un imperativo di cui la politica in questo paese pare essersi dimenticata.

Il direttore artistico Riccardo Carbutti oltre alla programmazione, in cui quest’anno mancano gli stranieri proprio per la diminuzione dei fondi e per le restrizioni pandemiche, ma in cui spiccano Babilonia, Beradi/Casolari, Equilibrio Dinamico, Cantieri Koreja, Massimiliano Civica, ha voluto promuovere dei momenti di dibattito e confronto proprio per affrontare le criticità che attanagliano il sistema da ben prima del Covid e che quest’ultimo ha solo aggravato.

Di particolare interesse la proposta di costruzione di un’etica teatrale proposta da Andrea Cramarossa e Federico Gobbi de Il Teatro delle Bambole. Durante l’incontro è stato presentato il libro L’edera, per un’etica rampicante dello spettacolo, edito da Edizioni Corsare, pubblicazione che contiene parecchi spunti di riflessione su cui il comparto dovrebbe ragionare più attentamente. Il punto fondamentale, all’avviso di chi scrive, è la messa in rilievo del principio di responsabilità individuale: ogni scelta ha delle conseguenze che ricadono su tutti. Da qui la riflessione in cui un principio di sana etica lavorativa è; non prendere decisioni le cui conseguenze nefaste ricadano su tutto il comparto. La capacità di dire no di fronte a condizioni umilianti di lavoro sia a livello tecnico che contributivo è la chiave di volta. Un no che dovrebbe essere detto all’unisono per cancellare dalla lavagna i comportamenti abietti che continuano a perpetrarsi nel mondo dello spettacolo. Purtroppo perdurano proprio perché si accetta nonostante tutto, persino le offerte al ribasso pur di lavorare. Ovviamente non è solo questo. Gli aspetti etici del lavoro sono anche quelli comportamentali, di discriminazione di genere, la parità di contribuzione tra uomini e donne, e molto altro ancora. Immensa è la mole di lavoro da fare. C’è da ragionare per agire, di concerto, non divisi, per acquisire forza di fronte a una società che sta mettendo all’angolo i valori umanistici rispetto a quelli meramente tecnici.

Intrigante la riflessione di Alberto Oliva, regista milanese e giornalista, autore del libro Il teatro al tempo della peste. Modelli di rinascita. edito da Jaca Book. Oliva nel suo libro analizza in una prima parte le innumerevoli pesti che hanno chiuso i teatri nel corso della storia, confrontando ciò che stato con ciò che sta avvenendo; nella seconda parte propone invece una nuova alleanza con la politica per creare un teatro volto alla rinascita. La tesi è che senza il sostegno della politica, la sola forza dell’arte non basti a creare i presupposti per una vera rinascita. Oliva propone quindi un rinnovato pensiero politico sostenuto da quello artistico. La sua fiducia è certo contagiosa benché sia difficile trovare oggi nel panorama italiano un/a politico/a che faccia minimamente sperare in un pensiero illuminato riguardo agli affari culturali. Di certo Franceschini è figura quando più distante possibile da Elisabetta I d’Inghilterra. Forse è il momento di pensare ad aiutarci da soli trovando alternative all’appoggio istituzionale. Forse si deve tornare a essere carbonari, ritrovando quel senso di utopismo volto alla riforma della società tutta che in questi anni è mancato. Come diceva Eugenio Barba, nato in terra di Puglia, il teatro è “solitudine, mestiere, rivolta”.