Archivi categoria: storia

Influenze politiche nel declino delle arti dello spettacolo

|ENRICO PASTORE

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto. Queste parole dell’Ulisse dantesco dovettero risuonare nella mente di molti, artisti e non, quando l’entusiasmo per la rivoluzione bolscevica si scontrò con la seguente deriva autoritaria e stragista.

Le arti avevano salutato l’Ottobre del 1917 registrando l’entusiasmo solo di Mejerchol’d e Majakovskij, gli unici a presenziare all’incontro con Anatolij Lunačarskij per stabilire le linee d’azione della nuova arte socialista. Alla freddezza subentrò ben presto un entusiasmo gioioso. Le arti russe erano in festa, il baraccone prese vita e come in un’immensa fiera le più ardite sperimentazioni dilagarono per palcoscenici, piazze, università, fabbriche. Niente era precluso ai nuovi artisti sovietici. Tairov, e qualche altro con lui, aderirono solo di facciata continuando a perseguire i propri intenti poetici ed estetici, anche di fronte alle prime critiche, ma alla fine dovettero adeguarsi.

In generale l’atmosfera dei primi anni era festosa eppure, già con Lenin al potere, si stavano accumulando fosche nubi all’orizzonte. Anna Achmatova fu tra le prime a soffrire della censura dal 1921 al 1940. La sua famiglia fu sterminata. Il marito fucilato e il figlio imprigionato in un Gulag.

Con l’avvento di Stalin le cose andarono via via peggiorando. Anche l’arte venne inserita nei piani quinquennali, i commissari del popolo divennero sempre più invadenti cosi come le direttive del partito. Con gli anni ’30 iniziò il periodo del sospetto e della delazione. Persino Majakovskij fu preso di mira da quelle critiche poi addotte come causa del suo sospetto suicidio.

Il temuto NKVD dal 1934 divenne responsabile non solo della polizia segreta, ma di quella ordinaria e sotto la sua responsabilità rientravano i famigerati Gulag. Il 17 gennaio del 1936 venne creato il tristemente famoso Comitato per gli affari delle arti e da questo momento un’intera generazione di straordinari artisti venne fatta scomparire o ridotta al silenzio: Gor’kij fu avvelenato per ordine di Stalin, Mandel’stam morì nel 1938 in un Gulag presso Vladivostok dopo essere stato imprigionato due volte, Shostakovich fu accusato più volte sulla Pravda ma fu salvato dallo stesso Stalin; Ejzenštejn fu costretto a pubblica autocritica e affiancato da due commissari durante le riprese dell’Alexander Nevskij. Nonostante questo, la seconda parte di Ivan non passò la censura e fu sequestrato il girato anche del terzo episodio. Pavel Florenskij morì fucilato a Leningrado dopo una prigionia di sei anni in un campo di rieducazione. Delle disavventure di Bulgakov, compresa la telefonata di Stalin, si sa tutto. Il Maestro e Magherita rievoca con umorismo nero quel periodo di sudditanza delle arti e l’avvento dei mediocri al potere.

Mejerchol’d subì un vero travaglio. Incominciarono le calunnie mezzo stampa. Poi il convegno del 26 marzo del 1936 dove praticamente tutti i teatranti fecero atto di contrizione e il solo Mejerchol’d tenne la schiena dritta divenendo un paria. L’8 gennaio 1938 fu chiuso il teatro che portava il suo nome, gli amici gli voltarono le spalle. Solo Stanislavskij lo accolse con affetto al Teatro d’Arte. Il Maestro e l’eretico allievo si riunirono e Mejerchol’d ricambiò l’affetto portando a termine Rigoletto, ultima regia incompiuta del maestro. Con Stanislaskij morto niente si frappose alla catastrofe. Il 20 gennaio del 1939 fu arrestato. Il 15 luglio la moglie attrice Zinaida Rajch fu sgozzata in casa. Nel 1940, probabilmente in febbraio, in un luogo sconosciuto, il grande regista fu fucilato.

Si disse che un’intera nazione dissipò i propri poeti. Al posto di coloro che diedero vita alla più grande stagione teatrale russa e una delle più floride di tutti i tempi, si sostituirono i leccapiedi, i mediocri, tutti coloro che per pavidità accettarono di ridursi a megafoni del partito. Il circo e il baraccone furono dismessi. Al suo posto una noiosa sfilata di insignificanti burattini. Le compagnie teatrali vennero scompaginate, i migliori elementi zittiti. È il grande terrore staliniano, l’epoca dell’arcipelago Gulag e delle grandi purghe.

La politica ha da sempre avuto un grande impatto sullo sviluppo delle arti. Il caso sovietico e (parallelamente tedesco dal 1933 al 1945, il periodo fascista in Italia e la Spagna di Franco) non è l’unico caso nella storia dove a una grande fioritura è subentrato un periodo di grave involuzione. Pensiamo all’Inghilterra di Shakespeare, dove ai regni favorevoli al teatro di Elisabetta I e Giacomo I, segue un periodo dal 1642 al 1660 di chiusura totale in cui molti artisti furono costretti a cambiare mestiere o a emigrare. Oppure la Mantova dei Gonzaga, magnifico scenario di sperimentazione, distrutto e dissipato dalla guerra di successione e dal sacco del 1630. La decadenza culturale della città ridefinì completamente le rotte delle compagnie di giro.

In questi rivolgimenti a volte succede che se c’è qualcuno in perdita altri ne giovano. Gli Stati Uniti, grazie alla massiccia emigrazione degli artisti europei durante la Prima e Seconda Guerra Mondiale, da periferia del mondo artistico ne divennero il centro nevralgico. La Caduta di Costantinopoli nel 1453 se sancì il declino del mondo greco, favorì il Rinascimento fiorentino e italiano in genere.

Oggi certo siamo lontani dagli scenari dipinti da questi quadri storici eppure possiamo imparare molto da tali eventi e prepararci per evitarne gli effetti più nefasti. Infatti due sono le conseguenze di una cattiva politica: l’impoverimento del livello generale e l’emigrazione dei talenti migliori.

Il nostro presente subisce un ritrarsi delle arti da decenni non agevolate da una politica poco lungimirante e per di più fortemente ingerente sia negli ordinamenti economici sia negli argomenti. Da non sottovalutare gli effetti di una burocrazia farraginosa. Le modalità di finanziamento si sono fatte negli ultimi anni più stringenti, le direttive riguardo a ambiti di ricerca e struttura amministrativo-economica degli enti di cultura si fanno sempre più invadenti. Accettare tutto questo senza dar battaglia può essere estremamente pericoloso.

Le tragedie nascono da piccoli sì proferiti obtorto collo nella speranza che tutto si aggiusti col tempo. Ma accettare di abbassare la testa nelle minuzie porta a dover accettare carichi sempre più gravi. I miglioramenti bisogna volerli, i diritti non cadono dall’alto ma scaturiscono da una lotta, dall’unità e da una visione politica.

Oggi tutto questo sembra assente. La legge scadente che governa il triennio voluta da quel pessimo ministro della cultura che è stato Franceschini non verrà probabilmente emendata dal presente governo, decisamente reazionario rispetto a diritti, opportunità e libertà. Come ci comporteremo? Come nel convegno del 1936 in URSS? Oppure reagiremo? Sapremo dire no a nuovi gravami e limitazioni? O attenderemo silenti con le mani tese il rivolo di finanziamenti sempre più esiguo pur di continuare a lavorare anche se in pessime condizioni? Forse un dibattito che coinvolga tutti sarebbe auspicabile, ma sarà difficile in un sistema iperproduttivo che non lascia spazio e tempo alla riflessione e al dibattito. Dobbiamo essere coscienti di una sola cosa: il cambiamento sta a noi, la politica non sarà d’aiuto. Noi dovremo essere artefici di posizioni e orientamenti di una forza tale da far cambiare il vento.

Vachtangov Mejerchol'd

Mejerchol’d e Vachtangov: esperimenti drammaturgici tra tradimento e ammirazione

|ENRICO PASTORE

Il fallimento de Il Gabbiano di Čechov al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo il 17 ottobre 1896 può essere assunto come punto di partenza di una riflessione sul rapporto tra scena e drammaturgia nel corso della grande stagione teatrale che stava incominciando in quegli anni in Russia.

Dopo il clamoroso insuccesso, neanche a dirlo, Čechov dichiarò senza mezzi termini che non avrebbe mai più scritto né rappresentato suoi lavori. Per fortuna non tenne fede a quelle parole. Ma come era potuto accadere questo fiasco solenne?

La situazione nei teatri imperiali dell’epoca era nel migliore dei casi ingessata in vuote ritualità dove a farla da padrone erano gli attori mattatori. Il debutto de Il gabbiano naufragò proprio per i vizi insiti nel sistema produttivo dei teatri ufficiali: poche prove, grande spazio d’azione agli attori di grido, parti acquisite d’ufficio secondo l’importanza dell’interprete e non assegnate a seconda della coincidente sensibilità tra attore e personaggio. Poi c’era il fattore pubblico abituato a seguire i propri beniamini aspettandosi da loro rese drammatiche consuete e il testo di Čechov, con le sue tinte tenui, poco si adattava alle smargiassate comiche o alle ampollosità tragiche.

Non fu un caso dunque che l’unica attrice a brillare fu l’astro nascente Vera Kommissaržèvskaja nella parte di Nina. Vera mal soffriva il clima stantio dell’accademismo e il suo animo delicato, i suoi grandi occhi grigio-blu, era adatti per il personaggio immaginato da Čechov.

Quando Stanislavskij volle mettere in scena Il gabbiano e riuscì a superare le resistenze del drammaturgo, tutto cambiò. Ed erano passati a malapena due anni. Lunghe sessioni di prova, studio attendo dei personaggio (e non si pensi che il famoso “metodo” fosse già un corpus integro e formalizzato. Non lo fu nemmeno negli ultimi giorni di vita di Kostantin Sergèevic), attenzione ossessiva per gli arredi, i suoni, le suppellettili, le atmosfere. Soprattutto i silenzi, le famose pause espressive che fecero la storia e la fortuna del Teatro d’Arte. Da tutto questo scaturì un grande successo. A metterci del suo anche il pubblico moscovita che frequentava quel nuovo spazio teatrale seguendo con interesse quelle prime sperimentazioni sulla linea del nascente naturalismo e le illusioni della quarta parete.

L’inizio della nouvelle vague del teatro russo si misura tra questi due momenti opposti. A partire da questo istante e dalle regie cechoviane di Stanislavskij le cose iniziarono a muoversi in fretta. Dal sasso lanciato dal Teatro d’Arte si scatenò una frana destinata a riformare la scena russa ed europea negli anni a venire.

Facciamo scorrere la pellicola del tempo un poco più avanti e misuriamo un altro momento cruciale. E si parla di un altro fallimento dovuto ad altri fattori. Ma non anticipiamo i tempi. Siamo nuovamente a San Pietroburgo dove Vera Kommissaržèvskaja, scontenta dei metodi dei teatri imperiali e alla ricerca di nuove modalità più soddisfacenti per il suo talento d’attrice, decise di inaugurare un suo spazio nel 1904, il Teatro Drammatico, che visse solo due stagioni. Come regista chiamò Mejerchol’d, allievo eretico dei metodi del teatro d’arte. Vera Kommissaržèvskaja e il giovane regista, oltre al disgusto per le prassi consuete, nutrivano le loro perplessità sui metodi di Stanislavskij benché ne ammirassero i risultati. Da qui nacque la loro sintonia presto minata però dalle passioni di Mejerchol’d a quel tempo infervorato per gli esperimenti simbolisti.

In questa nuova temperie l’attore era schiacciato e sovrastato dai fondali dipinti, la recitazione aveva toni monodici, l’azione era spesso bloccata in fermo immagine per far risaltare il bassorilievo e il dipinto, e ovviamente il ruolo del regista cominciava a diventare preponderante rispetto all’interprete, ora irregimentato in una squadra e non più solitario fuoriclasse libero di spaziare dove il talento lo spingeva. Tutto questo infastidì pubblico e critica. Mejerchol’d fu bersagliato da un fuoco di fila. Lo si accusava di imbrigliare un talento immenso, e Vera Kommissaržèvskaja fu commiserata per essere caduta nelle mani di un dispotico carnefice.

Cominciò quindi la querelle mai sopita tra l’azione demiurgica del regista e la libertà creativa dell’attore. Inoltre l’orizzonte drammaturgico era cambiato: Čechov in Russia era già un classico e si guardava ai simbolisti: a Blok, Maetterlink, Crommelynch. E poi alla drammaturgia europea e nazionale volta allo scandaglio interiore: Ibsen, Claudel, Hauptmann, Wilde, Andreev. In pochi anni tutto cambiò e la storia scenica russa aveva in serbo altri rivolgimenti ancora più estremi.

Nel mezzo ci fu un altro clamoroso esperimento i cui risultati non furono pari alle attese. Anche Stanislavskij sentiva che l’aria stava cambiando e decise di invitare a Mosca Gordon Craig per dirigere l’Amleto. I progetti con gli screen e l’idea di un attore-marionetta mal si adattavano al Teatro d’Arte. In più motivi di budget e di spazio ridimensionarono l’esperimento. Sia Craig che Stanislavskij ne trassero una frustrante insoddisfazione, ma ciò che importa fu il tentativo di rinnovare la scena, di mettere in pratica nuove idee. Se una lezione può essere tratta si può riassumere così: come diceva Clausewitz i piani di battaglia funzionano fino al primo scoppio di cannone. E così due metodi si scontrarono con la realtà dei fatti: il teatro è luogo di adattamento continuo, nessuna regola resiste alla scena, Come diceva Mejerchol’d bisogna partire dal suolo. È quello l’elemento che detta le regole del gioco.

Con la Rivoluzione d’Ottobre la matassa si imbriglia ancor di più. Da una parte ci sono i classici, da riadattare secondo i nuovi dettami del socialismo, e dall’altra le nuove drammaturgie scritte pensando a un inedito teatro per nuovi pubblici per un mondo da costruire (da Majakovskij a Tret’jakov a Gor’kij, etc), e da ultimo le drammaturgie recenti, se non addirittura contemporanee, ma provenienti dall’Europa borghese e capitalista con cui confrontarsi. In questa atmosfera si delineano due elementi principali: da una parte i registi orientati a far parlare la scena con un linguaggio indipendente da quello della parola scritta, e quindi operatori di vere e proprie riscritture e riletture radicali; dall’altra l’influsso delle altre arti che andarono a modificare le concezione dello spazio e dei corpi. La pittura in primo luogo si assunse il ruolo di vera riformatrice dello spazio scenico (le impalcature nude e geometriche del costruttivismo, le geometrie suprematiste) e poi il cinema nella doppia natura di manipolante e manipolatore in questi anni in cui la settima arte ancora cercava un proprio codice di linguaggio e si confrontava con il teatro.

I confini sono labili, i dibattiti tra le arti sono accesi e le influenze agiscono dai tutti i lati. Il teatro si riempi di Charlot, di proiezioni e sottotitolature delle scene, mentre il cinema incamerava il Montaggio delle Attrazioni e nuove teorie dell’inquadratura. I ruoli di maestro e discepolo si scambiavano di continuo.

Certo è che il rapporto tra testo scritto e messa in scena in pochi anni si ribalta totalmente. Tra i tanti possibili esempi di questo processo di liberazione dalla soggiacenza dalla parola scritta ne sceglieremo tre che analizzeremo brevemente; ll Dibbuk e la Turandot di Vachtangov e Il revisore di Mejerchol’d.

Cominciamo da Vachtangov. I suoi inizi iniziarono sotto il segno di Stanislavskij e del suo discepolo più fedele Suleržickij. Questo santo pagliaccio, come veniva chiamato da Lunačarskij, era intimo di Tolstoj e anima candida dedita al vagabondaggio. Convertito al teatro da Stanislavskij egli cercò in ogni sua messa in scena di tirar fuori dai testi i buoni sentimenti, ciò che l’uomo, anche il più dissoluto, poteva aver di luminoso. In questo operava di scandaglio alla ricerca dell’anima del personaggio e incarnando quindi il”metodo” del suo maestro.

Vachtangov dopo tanta dedizione a tale prassi ebbe un moto di rivoluzione interiore e, come per reazione contraria all’azione di Suler, rivolgimento determinato dalla Rivoluzione d’Ottobre, eccolo trasformarsi in un regista antinaturalista alieno alle psicologie interiori e alla ricerca di una certa crudeltà alternata a momenti di gioiosa festa. Questo movimento pendolare è evidente nei suoi due lavori più importanti: il Dibbuk da An-ski (1922) e Turandot (1922).

Ne il Dibbuk Vachtangov partì dalla Bibbia e da lì trasformò il melodramma di An-Ski che tratta dell’amore infelice di Lea e Chanan, in un grande arazzo sociale nell’opposizione manichea tra ricchi e poveri, pregno di voglia di rivalsa dei diseredati, di bieco filisteismo degli agiati, di rabbia repressa. Dalle atmosfere dal profumo di incenso apprese da Suler, improvvisa si sente la puzza di zolfo di una crudeltà artaudiana ante litteram. Inoltre utilizzò accenti e parole ebraiche, una lingua dunque difficile da intendere per il pubblico russo, liberando il testo dal significato e realizzando quello Zaum incomprensibile caro ai Futuristi. Radlov dopo la visione dello spettacolo scrisse: «è la prova che il teatro è arte indipendente, distinta ed autonoma dalla letteratura, e che l’interprete può agire sul pubblico senza parole, con suono emotivo della sua voce e coi movimenti del corpo». In queste parole si vede quasi sovrapporsi alla figura di Vachtangov il fantasma futuro di Kantor.

Sia nella Turandot che ne il Dibbuk il regista russo ordì partiture gestuali per ogni interprete quasi a farne una coreografia più che una regia. E il testo divenne pretesto per invenzioni, danze, scene d’insieme. Lo psicologismo venne bandito in nome dell’artificio rappresentativo e se ne il Dibbuk i personaggi erano maschere infernali in Turandot si presentarono gli Arlecchini e gli Zanni (maschere di origine demonica lo ricordiamo) immersi in un Cina fiabesca, irreale.

In questo fraseggio furibondo o gioioso, l’azione non venne distaccata dal tempo presente: i riferimenti all’attualità politica, gli attacchi ai borghesi e ai leccapiedi, l’appoggio incondizionato ai deboli e agli oppressi. Inoltre non mancavano le citazioni come le imitazioni di danze alla Isadora Duncan. Quello che fu chiamato Realismo magico era un frullatore di influssi e influenze diverse di cui il testo di partenza si infarciva per diventare invenzione scenica e non interpretazione. Non ci si trovava di fronte all’ennesima messa in scena di una fiaba gozziana adattata ai tempi, ma all’invenzione di una nuova Turandot, così come il mondo di An-ski si trasformava in un luogo altro tra realtà e fantasia, tra gioco crudele e realtà aumentata.

Turandot, andata in scena in assenza di Vachtangov ormai sul letto di morte, fu visto da Stanislavskij che tra un atto e l’altro accorreva al capezzale del morente per fare i suoi più vivi complimenti. Il vecchio dunque più che al rigido Torkov, insegnate noioso e rigido tutto dedito al sistema da lui inventato, aveva le sembianze di Carmelo-Amleto quando afferma: “Metodo, metodo: che vuoi da me?”.

Interessante l’operazione di Mejerchol’d su Il revisore di Gogol (1926). Qui Mejerchol’d va oltre Vachtangov prendendo in considerazione non solo il testo originale 1835 senza le revisioni posteriori del 1842, ma l’intera opera di Gogol, da Le anime morte ai racconti. La sua regia è un montaggio cinematografico di quindici episodi di un universo gogoliano, quindici quadri la cui relazione fomentava nuovi sensi e nuovi sguardi. In ognuno di questi Mejerchol’d ricorse a tutto il vocabolario biomeccanico, dalle pantomime, alle danze, ai numeri circensi, imbastendo una tragedia buffa che criticava pesantemente la burocrazia nascente.

L’azione si sposta da un lontano governatorato di provincia a Pietroburgo e Chlèstakòv, colui che viene scambiato per il revisore, diventa una maschera anticipatrice del Wolan ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, una sorta di demone pronto a scombinare il mondo e farlo cadere mettendo le fondamenta per una ricostruzione. Il revisore diventa una tragedia buffa e si comincia ad avvertire il sentore di un incancrenirsi della gioiosa macchina rivoluzionaria.

Tra fallimenti e trionfi il teatro russo dei primi tre decenni del secolo appare come un’immensa fucina di sperimentazione. Tutto era lecito per inventare un nuovo mondo e un nuovo teatro. Ogni tradizione, ogni tradimento. Che fosse un testo appena dato alle stampe o un classico inossidabile, era sempre il teatro a trionfare. Che si cercasse il vero psicologico del personaggio o lo straniamento più assoluto, era la scena con i suoi artifici a emergere. Nessun vincolo, nessuna restrizione. Almeno per qualche tempo. Poi subentrò la politica, l’ortodossia e spazzò via tutta una generazione di grandi poeti.

Oggi dobbiamo guardare a quella stagione di eroici furori creativi senza esaltazione e senza archiviarla come qualcosa di passato e vecchio. Si può trarre insegnamento dal quel vagabondare da un estremo all’altro, comprendere che non c’è regola, non c’è routine, se si vuole assistere a un grande teatro. Ciò che occorre è la curiosità infaticabile di uno Stanislavskij, insegnante e allievo dei propri discepoli, ribelle alle sue stesse regole e manie, come Bach, pronto a violare le sue stesse leggi. Come diceva Picabia: «se si vuole avere idee proprie, occorre cambiarle come le camice».

Oscuri oggetti del desiderio

Oscuri oggetti del desiderio sulla Prospettiva Nevskij

|ENRICO PASTORE

Chi sarà stato il primo a cominciare? È impresa impossibile determinare il paziente zero in campo storico. Sarà stato Hofmannsthal nella Lettera di Lord Chandos (1902)? O forse Van Gogh e le sue scarpe da lavoro (1886)? Forse le madeleines di Proust (1913)? Oppure, e curiosamente, i ready-made di Duchamp nati al mondo sempre nell’anno 1913?. Di sicuro nel nascente Novecento l’oggetto comincia ad assumere una strana centralità, tanto ispirare a Freud un saggio su Il Perturbante (1919) in cui si analizza la capacità delle cose di assumere aspetti inquietanti qualora poste in un contesto improprio, inusuale. E non a caso ne Il cruccio del padre di famiglia di Kafka è Odradek a portare scompiglio e inquietudine: un animale-oggetto, parlante a forma di stella e simile a un rocchetto di filo, senza scopo alcuno e che sopravviverà al padre e probabilmente anche ai figli.

Già Lord Chandos di fronte all’erpice e all’innaffiatoio, di fronte a queste cose insignificanti, scorgeva il bagliore dell’infinito. E il linguaggio balbettava, veniva meno. Le cose cominciano a minare nel profondo le nostre aspettative.

Se ci spostiamo verso est, a Mosca, sul palco del Teatro d’Arte fondato da Stanislavskij e Nemiròvič-Dančenko nel 1898 scorgiamo un certo tramestio d’oggetti di scena, una ricercare minuzioso da rigattiere o antiquario, una ricerca di cose necessarie alla rappresentazione. Stanislavskij aveva una passione smodata per tali ricognizioni da collezionista ossessivo, tanto da compiere lunghi viaggi insieme alla compagnia pur di trovare i giusti arredi, le chincaglierie, le lampade, i posacenere o i portaombrelli.

La scena nelle sue regie veniva intasata di oggettistica, persino in luoghi e angoli non veramente visibili dallo spettatore, o forse solo all’attenzione di qualche binocolo da teatro particolarmente curioso. E questo esser minuziosi, passato per decenni in giudicato come parte del sistema delle reviviscenze, quindi intriso di un’ovvia e specifica raison d’être, suscita una certa perplessità. Era tutto veramente necessario? oppure l’oggetto cominciava ad affascinare anche il teatro in maniera inquietante e a portare sul palcoscenico il suo linguaggio da Odradek?

Stanislavskij andava al di là dei Meininger e alle loro noiose riproduzioni-specchio. Vi era sicuramente una volontà di ricerca di una via d’accesso emotivo al personaggio, inclinazione certo ondivaga nelle sue continue evoluzioni di pensiero registico (ricordiamo che il vecchio patriarca insegnò ma imparò anche dei suoi allievi talentuosi, soprattutto Mejerchol’d e Vachtangov, tanto da difendere il primo quando la censura staliniana si accanì contro di lui, e ad accorrere al capezzale del secondo per portare i suoi complimenti dopo la prima di Turandot), ma forse inconsciamente avvertiva la possibilità che le cose potessero in qualche modo essere linguaggio a sé capaci di integrarsi con la parola e riempire quei vuoti di cui credeva il testo fosse colmo.

L’uomo passato alla storia per il famoso: «Non ci credo!», e poi ingessato dal verminaio di glossatori, non solo sovietici, nello stereotipo del naturalista ossessivo compulsivo, in realtà affermava vigorosamente: «Mi piace escogitare in teatro diavolerie. Mi rallegro se riesco a trovare dei trucchi che ingannino lo spettatore». La mimesis complottava con l’artificio della rappresentazione e le cose erano il suo principale strumento d’azione dinamitarda.

Da oggetti d’uso eccoli diventare marca e segno, parola silenziosa integrata col testo, finanche occasioni irripetibili di riflessione filosofica come i manichini di Bruno Schultz. Persino l’oggetto sonoro: il canto dei grilli, le mosche, i cigolii delle porte che tanto marcarono le sue famose regie cechoviane (e non piacevano al drammaturgo) anticipano, e di molto, la musica concreta, il secchio rotolante di Schaeffer, la passione futurista per il fracasso dirompente, l’esaltazione cageana dei rumori a pari dignità con le note musicali.

L’oggetto, materiale o sonoro, diventa linguaggio e non, come nel passato, un semplice rimando a qualcosa d’altro da sé come nell’allegoria o nel simbolismo, ma semplicemente essendo, ponendosi però fuori contesto. Bastava questo scostamento apparentemente innocuo a minare le certezze a far scaturire la lingua della realtà materiale. L’arte e il teatro scoprono questo brusio sommesso e, fino a quel momento, inascoltato del reale che ci circonda e questo accade proprio nel momento in cui l’industria comincia a inondarci di oggetti per lo più inutili, bizzarri, bellini o kitsch. L’arte comincia a porsi problemi filosofici ed esistenziali proprio a partire dall’oggettualità delle cose. Esse sono, ma cosa sono? Lo sguardo comincia a posarsi all’infuori del cuore e della mente proprio quando la drammaturgia aveva iniziato a scandagliare gli abissi dell’animo (e subito dopo reagisce discostandosi).

Il vecchio Kostantin Sergeèvič fu solo l’iniziatore di una modalità presto acquisita non solo dai suoi eretici allievi (Mejerchol’d sia nel chiasso del baraccone così come nella secchezza costruttivista e Vachtangov con il suo realismo magico), ma persino dai suoi detrattori. Se infatti nel festoso circo della Mejercholdia l’oggetto è imperatore della scena insieme alla grammatica corporea della biomeccanica farcita da iniezioni di tradizione eteroclita, i cubofuturisti si fecero cantori della realtà attraverso le cose. Si pensi ai poemi di Majakovskij: i calzoni che scappano, le lancette pronte a rizzarsi sul cucuzzolo del tempo, le nere fauci di un comò, i camini danzanti. Le cose rivelano le trame nascoste del reale e giocano con la nostra inquietudine generata dalla disarticolazione dell’abituale e del consono.

I costruttivisti e i suprematisti furono colti poi da un vero feticismo dell’oggetto quotidiano facendolo diventare, con il fattualismo, tela su cui imprimere geometrici giochi di colore. I treni, gli autobus, le pentole e i mestoli, tutto diventa luogo per inarcare le pieghe della realtà e scoprire le infinite possibili combinazioni di significati nascosti.

Questo feticismo dell’oggetto sembra dilagare in ogni dove: dalle tautologie perturbanti, al canto del progresso industriale, e infine tra coloro che li usavano come grimaldelli per far esplodere il linguaggio o aprire passaggi segreti nella memoria.

Non vi è avanguardia a partire da questo momento che non rivolga la sua attenzione alle cose: dada come sorpresa iconoclasta, il surrealismo come chiave d’acceso all’inconscio, e poi le pipe che non sono più solo pipe, le scope uscenti dalle tele, bottoni e carte da gioco inserite nelle corde dei pianoforti, zuppe di pomodoro icone del pop, cose incartate, manichini metafisici, macchine accartocciate, fino ai relitti di Kantor, quei rottami parlanti di un mondo negletto ma presente, malinconici nel ricordarci la presenza costante della morte. I negozi da rigattiere di Stanislavkij si aprono persino tra le discariche e i cassonetti. Non vi è più luogo in cui giacciano oggetti su cui non si posi lo sguardo della ricerca artistica.

Oggi tutto questo ruminare filosofico intorno alle cose è diventato difficile e un poco farraginoso. Si ritorna in luoghi già frequentati, le miniere sembrano aver esaurito i filoni aurei. Inoltre l’estetica dilaga persino tra gli scovolini da cesso tanto da rendere difficile quella indifferenza, quel :«ridurre il mio gusto personale a zero» di cui parlava Duchamp per scegliere a caso e nel disinteresse. Il bello diffuso fa scomparire anche la meraviglia e la passione, quella che infervorava la duchessa di Guermantes quando parla delle vestaglie di Fortuny. Inoltre a complicare il panorama c’è il mondo digitale a offrire congiuntamente opportunità e ostilità, allargando e nello stesso tempo riducendo il mondo del possibile. In quel mondo le cose si dematerializzano, perdono grana, acquisendo la capacità di replicazione di un virus e, al contrario di Odradek, la durata di vita di una falena.

Come si scappa dall’ovvio e dal consueto? È una domanda che mi rivolgono spesso molti giovani teatranti e danzatori che provano a ragionare sulla natura delle cose. È difficile rispondere a una questione che andrebbe indagata in profondità. In scena oggi gli oggetti latitano (ovviamente vi sono numerose eccezioni si pensi solo a Agrupation Señor Serrano) e nella loro presenza sono insipidi, trasparenti, privi dell’opacità che li possa rendere perturbanti. Soprattutto diventano stampella della parola: dico pallone ed entra un pallone in scena. Si è dimenticata in molti casi la lezione aurea di Kandiskij la quale recita che in arte uno più uno da zero. Soprattutto manca la meraviglia di cui parlava Stanislavkij e di conseguenza manca il contrappunto tra parola, immagine e azione.

Perché gli oggetti tornino ad essere oscuri oggetti del desiderio, affinché diventino macchine libidiche, bisogna tornare a ragionare sul loro ruolo, non solo sulla scena e nella drammaturgia, ma nella nostra realtà aumentata. Occorre ritornare a meditare su “l’ineludibile modalità del visibile” di cui parla Joyce nell’Ulisse. Dobbiamo dunque farci sodali con Stephen e accompagnarlo sulla spiaggia a rimuginare sul mistero delle cose.

Charlie Chaplin The Circus

Il palcoscenico squassato dai falò del circo

|ENRICO PASTORE

Il 21 giugno 1919 Anatolij Lunačarskij introduce il circo nei programmi del Narkompros, Commissariato del Popolo per l’istruzione. La sua è un’intelligente presa d’atto di un’epidemia in corso da molto tempo e che dilaga per tutta l’Europa teatrale.

Se vogliamo cercare un paziente zero potremmo fare il nome di Marinetti con cauta sicurezza, anche se il mondo circense affascinava da tempo. Pensiamo a I pagliacci di Leoncavallo, al Pierrot Lunaire di Schönberg, ai simbolisti (Blok su tutti), Chagall e Picasso. I cubofuturisti russi si appellavano però all’autorità di “nonnino Marinetti” citando i suoi manifesti: il primo del 1909, e poi il Teatro di Varietà del 1913 e il Teatro Futurista sintetico del 1915.

Quello che affascinava nel credo marinettiano era l’appello alla fisicofollia, alle sorprese del Teatro di varietà, gli acrobatismi, l’abolizione della distanza tra palco e platea e, soprattutto, nessuna analisi psicologica del personaggio e del testo.

I cubofuturisti russi si presentavano già alla vista come una sorta di circo clownesco: Majakovskij vestito di giallo e rosso, Chlebnikov lacero e sbrindellato con una federa piena di manoscritti da portarsi appresso, la Larionova e David Burliuk si dipingevano la faccia di astratti geroglifici. Non mancavano le strane bombette, gli sgargianti panciotti, le gorgiere secentesche. Il mondo artistico che stava nascendo, lo faceva in maschera e in allegria colpendo i preconcetti e le sicurezze dei benpensanti. Punin senza mezzi termini dichiara: «non c’è stato ancora un movimento letterario così virtualmente ricco di clownismo, come quello futurista»

Tra Majakovskij e il circo fu amore a prima vista Arrivò persino a recitare i suoi versi in groppa a un elefante. Amò non solo quello classico con i pagliacci, i forzuti, gli acrobati e i freaks, ma quello popolare russo, gli spettacoli da fiera popolare, i cantastorie, la maschera manesca e truffaldina di Petruška (per inciso il balletto di Stravinskij danzato da Nijinskij su coreografia di Fokine è del 1910). Troviamo riferimenti a quel mondo dei tendoni e di fiere nei versi, negli scritti, nelle conferenze e soprattutto negli spettacoli di cui scrisse i testi, ma anche di quelli di cui si interessò di regia e messinscena. Il poeta Igor Il’inskij scrisse: «Le “feeries” del baraccone di Lentovskij, al quale deve molto anche la tecnica scenica del teatro d’Arte, gli spettacoli delle fiere russe coi “petruški”, i pagliacci, i diavoli che sprofondano sotto terra: tutte queste forme teatrali autenticamente popolari entrarono in modo organico nella concezione drammatica di Majakovskij».

Di certo Mistero buffo fu quello che più di ogni altro era intriso di tutti questi elementi, esaltati poi dalla regia biomeccanica di Mejerchol’d il quale, oltre a designare l’attore come “clown analitico”. aveva sostituito Blok con Majakovskij come spirito guida dopo aver lanciato il suo Ottobre Teatrale. Con Mejerchol’d si passa dal circo al baraccone ossia un misto tra esperimenti moderni e tradizione popolare. L’idea politica non era semplificare o abbassare il livello culturale, come si direbbe oggi, ma quello di fornire delle basi popolari ai nuovi linguaggi avanguardisti per l’incontro con il nuovo pubblico operaio della nascente Unione Sovietica.

Lo stesso intento politico animava anche Brecht quando desumeva le sue modalità sceniche dall’operetta. dal cabaret o dal music-hall: usare il pop o, meglio, intriderlo di sperimentalismo per incontrare lo spettatore come a un incontro di pugilato attraverso trovate, meraviglie, gioiose arlecchinate e pasquinate. È nota la collaborazione di Majakovskij con il famoso clown Lazarenko, i cui sketch erano un misto di clownerie e bollente satira politica.

Il circo si inserì in quasi ogni ricerca artistica del primo periodo sovietico, non vi era artista che non provò a confrontarsi con il genere, usandolo e inserendolo nelle proprie trovate registiche o addirittura per promuovere nuove teorie. Pensiamo al saggio sul Montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (che non dimentichiamo era allievo di Mejerchol’d): « fare un buono spettacolo (dal punto di vista formale) significa costruire un buon programma di music-hall e di circo, muovendo dalle situazioni della commedia su cui ci si fonda».

I clown li troviamo anche al Mastfor nato nel 1920 per opera di Foregger e Mass (dove collaborò assiduamente Ejzenštejn), al Teatro di Commedia Popolare di Radlov, sempre venuto alla luce nel 1920 e dove collaborarono due importati artisti circensi come l’augusto Georges Dal’vari e l’acrobata e fantasista Aleksandrov, e infine il FEKS di Kozinkov e Trauberg. Lo scopo di tutti costoro era come diceva Arenenko sminuzzare il teatro in frantumi.

Quale tipo di clown avevano in mente a quell’epoca? Il primo passo era infatti costruire un nuovo tipo di maschera che rappresentasse l’epoca nascente, l’industria, la velocità, l’afferemarsi del potere delle masse. Il riferimento fu subito al cinema, a Charlie Chaplin in primissima battuta (The circus del 1928 fu per altro uno dei suoi film più apprezzati), ma anche Buster Keaton per la sua impassibile e granitica capacità di affrontare qualsiasi periglio.

Altro influsso importante venne decisamente dalla pittura, dal suprematismo soprattutto. Figure geometriche, cubi e coni, divennero costumi, così come giocosi arabeschi divennero trucchi sul viso. E da ultimo, come detto, il mondo della rivista, del music-hall e del cabaret. A Mosca e Pietroburgo a quell’epoca, e soprattutto, immediatamente prima lo scoppio della rivoluzione, imperversavano le pazzie notturne e i matrimoni artistici impossibili e impensabili. A Mosca a dar vita a Il pipistrello, animato dai più accesi sostenitori del naturalismo, gli attori del Teatro d’Arte. Partecipava di buon grado persino Stanislavskij, il quale aveva sempre avuto una passione smodata per le mascherate e gli scherzi. A Pietroburgo invece troviamo La casa degli Intermezzi, tana del mondo della Mejercholdia, e Il cane Randagio dove si riunivano i poeti da Majakovskij, alla Achmatova. da Mandel’stàm a Marina Cvetava.

È superfluo ricordare come nei cabaret da Parigi a Zurigo, da Roma a Pietroburgo sia nata molta della grande arte dell’inizio del Novecento da Dada a Petrolini, dal Futurismo al grande teatro di Bertold Brecht. Oggi forse si è un poco supponenti rispetto ai generi minori, ai luoghi di rappresentazione popolari, magari equivoci. Eppure si deve ricordare che al centro non nasce nulla, è al confine che accadono le cose.

Il nostro presente richiama spesso l’ibridazione tra le arti, persino nei bandi e leggi di finanziamento, eppure il melting pot, benché non manchi è decisamente sterile, manierista e manca di quella gioia di sperimentazione di quell’epoca lontana. Il circo contemporaneo, almeno in Italia, si limita per la gran parte a costruire drammaturgie per accostamento di numeri di abilità tenuti insieme da una labile storia. Per trovare esperimenti interessanti volti a innovare il linguaggio anche attraverso un orizzonte politico, bisogna varcare le Alpi e dirigersi in Francia, in Inghilterra, in Belgio.

Ancora una volta bisogna rimarcare una mancanza di organicità nella ricerca e l’uso di parole come multidisciplinarietà come vuoti mantra, senza una visione che spinga l’operare verso direzioni inusuali, impreviste, impensate.

Raccogliamo invece l’invito di quel ricco e fervido passato dove le arti tutte convergevano in ricerche comuni. Quali feconde possibilità potrebbero nascere dallo scambio e connubio di tecniche circensi, teatrali e coreutiche. Si parla tanto di sharing training ma questo avviene solo all’interno di un’arte, la danza. Si potrebbe allargare il progetto, aprirlo e favorire dialoghi tra arti diverse.

Quali e quanti benefici invece per l’arte circense se drammaturghi, registi e coreografi mettessero a disposizione le proprie tecniche e idee al servizio di un’arte tanto antica e colma di tradizione?

Per mettere in opera una ricerca davvero fruttuosa occorre innanzitutto che Ministero e Siae, alla faccia dell’invito alla multidisciplinarietà, permettano seriamente l’incrocio e l’ibridazione invece di congelare gli ambiti e le domande ai singoli generi separati. In seconda battuta serve il tempo, materiale primario, i luoghi di sperimentazioni da frequentarsi assiduamente e non per brevi e sporadiche residenze, e soprattutto di idee e pensieri subordinati al tempo da dedicare allo studio e all’affinamento di tecniche inusitate. Il passato in questo è una grande miniera. Un luogo dove attingere modalità, utopie, pratiche, stilemi, non per copiare ma per derivare e spillare linfa vitale per nutrire il presente e costruire un futuro. Occorre conoscere per innovare, usare un sapere non scolastico ma eretico, dissacrante, audace. È necessario scovare le possibilità offerte dalle nuove culture popolari, senza schizzinoseria o alterigia, e solo così sarà possibile ricostruire un nuovo rapporto con il pubblico e una diversa funzione in un modo crepuscolare e in una società in perenne cambiamento. Soprattutto bisogna ritrovare la gioia nonostante le difficoltà, la contentezza e la festosità dissacranti nei riguardi di riti stantii e polverosi.

Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.