Archivio mensile:Settembre 2022

Neighbours ph:@_Julien_Benhamou

Neighbours e Un discreto protagonista: a TorinoDanza dialoghi tra vicini lontani

|ENRICO PASTORE

Nel terzo appuntamento a TorinoDanza vanno in scena due prime nazionali: Neighbours e Un discreto protagonista, coreografie nate da incontri importanti e casuali in altre opere cruciali nella danza degli ultimi anni: da una parte Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit si sono trovati a lavorare per William Forsythe in A quiet evening, mentre Damiano Ottavio Bigi e Lukasz Przytarski durante Transverse orientation di Dimitri Papaiouannu.

Neighbours nasce anche dall’incontro di due diversi linguaggi coreografici: Brigel Gjoka ha una formazione tecnica focalizzata sul contemporaneo e sulle tecniche di improvvisazione, mentre Rauf “RubberLegz” Yasit è un B-boy esponente della corrente astratta della breakdance. Sono dunque vicini, come recita il titolo Neighbours, ma nello stesso tempo i loro linguaggi corporei sono tangenti ma mai intersecanti. Così come le loro origini (albanese Gjoka e curdo Rauf) sono prossime, ma l’eccezionalità curda, popolo senza terra in perenne stato di guerra e di difficile convivenza con gli stati che li ospitano con ostilità, rende distanti le loro radici (per quanto anche gli albanesi nei Balcani conoscano la difficoltà delle convivenze etniche forzate).

Linguaggi, pratiche e origini differenti, forse lontane nella loro prossimità, hanno generato una coreografia (supervisionata dallo sguardo dello stesso Forsythe) tesa all’incontro. A fare da anello di congiunzione la musica originale suonata dal vivo dal musicista e compositore turco Ruşan Filiztek.

Neighbours appare al pubblico inizialmente come un’opera tecnica e ostica. Nel silenzio i due danzatori cercano di usare i loro complessi codici espressivi alla ricerca di un incontro. Un difficile equilibrio di geometrie e flessibilità, di pause e accelerazioni improvvise, di spigoli e curve, di muscolarità e grazia

Solo con il perdurare di tali incastri subentra la musica ad addolcire il dialogo, rendendolo più intimo e personale, così come la luce diviene più delicata, espressiva, meno asseverativa.

Solo a partire da questo momento Neighbours si trasforma in un oggetto coreografico caldo, sfuggente alla grande tecnica messa in campo dai due eccellenti danzatori, e pronta a concedere allo sguardo sfumature commoventi, persino carezzevoli, nonostante certa maschia ruvidezza. Solo a questo punto, quando la tecnica va oltre se stessa, si abbandona, si dimentica, ecco l’incontro, non solo tra i danzatori in scena, ma con il pubblico in sala.

Neighbours è un’opera di pazienza e racconta come solo tramite l’attesa e lo sguardo attento possa avvenire la vera conoscenza tra le persone. Il primo sguardo concede, spesso e volentieri, un’immagine deformata dai pregiudizi. Si vedono i luoghi comuni e non le eccezioni. In quest’epoca frettolosa in cui siamo costretti a voltare pagina in fretta, a dare un’immagine di noi stessi in un secondo, Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit ci ricordano l’importanza del tempo affinché una verace comprensione possa emergere dopo le prime impressioni dettate dall’impulso.

Di natura diversa Un discreto protagonista di Damiano Ottavio Bigi, Lukasz Przytarski e la regista e drammaturga Alessandra Paoletti. L’incontro e la relazione sono anche in questo caso i protagonisti della coreografia, ma se in Neighbours si parte da un dato concreto, umano e tecnico insieme, in Un discreto protagonista abbiamo come base un elemento astratto e sfuggente come il vuoto.

I due danzatori sviluppano incontri, dialoghi, collisioni, lotte, su uno spazio vuoto, il quale assume aspetti differenti proprio grazie agli eventi che in esso capitano. La sviluppo è però freddo e le premesse restano opache e ostiche. Non è chiaro quale tipo di vuoto sia oggetto di riflessione. Si parla di vuoto matematico e di vuoto sapienziale, ma l’impressione è che ognuno debba trovarsi la sua strada in solitudine.

Un discreto protagonista è un’opera di grande livello tecnico incapace, nell’opinione personalissima e fallace di chi scrive, di proiettarsi empaticamente al di là del proscenio, dimenticando i presupposti intellettuali e filosofici per essere realmente oggetto caldo, aperto e vuoto per un incontro con l’altro. È prigioniero del suo stesso disegno e delle sue proprie aspirazioni.

Neighbours

BRIGEL GJOKA | RAUF “RUBBERLEGZ” YASIT & RUŞAN FILIZTEK
Albania/Regno Unito/Stati Uniti/Turchia

Fonderie Limone – Sala Grande 16, 17 settembre ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti
coreografia e interpreti Brigel Gjoka, Rauf “RubberLegz” Yasit
creato in collaborazione con William Forsythe
compositore e musicista Ruşan Filiztek (Accords Croisés)
luci Zeynep Kepekli
costumi Ryan Dawson Laight
Una produzione Sadler’s Wells con il supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Un discreto protagonista

DAMIANO OTTAVIO BIGI | ALESSANDRA PAOLETTI
Italia/Polonia

Fonderie Limone – Sala Piccola 16 settembre, ore 22.15, 17 settembre, ore 19.30 e ore 22.15 – Prima nazionale
durata 50 minuti

Concetto e direzione Alessandra Paoletti & Damiano Ottavio Bigi
danzatori Damiano Ottavio Bigi & Lukasz Przytarski
Torinodanza Festival
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
ONE DANCE WEEK Festival Plovdiv, Compagnia Simona Bucci/Degli Istanti
D'un reve Salia Sanou

We shall overcome: il sogno di Salia Sanou

Secondo appuntamento a TorinoDanza e si cambia completamente atmosfera. Dalle ieratiche e primordiali acque di Damien Jalet si viene trasportati in una scena politica, dove la storia si confronta con l’attualità in un giocoso sogno di libertà e uguaglianza. È l’aspirazione del coreografo e ballerino del Burkina Faso Salia Sanou, attivo sia in Francia con la sua compagnia Mouvements perpetuels, con sede a Montpellier, e a Ouagandougou con il Centro di promozione coreografico da lui fondato con Saydou Boro.

D’un reve si presenta in forma ibrida, tra coreografia e musical, un luogo di sogno dove la realtà presente e passata sono ben presenti. L’opera inizia con A change is gonna come di Sam Cooke del 1963, vero manifesto dei diritti civili in America. Il brano è cantato dal vivo da tutti i danzatori immersi fino alle caviglie in batuffoli di cotone. Sullo sfondo quattro ceste colme di bianchi fiocchi simbolo di un passato di schiavitù e oppressione.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

La danza comincia mentre sullo sfondo vengono proiettate immagini d’epoca delle marce dei neri negli Stati Uniti negli anni ’60, mentre i danzatori ripetono le ultime parole di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020, da cui scaturì il movimento di protesta Black Lives Matter.

D’un reve inizia dunque con toni cupi, in cui subentra un certo sconforto, nel dire che i tempi cambiano ma certe cose restano sempre uguali. Presto subentra però un altro clima, dopo aver cantato We shall overcome, il capolavoro di Pete Seeger, poi portato in auge da Joan Baez sempre nel 1963, ma cantato prima di loro dalle donne afroamericane dipendenti dall’American Tobacco Company in sciopero nel 1943.

È a questo punto che i danzatori prendono dei grossi rastrelli e fanno scomparire il bianco cotone dietro il fondale facendo apparire il nero del tappeto danza. D’un reve cambia passo, si trasforma in un musical, una vera carrellata di successi musicali afroamericani, canzoni che, dagli anni ’30 a oggi, hanno cambiato il ruolo e l’immagine della comunità nera agli occhi del mondo e che tutti noi abbiamo ballato o ascoltato a partire da Get Up (I Feel like Being a) Sex Machine.

Salia Sanou vuole giocare con il pubblico, trasmettere il sogno di integrazione e parità di diritti e dignità a partire dalle festosità della musica, da quel linguaggio universale che unisce i popoli oltre i confini, i colori, le bandiere. La scena si trasforma in un dancing club anni ’70, con luci colorate, palchi mobili, e danza sfrenata.

Salia Sanou ci presenta una corporeità comune, costituita da corpi normali non atletici, la danza è sporca ma calda come il fruscio della puntina su un disco di vinile. Non si cerca la perfezione stilistica ma l’empatia, il coinvolgimento, la vibrazione dionisiaca dei corpi che ballano.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

Il pubblico ha accolto calorosamente il sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori e cantanti. Gli applausi sono scroscianti tanto da concedere un piccolo bis di James Brown danzato anche dallo stesso Sanou.

D’un reve è un’opera vitale, persino ottimistica ma lascia profonde riflessioni in questo clima di elezioni politiche dove la destra e il suo pensiero sembrano invincibili. Applaudiamo la comunità nera quando ci intrattiene ma rimaniamo insensibili alle loro morti in mare, alle loro guerre causate dal postcapitalismo da noi abbracciato. Restiamo muti e sordi di fronte ai crescenti episodi di intolleranza e forse quindi i nostri applausi focosi sono ipocriti. Forse lo sguardo con cui osserviamo le opere della comunità nera è ancora velato da un esotismo di maniera, da una simpatia per un diverso creduto inoffensivo e legato al puro intrattenimento. Chissà quanti usciti dal teatro saranno stati contagiati dal sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori, e quanti invece stamattina avranno guardato con pietà mista a disprezzo il nero davanti al panettiere che chiede l’elemosina.

Fonderie Limone – Sala Grande 13, 14 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti (senza intervallo)

Ideazione e coreografia: Salia Sanou
con Lydie Alberto, Milane Cathala-Difabrizio, Ousséni Dabaré, Ange Fandoh, Virgine Hombel, Kevin Charlemagne Kabore, Dominique Magloire, Elithia Rabenjamina, Marius Sawadogo, Akeem Washko,
Siham Falhoune, Ida Faho
musiche: Lokua Kanza
testi: Capitaine Alexandre et Gaël Faye
video: Gaël Bonnefon
scenografia: Mathieu Lorry-Dupuy
luci: Marie-Christine Soma
costumi: Mathilde Possoz
Compagnie Mouvements perpétuels

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

Metamorfosi e linguaggi oracolari: Vessel di Damien Jalet

TorinoDanza apre la sua edizione 2022 all’insegna di un mistero mistico e laico, una meditazione sulla genesi del mondo e della vita proposta da Vessel (del 2016 ma in prima nazionale) di Damien Jalet insieme a Kohei Nawa. Damien Jalet è una vera star del mondo della danza contemporanea, un coreografo a cui piace ibridarsi con altri linguaggi e lavorare di concerto con artisti di altre discipline. Tra le molte collaborazioni non si possono dimenticare quelle con Sidi Labi Cherkaoui, Marina Abramovich, Luca Guadagnino (nel remake di Suspiria), Riuchi Sakamoto (che firma la colonna sonora in Vessel insieme a Marihiko Hara) e infine con lo scultore Kohei Nawa autore delle scenografie non solo in Vessel ma anche nelle altre due opere che compongono la trilogia (Mist del 2020 e Planet [Wanderer] del 2021).

Damien Jalet propone in Vessel una corporeità primordiale, costituita da esseri polimorfi, asessuati e acefali, in perenne metamorfosi. Siamo al di là del genere, del raziocinio, in quel territorio ancestrale in cui il divino e il terreno si incontrano senza un preciso progetto, senza alcune apparente finalità, e giocano nel generare l’improbabile e l’inaudito.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La scena si apre su una nuvola bianca, cratere di vulcano, vagina universale, fossa di germinazione ribollente, galleggiante sulle acque nere e tranquille dei primordi del mondo, su cui emergono dei totem composti di schiene, arti, glutei, mani e piedi. Questi idoli richiamano le divinità dei miti di Chtulu o gli improbabili spiriti de La città incantata di Miyazaki. Siamo costantemente nell’indefinito tra il mostruoso e il fiabesco.

Gli idoli si scindono, mitosi o partenogenesi priva di fecondazione. I sette organismi nuotato nel brodo primordiale, intorno all’isola e sull’isola, cercano di sperimentare formazioni e concrezioni stabili, ma restano attratti dal processo metamorfico. Niente è permanente. Nemmeno le unioni, le nozze alchemiche, possono nulla di fronte alla potenza del divenire.

Le creature giocano ora con il liquido bianco sobbollente al centro del vulcano. Soma divino, sperma universale, latte nutritivo. Gli esseri compiono le loro abluzioni e riprendono la trasformazione. Ecco da ultima sorgere la figura umana, con le sue membra formate e scultoree. Ma è solo l’illusione di un momento, Presto si inabissa nel latte e restano gli idoli acefali. Poi cala il sipario su un finale impossibile perché non vi è fine al transeunte. Il fiume della vita continua a scorrere. A una fine seguirà inevitabile un altro ciclo e così all’infinito, senza trovare una stasi convincente e stabile.

Vessel di Damien Jalet ph:Yoshizuko Inoue

La danza di Damien Jalet si integra in maniera organica con i costrutti scenografici, sempre significanti e mai corredo o decoro, così come con la musica che non descrive ma suggerisce un mondo prima dei mondi. In Vessel ciò che sorprende di più è la fisicità dei danzatori, il loro corpo si produce in un movimento che non è mai slanciato, atletico, dispiegati, ma al contrario contratto, controllato in ogni piccolo contrarsi e distendersi dei muscoli. Le schiene parlano, diventano volti e maschere, gli arti tentacoli e antenne, le unioni generano bocche, vagine, ani, ombelichi. Non vi è mai testa, come se si volesse puntare l’attenzione sull’aspetto istintuale della materia di voler perpetuamente cambiare forma, senza una progettualità o razionalità dichiarata. Siamo prima della coscienza, laddove il miracolo della metamorfosi suggeriva relazioni illecite e meravigliose tra il divino e il materiale.

Vessel è un’opera in cui l’opacità dei significanti si rassoda e solidifica nella chiarezza dell’intenzione. Damien Jalet e Kohei Nawa hanno partorito una creatura solenne e misteriosa, capace di parlare con la lingua della pizia, quel linguaggio oracolare oscuro nella sua pienezza di significato e dove l’interpretazione è un gioco tutto demandato all’orecchio dell’ascoltatore libero di costruirsi il vaticinio più consono ai propri desideri.

Fonderie Limone – Sala Grande 9, 10 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 60 minuti

coreografia: Damien Jalet
danzatori: Aimilios Arapoglou, Nobuyoshi Asai, Francesco Ferrari, Ruri Mito, Jun Morii, Astrid Sweeney, Naoko Tozawa
scene: Kohei Nawa
luci: Yukiko Yoshimoto
musiche: Marihiko Hara, Ryūichi Sakamoto
Produzione: SANDWICH Inc., Théâtre National de Bretagne
Mirabilia Ph:@Andrea Macchia

Comunicare lo spettacolo: a Mirabilia nuovi linguaggi per le Live Arts

Mirabilia è un festival dedicato al circo contemporaneo e alla danza che si svolge tra agosto e settembre nei comuni di Alba, Busca, Savigliano e, per la parte più importante e corposa, nella città di Cuneo. Il Festival diretto da Fabrizio Gavosto cerca di dare un respiro europeo al progetto affiancando agli spettacoli, dislocati in ogni quartiere e parco cittadino, una serie di appuntamenti dedicati agli operatori alternando occasioni di mercato, incontri professionali e tavole rotonde.

Tra questi, di particolare interesse, è stata la giornata di convegno dal titolo Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi. L’evento è stato organizzato in collaborazione con Adolfo Rossomando, direttore di Juggling magazine, Silvia Mei, studiosa e docente all’Università di Foggia, e la rete INCAm (International Network of Circus Art magazines). Diversi i motivi che hanno reso attrattive le argomentazioni emerse. Cerchiamo di riassumerle in brevi spunti di riflessione.

In primo luogo ci si è interrogati su come comunicare lo spettacolo alla pluralità di referenti possibili: pubblico, operatori e referenti istituzionali. Per ogni caso preso in esame va considerato un differente linguaggio, in parte ancora da inventare e sviluppare, perché differenti sono gli obiettivi: portare spettatori in sala, vendere o produrre un lavoro, finanziare l’attività di ricerca e sviluppo.

Innanzitutto occorre segnalare come molti artisti ancora credano che l’arte sia una forma di comunicazione, ossia che l’opera abbia finalità comunicative in sé, nonostante la riflessione e la pratica estetica e filosofica degli ultimi duecento anni abbia sgomberato il campo da questo fraintendimento. L’azione artistica non è una forma di comunicazione, quanto piuttosto una prassi del pensiero in azione. Inoltre l’opera d’arte possiede una certa sua opacità nonché una volontà propria rispetto ai propri creatori, indipendenza tale da permettere all’occhio dell’osservatore di entrare in essa e trarne messaggi e significati impensati e inauditi. Chiudere la visione, percezione o fruizione dell’opera in un unico univoco messaggio preclude all’opera la usa possibilità di coinvolgere e attivare l’occhio che guarda, relegato in posizione passiva e semplicemente ricevente. Tra opera aperta e opera chiusa non esiste una divisione manichea e precisa. I confini sono labili e grigi ma la tendenza è orientata verso una trasformazione dell’intenzione in tensione, non certo verso un travaso immutabile di un messaggio da un trasmettitore a un ricevente.

, Simone Pacini, Silvia Mei, Adolfo Rossomando

Non a caso all’artista oggi, nelle migliori e più avanzate produzioni, si affiancano altre figure professionali, quali il dramaturg, gli addetti stampa o gli esperti di comunicazione digitale pronti a curare gli aspetti dedicati al mondo della comunicazione al posto dell’artista, declinando l’oggetto secondo i vari pubblici di riferimento (professionali, istituzionali e generici). Comunicare e creare non sono creature di una medesima specie benché alcune prassi di comportamento possano dare l’illusione di una parentela tra cui, soprattutto, il furto di modalità artistiche da parte della comunicazione di massa. Purtroppo per la maggior parte dei casi sono gli artisti stessi costretti a curare tutti gli aspetti per mancanza di sufficienti finanziamenti e, da qui, forse, il fraintendimento e sovrapposizione dei concetti di comunicazione e creazione.

In questo panorama la critica potrebbe svolgere un ruolo significativo, come mediatori culturali, a patto però di inventare nuove modalità. La recensione dello spettacolo post-evento non può più essere il solo mezzo attraverso cui il pubblico entra in contatto con lo spettacolo. E questo per molti motivi primo fra tutti la quasi scomparsa delle lunghe teniture in teatro. Se uno spettacolo resta in cartellone solo una sera è chiaro che leggere una recensione a posteriori non porta pubblico in sala e ciò che succede a Torino potrebbe avere esiti diversi a Napoli o a Bologna. Oggi le recensioni servono per la maggior parte ad artisti e operatori come rassegna stampa, ma nei riguardi del pubblico generico restiamo indietro. Questo si percepisce anche dai progetti editoriali presentati dai colleghi stranieri (presenti al convegno Stacy Clark di Circus Talk dagli Stati Uniti, Cyrille Roussial di Jonglages dalla Francia, Ruby Burgess di Circus Diary dalla Gran Bretagna e Tim Behren di Voices Magazine dalla Germania). Tutti questi progetti, nati digitali, sono orientati allo studio delle arti circensi con contributi anche di grande spessore accademico, e orientati verso una circolazione delle opere sul mercato, quindi l’obiettivo appare diretto verso un pubblico specializzato, altamente alfabetizzato e costituito da professionisti dello spettacolo.

Ruby Burgess di Cyrcus Diaries

Non solo bisogna inventare un linguaggio ma riformulare le parole. Spesso si usano termini e locuzioni senza un vero significato nel contesto attuale della ricerca sulle arti performative. Un esempio su tutte: multidisciplinarietà e multimedialità utilizzare per indicare un futuro necessario e radioso per le live arts. Tali termini più che unire e creare alleanze inedite, sono divisive, perché presuppongono famiglie e tribù in realtà inesistenti.

Teatro infatti è parola nata a indicare un luogo e non un’arte. Teatron è il luogo da cui si guarda. L’arte era Koreia: la sinergica coesistenza di danza, musica e poesia (quest’ultima fu considerata appieno un arte solo a partire da Aristotele in quanto costituita da un insieme di regole). Multidisciplinarietà e multimedialità fin dall’origine dunque. E non è superfluo ricordare come durante l’Umanesimo e il Rinascimento, periodo di grande riflessione teorica da cui sorgeranno non solo il Teatro all’Italiana ma i principi della moderna arte scenica, la Commedia dell’Arte era bottega abitata da una sorprendente permeabilità di confini tra le arti e i generi: commedia, tragedia, drammi pastorali, numeri da saltimbanco (oggi diremmo circensi), imbonimenti da fiera, astuzie da cerretani. Unione proficua di cultura alta e bassa, capace di parlare ai re come ai popolani.

Saltando di secolo in secolo, se attraversiamo come uccelli in volo il Novecento, non osserveremmo altro che una ininterrotta teoria di ibridazioni, matrimoni impensabili, sconfinamenti. Pensiamo solo alla figura di John Cage, la cui influenza determinò mutamenti impensabili non solo nella musica, ma nella danza e nel teatro, per non dire delle arti visive come padre dell’happening e della perfomance. Pensiamo a Kantor, artista visivo capace di rivoluzionare il mondo del teatro.

Non resta che far capire alle istituzioni, per lo meno in Italia, non solo l’inutilità degli appelli alla multimedialità e multidisciplinarietà proprie al DNA delle live Arts, ma l’inefficacia delle divisioni e separazioni dei generi. È superfluo ricordare quanto tali divisioni creino cortocircuiti burocratici che se non fossero imbarazzanti indurrebbero al riso.

Forse, in conclusione, per operare un vero superamento dei generi si potrebbe aspirare piuttosto a una sorta di stato vegetale (non vegetativo) in cui come nella vita della pianta, le sue diverse parti possiedono specificità uniche e linguaggi propri ma tutti partecipanti e dipendenti dalla vita di un solo e unico organismo. Non solo una nuova biologia ma anche una diversa visione politica di appartenenza di cui in Italia siamo privi perché continuamente lacerati da divisioni e contrasti.

Cyrille Roussial di Revue Jonglages

Ultimo aspetto, ma non meno importante, riguardante ruolo e funzioni della critica è il fatto che il giornalismo culturale è divenuto una sorta di azione di volontariato e non più un mestiere riconosciuto e pagato. Fenomeno purtroppo non solo italiano da quanto emerso dal dibattito dove, anche in altri paesi europeo e non, la migliore delle risulta essere un pagamento discontinuo e non sufficiente. Questo provoca due effetti: il primo un necessario conflitto di interessi, essendo i critici spesso sostenuti dai festival e dagli artisti stessi; in secondo luogo la deprofessionalizzazione e la mancanza di giuste competenze le quali si formano solo con un dedizione costante e continuativa. La penuria di finanziamenti e sostegni all’editoria culturale risulta essere un gap quasi insormontabile per l’insorgere di una critica veramente indipendente ed efficace.

Molti dunque i temi emersi purtroppo, per mancanza di tempo, non sufficientemente dibattuti tanto da trovare proposte e strategie per instradare la discussione verso delle possibili vie di uscita. È stato comunque importante parlarne e questo è un indubbio merito di Mirabilia e dei curatori del convegno.

Il ruolo della scrittura critica e drammaturgica nello sviluppo delle arti circensi.

Convegno tenuto a Cuneo, presso il Rondò dei Talenti, durante Mirabilia il 2 settembre 2022

Link alle testate straniere specializzate in circo contemporaneo, ma non solo, presenti al convegno per chi avesse curiosità di esplorare i progetti editoriali dei nostri colleghi all’estero:

Circus Talk (USA) https://circustalk.com/

Circus Diaries (GB) https://thecircusdiaries.com/

Revue Jonglages (FR) https://maisondesjonglages.fr/revue/accueil/

Voices Magazine (D) https://circus-dance-festival.de/en/projects/magazin/