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Influenze politiche nel declino delle arti dello spettacolo

|ENRICO PASTORE

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto. Queste parole dell’Ulisse dantesco dovettero risuonare nella mente di molti, artisti e non, quando l’entusiasmo per la rivoluzione bolscevica si scontrò con la seguente deriva autoritaria e stragista.

Le arti avevano salutato l’Ottobre del 1917 registrando l’entusiasmo solo di Mejerchol’d e Majakovskij, gli unici a presenziare all’incontro con Anatolij Lunačarskij per stabilire le linee d’azione della nuova arte socialista. Alla freddezza subentrò ben presto un entusiasmo gioioso. Le arti russe erano in festa, il baraccone prese vita e come in un’immensa fiera le più ardite sperimentazioni dilagarono per palcoscenici, piazze, università, fabbriche. Niente era precluso ai nuovi artisti sovietici. Tairov, e qualche altro con lui, aderirono solo di facciata continuando a perseguire i propri intenti poetici ed estetici, anche di fronte alle prime critiche, ma alla fine dovettero adeguarsi.

In generale l’atmosfera dei primi anni era festosa eppure, già con Lenin al potere, si stavano accumulando fosche nubi all’orizzonte. Anna Achmatova fu tra le prime a soffrire della censura dal 1921 al 1940. La sua famiglia fu sterminata. Il marito fucilato e il figlio imprigionato in un Gulag.

Con l’avvento di Stalin le cose andarono via via peggiorando. Anche l’arte venne inserita nei piani quinquennali, i commissari del popolo divennero sempre più invadenti cosi come le direttive del partito. Con gli anni ’30 iniziò il periodo del sospetto e della delazione. Persino Majakovskij fu preso di mira da quelle critiche poi addotte come causa del suo sospetto suicidio.

Il temuto NKVD dal 1934 divenne responsabile non solo della polizia segreta, ma di quella ordinaria e sotto la sua responsabilità rientravano i famigerati Gulag. Il 17 gennaio del 1936 venne creato il tristemente famoso Comitato per gli affari delle arti e da questo momento un’intera generazione di straordinari artisti venne fatta scomparire o ridotta al silenzio: Gor’kij fu avvelenato per ordine di Stalin, Mandel’stam morì nel 1938 in un Gulag presso Vladivostok dopo essere stato imprigionato due volte, Shostakovich fu accusato più volte sulla Pravda ma fu salvato dallo stesso Stalin; Ejzenštejn fu costretto a pubblica autocritica e affiancato da due commissari durante le riprese dell’Alexander Nevskij. Nonostante questo, la seconda parte di Ivan non passò la censura e fu sequestrato il girato anche del terzo episodio. Pavel Florenskij morì fucilato a Leningrado dopo una prigionia di sei anni in un campo di rieducazione. Delle disavventure di Bulgakov, compresa la telefonata di Stalin, si sa tutto. Il Maestro e Magherita rievoca con umorismo nero quel periodo di sudditanza delle arti e l’avvento dei mediocri al potere.

Mejerchol’d subì un vero travaglio. Incominciarono le calunnie mezzo stampa. Poi il convegno del 26 marzo del 1936 dove praticamente tutti i teatranti fecero atto di contrizione e il solo Mejerchol’d tenne la schiena dritta divenendo un paria. L’8 gennaio 1938 fu chiuso il teatro che portava il suo nome, gli amici gli voltarono le spalle. Solo Stanislavskij lo accolse con affetto al Teatro d’Arte. Il Maestro e l’eretico allievo si riunirono e Mejerchol’d ricambiò l’affetto portando a termine Rigoletto, ultima regia incompiuta del maestro. Con Stanislaskij morto niente si frappose alla catastrofe. Il 20 gennaio del 1939 fu arrestato. Il 15 luglio la moglie attrice Zinaida Rajch fu sgozzata in casa. Nel 1940, probabilmente in febbraio, in un luogo sconosciuto, il grande regista fu fucilato.

Si disse che un’intera nazione dissipò i propri poeti. Al posto di coloro che diedero vita alla più grande stagione teatrale russa e una delle più floride di tutti i tempi, si sostituirono i leccapiedi, i mediocri, tutti coloro che per pavidità accettarono di ridursi a megafoni del partito. Il circo e il baraccone furono dismessi. Al suo posto una noiosa sfilata di insignificanti burattini. Le compagnie teatrali vennero scompaginate, i migliori elementi zittiti. È il grande terrore staliniano, l’epoca dell’arcipelago Gulag e delle grandi purghe.

La politica ha da sempre avuto un grande impatto sullo sviluppo delle arti. Il caso sovietico e (parallelamente tedesco dal 1933 al 1945, il periodo fascista in Italia e la Spagna di Franco) non è l’unico caso nella storia dove a una grande fioritura è subentrato un periodo di grave involuzione. Pensiamo all’Inghilterra di Shakespeare, dove ai regni favorevoli al teatro di Elisabetta I e Giacomo I, segue un periodo dal 1642 al 1660 di chiusura totale in cui molti artisti furono costretti a cambiare mestiere o a emigrare. Oppure la Mantova dei Gonzaga, magnifico scenario di sperimentazione, distrutto e dissipato dalla guerra di successione e dal sacco del 1630. La decadenza culturale della città ridefinì completamente le rotte delle compagnie di giro.

In questi rivolgimenti a volte succede che se c’è qualcuno in perdita altri ne giovano. Gli Stati Uniti, grazie alla massiccia emigrazione degli artisti europei durante la Prima e Seconda Guerra Mondiale, da periferia del mondo artistico ne divennero il centro nevralgico. La Caduta di Costantinopoli nel 1453 se sancì il declino del mondo greco, favorì il Rinascimento fiorentino e italiano in genere.

Oggi certo siamo lontani dagli scenari dipinti da questi quadri storici eppure possiamo imparare molto da tali eventi e prepararci per evitarne gli effetti più nefasti. Infatti due sono le conseguenze di una cattiva politica: l’impoverimento del livello generale e l’emigrazione dei talenti migliori.

Il nostro presente subisce un ritrarsi delle arti da decenni non agevolate da una politica poco lungimirante e per di più fortemente ingerente sia negli ordinamenti economici sia negli argomenti. Da non sottovalutare gli effetti di una burocrazia farraginosa. Le modalità di finanziamento si sono fatte negli ultimi anni più stringenti, le direttive riguardo a ambiti di ricerca e struttura amministrativo-economica degli enti di cultura si fanno sempre più invadenti. Accettare tutto questo senza dar battaglia può essere estremamente pericoloso.

Le tragedie nascono da piccoli sì proferiti obtorto collo nella speranza che tutto si aggiusti col tempo. Ma accettare di abbassare la testa nelle minuzie porta a dover accettare carichi sempre più gravi. I miglioramenti bisogna volerli, i diritti non cadono dall’alto ma scaturiscono da una lotta, dall’unità e da una visione politica.

Oggi tutto questo sembra assente. La legge scadente che governa il triennio voluta da quel pessimo ministro della cultura che è stato Franceschini non verrà probabilmente emendata dal presente governo, decisamente reazionario rispetto a diritti, opportunità e libertà. Come ci comporteremo? Come nel convegno del 1936 in URSS? Oppure reagiremo? Sapremo dire no a nuovi gravami e limitazioni? O attenderemo silenti con le mani tese il rivolo di finanziamenti sempre più esiguo pur di continuare a lavorare anche se in pessime condizioni? Forse un dibattito che coinvolga tutti sarebbe auspicabile, ma sarà difficile in un sistema iperproduttivo che non lascia spazio e tempo alla riflessione e al dibattito. Dobbiamo essere coscienti di una sola cosa: il cambiamento sta a noi, la politica non sarà d’aiuto. Noi dovremo essere artefici di posizioni e orientamenti di una forza tale da far cambiare il vento.

Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.

Dario Franceschini

LETTERA APERTA AL MINISTRO DARIO FRANCESCHINI

Gentile On. Ministro Dario Franceschini,

mi permetto di scriverle queste poche righe in seguito alla decisione, inserita nell’ultimo DPCM, di chiudere i teatri e i cinema considerandoli attività non essenziali. Mi rivolgo a lei cercando, nel mio piccolo di storico del teatro, di farle comprendere come in realtà proprio il teatro sia stato, nei momenti più drammatici della storia recente, l’attività umana tra le più necessarie. Mi permetta di farle pochi ma significativi esempi: in Russia tra il 1917 e il 1922, in una nazione alle prese con la Rivoluzione d’ottobre, la fine della Prima Guerra Mondiale e la seguente guerra civile, immersa in una crisi economica senza precedenti, si trovò proprio nel teatro e per opera di artisti straordinari come Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Ejsenstein, Tairov, un luogo dove immaginare un futuro e un mondo. E il pubblico non mancava perché sapeva di poter trovare in mezzo a tanti drammi un luogo dove tutto poteva essere ripensato. E poi durante l’Olocausto il teatro accompagnò gli ebrei nei campi di sterminio, non solo ad Auschwitz, ma a Dachau, Theresienstadt, Sachsenhausen, Malines, Westerbork. In quasi ogni campo i prigionieri, immersi nel più grande male che l’uomo abbia commesso, trovavano conforto nel teatro, e questo proprio laddove non avevano niente, nella più assoluta fragilità. Da ultimo le ricordo che nella città di Sarajevo assediata i teatri rimasero aperti e frequentati nonostante i bombardamenti e i cecchini cetnici e questo perché, caro ministro, fin dalle origini dell’Occidente, all’alba radiosa della grecità, il teatro è stato il luogo primario della nascita dell’agorà, dove la comunità si riuniva per metabolizzare le crisi che la attraversavano.

Necessari il teatro e la danza lo sono, come vede, fin dal principio, e li troviamo presenti nei luoghi di maggior dolore e complessità della storia recente. Questa necessità Signor Ministro la può constatare non tanto nei teatri stabili o dei teatri lirici, ma soprattutto delle piccole realtà, quelle di periferia e di provincia, spazi in cui si ritrova spesso la vita socio-culturale delle comunità. Gli artisti della scena sono presenti, infatti, nei presidi culturali di tutte le città italiane nel lavoro indefesso e costante con le categorie più deboli: con i malati, gli anziani, i giovani, i carcerati, gli immigrati. Vuole veramente dirci, signor ministro, che questo lavoro sia inutile o sacrificabile per la società? Non le pare piuttosto che in questo drammatico frangente della storia nazionale, avere un luogo dove poter riflettere, metabolizzare, rielaborare, tutto quanto ci sta accadendo sia invece salutare per lo spirito e le menti della cittadinanza tutta? Il teatro è un luogo sicuro perché l’intero comparto ha cura dei propri spettatori, parte fondamentale del processo creativo, specchio in cui riflettere e rifletterci, senza i quali la nostra arte non avrebbe senso di esistere. Il teatro è necessario perché è una delle cellule base su cui è costruito il corpo sociale e dove, a ogni rappresentazione, si ricostruisce simbolicamente tale corpo. Far mancare l’ossigeno a questa cellula mette a grave rischio l’intera nostra comunità nazionale.

Signor Ministro chi le scrive sa che le parole spese saranno probabilmente inascoltate, che voci più autorevoli della mia verranno ignorate sotto la bandiera della salute pubblica, ma rammenti, la prego, che non di solo pane vive l’uomo, che il nutrimento dello spirito e delle menti è necessario come l’aria che si respira. Certo il teatro non morirà oggi, non per la sua serrata, essendo sopravvissuto a millenni di sciagurata storia umana, ma certo la maggior parte di chi oggi si occupa di quest’arte meravigliosa sarà costretta a immensi sacrifici, molti dei quali si dimostreranno inutili, e molti si troveranno costretti non solo a sospendere, ma a chiudere la propria attività e da questo deriverà una desertificazione culturale di interi quartieri e territori. Avremmo sperato che lei Sig. Ministro si battesse per le categorie di cui il suo Ministero avrebbe dovuto occuparsi. Invece l’intera categoria si sente abbandonata perché Lei non ha nemmeno preso in considerazione la profonda necessità del nostro operare in seno alla comunità. Ci ha considerati inutili e superflui. Per questo, la prego, si dimetta e faccia come i nobili comandanti che affondano con la nave loro affidatagli, condivida così almeno simbolicamente i nostri non piccoli sacrifici.