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Carcaça di Marco da Silva Ferreira

Nuovo appuntamento di Torinodanza con un doppio spettacolo, Carcaça di Marco da Silva Ferreira e Il combattimento di Tancredi e Clorinda per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz.

Carcaça è una messa in questione della comunità e della memoria collettiva che le appartiene attraverso la danza. Presente e passato si confrontano attraverso gli stili del ballo popolare (clubbing, house, street, breakdance, fandango, marce militari, techno, vaguing e trance) perché i corpi dei danzatori rendono manifesta la storia condivisa con la comunità degli spettatori. Riconoscere è appartenere, è condividere. E questo non avviene attraverso il linguaggio della cultura alta ma soprattutto grazie al pop, diffuso, pervasivo, persino rifiutato, ma comunque vissuto.

Pensiamo a quante canzonette estive dagli altoparlanti delle radio di un bar, o in macchina mentre si guida, ci restano nelle orecchie e colorano attimi della nostra vita, anche contro la nostra volontà. Marco da Silva Ferreira riproduce questo processo di acquisizione comune di linguaggi e stilemi attraverso la danza dei corpi. Questo rammemorare non è colorato di nostalgia, non è uno sguardo velato e sognante verso tempi lontani, ma è una domanda attiva e pressante rivolta al nostro presente. Cosa ricordiamo? E cosa significa ricordare?

Le marce militari così come la canzone rivoluzionaria delle lavoratrici (Cantiga sem maneiras – 1974) di Josè Mario Branco, il cantautore che sempre si oppose al regime fascista di Salazar, sopportò l’esilio in terra straniera e tornò in patria solo dopo la Rivoluzione dei garofani, porta in superficie il non lontano passato portoghese. Cosa di quelle lotte è rimasto? Quello spirito è ancora presente, o si è irrimediabilmente sopito? E questa domanda non è rivolta ovviamente solo ai portoghesi, perché a ciascun popolo, soprattutto oggi, quando in ogni stato d’Europa soffia un vento nero colmo di sussurri di un passato sconfitto con tante sofferenze, deve necessariamente chiedersi: sappiamo ancora ricordare da dove veniamo?

Ed è altrettanto ovvio che questa domanda non parta dalla testa o dalle parti superiori del corpo, ma scaturisca dai piedi di questi danzatori. L’accento di questa coreografia vitale e coinvolgente è sui passi e sul ritmo di questo marciare, comminare, correre. Da dove veniamo e verso dove siamo diretti? E non pensiamo neanche per un momento che con questo domandare ci si rivolga verso questioni filosofiche dei massimi sistemi, il quesito è concreto e terra-terra: dove stiamo andando ora in questo nostro presente? La memoria riguarda anche l’identità. Jason Bourne si risveglia senza un passato, non sa più chi è, non sa perché combatte e perché scappa. Trattiene solo abilità tecniche che nulla gli dicono su cosa fare nell’immediato futuro né perché sia quello che è. Senza passato saremmo simili al protagonista di Memento di Christopher Nolan, il cui agire perde significato ogni volta che la sua memoria non trattiene i ricordi. E come lui diventiamo manipolabili, inconsapevoli.

Una marcia militare porta i danzatori sulla scena e la sonata di Scarlatti (credo l’Allegro della Sonata K.01 in re minore, ma la memoria può ingannarmi) chiude questo percorso che tocca vari momenti: la danza del nostro presente (trance e clubbing), il vaguing degli anni ’80 e ’90, il ballo popolare dalle radici ataviche, la danza di strada delle comunità nere e sudamericane, la canzone rivoluzionaria di chi ha lottato per la libertà. Significativo il momento in cui le magliette rosse dei danzatori, sollevate in alto dalle braccia diventano una bocca che canta le parole di Branco. Il movimento stesso si fa verbo e ci ricorda il passato. È altrettanto significativo che quelle parole così urticanti contro la borghesia siano rivolte a un pubblico per lo più di estrazione borghese che alla fine applaude entusiasta. Quelle parole non sono più una sfida, sono diventate inoffensive. Carmelo Bene diceva che l’arte è tutta borghese, e probabilmente aveva ragione. L’arte ha forse perso la capacità di scuotere le coscienze anche quando ne ha tutta l’intenzione.

Anche Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, per la regia di Fabio Cherstich e la coreografia di Philippe Kratz, riconnette il passato al presente in un ciclo interminabile di ripetizione dello stesso destino. Allestito per il quattrocentesimo anniversario della composizione dell’opera del “divino Claudio”, e a Torinodanza in anteprima prima del debutto ufficiale al Teatro Farnese di Parma nell’ambito del Festival Verdi il prossimo 18 Ottobre, Cherstich e Kratz ci presentano una versione in cui due soldati, un uomo e una donna, sono legati da una nastro nero e sono costretti e combattere in un cerchio, simbolo dell’eterno ritorno dell’eguale.

La storia d’amore e morte tra la principessa etiope e il cavaliere cristiano perde i suoi connotati di travestimento dei ruoli sessuali che portano i due protagonisti a non riconoscersi. L’attrazione dei due amanti si trasforma in un involontario quanto inevitabile ferirsi a vicenda. L’ora fatale è giunta, come recita il testo del Tasso, o forse è costantemente presente, e così si ripete all’infinito la sconfitta di entrambi i contendenti. Se Clorinda muore, Tancredi è infatti mortalmente ferito nell’animo. Nessuno sfugge a questo inevitabile destino perché si è avvinti da questo nero cordame che ci spinge gli uni contro gli altri o, forse, come sostiene Philippe Kratz contro noi stessi. Tancredi e Clorinda sono due anime che si combattono, la loro lotta avviene dentro noi stessi. Per questo anziché impiegare un soprano e due tenori come da partitura, l’intero madrigale viene eseguito dal tenore Matteo Straffi, come se le diverse voci del narratore e dei due amanti combattenti siano un unico vociare dentro l’animo di ciascuno di noi.

Questa interpretazione tutta introspettiva della vicenda di Tancredi e Clorinda risulta però forzata, come se non fosse la loro storia. È Rinaldo che combatte con la propria immagine riflessa nello scudo, che viene ammaliato dallo specchio di Armida e dall’immagine che si riflette nei suoi occhi. Tancredi e Clorinda sono costretti al proprio destino dalle armature che impediscono di riconoscersi. I due soldati che si incontrano nel bianco cerchio sono chiaramente un uomo e una donna, non perdono i loro connotati sessuali. Per quanto mascherati non possono non riconoscersi. Combattono uno contro l’altro nelle loro identità. La maschera non li nasconde all’altro e al pubblico. Il combattimento, la lotta non sono inevitabili, si può fuggire dal cerchio. Quella corda che li unisce e li trattiene imbarazza anche il libero svolgimento della danza. É un impedimento ai danzatori che risultano a volte leggermente impacciati nel gestire l’attrezzo. Forse si dovrebbe dare lasciare libera la poesia del Tasso, lasciare da parte qualsiasi interpretazione e lasciare che quel combattimento avvenga, che i corpi ingannati dal travestimento si scontrino e al fine si rivelino pur con tutto il dolore che questo comporta. Lasciare che ogni volta la storia accada e non sia costretta a ripetersi. In fondo è il destino del teatro ogni sera trovare la forza di essere diverso pur nella ripetizione.

Freedom Sonata di Emanuel Gat

Freedom Sonata di Emanuel Gat apre una nuova edizione di Torinodanza, sempre sotto la direzione di Anna Cremonini, stabilmente al timone dal 2018. Quello di Gat, acclamato coreografo di fama internazionale, è un ritorno sotto la Mole dopo aver presentato nel 2022 LoveTrain2020, opera creata durante la pandemia.

Con Freedom Sonata il coreografo israeliano che, prima di darsi alla danza, si è formato alla Rubin Academy of Music di Tel Aviv, si confronta con il tema della sonata classica, mettendo a confronto l’album The Life of Pablo di Kanye West del 2016 con il secondo movimento della Sonata per pianoforte n. 32 in Do minore, op. 111 di Beethoven nell’esecuzione di Mitsuko Uchida.

Questa scelta musicale suscitano in chi scrive riflessioni che ineriscono più al ruolo e alla funzione dell’opera d’arte che alla danza in particolare. Freedom Sonata è una coreografia così ben eseguita e a tratti così intensa che on ha bisogno quasi di lodi o descrizioni anche perché non è narrativa, non racconta una storia e quello che accade in scena riguarda più i rapporti tra gli esseri umani in generale, al loro interagire, che al modo in cui si danza, attraverso quali stili o alla qualità del movimento.

L’accostamento musicale invece pare al primo impatto incongruo. Cosa hanno a che fare un rapper e Beethoven? E cosa unisce la forma sonata con l’hip-hop di Kanye West? Il legame non si nasconde nella forma, benché Gat divida idealmente il suo lavoro coreografico in tre parti. L’op. 111 è l’ultima delle sonate per pianoforte di Beethoven ed è costituita di soli due movimenti, il Maestoso e l’Arietta, che ispirò pagine intense a Thomas Mann nel Doktor Faustus. È proprio in questo secondo movimento che il grande compositore austriaco opera il dissolvimento della forma sonata classica. Non si assiste più alla contrapposizione dei temi e al loro sviluppo che li ripresenta trasformati a chiudere un percorso narrativo unitario. Beethoven trasfigura la sonata incorporando forme compositive altre, come la variazione o il contrappunto severo, ma anche la melodia popolare e il lieder, fecondandoli a vicenda. Il grande Ludovico Van, per dirla con le parole di Alex di Arancia Meccanica, si libera della sonata, ibridandola, facendo fiorire temi su temi, e unendo in nozze alchemiche il sublime con l’umile. E in questa esplosione di momenti musicali costruisce nondimeno un organismo equilibrato e dolcissimo, lontano dalle maestosità eroiche della Quinta e della Nona Sinfonia. È come se si fosse divertito a giocare con la materia musicale, facendo della sonata un qualcos’altro, non definito, al contempo esplosivo e rasserenante. E questo gioco porta lontano, tanto che Mitsuko Uchida, non teme di eseguire l’Arietta colorandola di ritmi rag-time, senza per questo dissacrare l’opera del maestro, tanto da sembrare che l’avesse scritta proprio con quest’intenzione.

Anche Kanye West sconfina dall’hip-pop prendendo a prestito dal Krautrock al trip-hop, dalll’R&b degli anni Settanta al pop melodico, così come dalla musica classica o dallo sperimentalismo elettronico. Ma se Beethoven espande gli strumenti a disposizione della forma sonata, dissolvendola per espanderne i confini e superare la crisi di valori cui era giunta, quella di West sembra solo un’appropriazione strumentale, un fagocitare disordinato che non giunge ad alcuna sintesi propositiva.

La chiave per comprendere l’operazione coreografica di Emanuel Gat sembrerebbe nascosta proprio nel rapporto che si instaura tra la musica di Beethoven e di Kanye West, non solo a livello formale, ma persino politico. Ciò che vediamo sulla scena dovrebbe apparire come l’espressione fisica e danzata di questa libertà raggiunta dai corpi di prendere in prestito linguaggi e frasi dagli ambiti più disparati e farli fiorire insieme come in un’esotica serra in cui crescono rigogliose piante provenienti dai più lontani continenti.

L’accostamento di stili dissonanti e dissimili dovrebbe raccontare la complessità dei rapporti tra il singolo e il gruppo. Un esempio il posizionamento, tra un segmento danzato e l’altro, di rotoli di tappeto-danza che dovrebbe, e usiamo ancora il condizionale, mostrare il dispiegarsi delle dinamiche attraverso cui dall’ordine di un singolo, che distribuisce i compiti, si sviluppi in una collaborazione dell’insieme dei danzatori. Si opera una dissoluzione della leadership. Anche nella danza ritorna costante la proposta gestuale di un singolo danzatore che viene presto riassorbito dal gruppo subito pronto a variare e riformulare il gesto offerto. Scrive Emanuel Gat nel programma di sala: «la creazione di una coreografia può essere uno spazio per capire come risolvere la tensione interna fra l’individuale e il collettivo, quale tipo di autorità può servire come forza motrice e quale come forza distruttrice». È in questo modo che un’opera che non possiede una narrazione o un tema scottante in evidenza, dovrebbe sostanziarsi come “politica”. È attraverso la dinamica dei rapporti tra i danzatori, e di questi con gli altri elementi della scena che si propone un diverso modo di essere, offrendo un’alternativa all’esistente.

E siamo quindi giunti al nodo cruciale e al motivo di tutti questi condizionali. West e la sua musica sono, negli ultimi anni, diventati l’espressione del pensiero dell’estrema destra americana, e non solo per l’appoggio a Trump. West si è profuso in dichiarazioni negazioniste non solo dell’olocausto, ma addirittura dello schiavitù dei neri americani. Le sue esternazioni sessiste, misogine e razziste non si contano, tra cui l’appoggio a Bill Crosby dopo la condanna per stupro. La critica americana si rifiuta persino di recensire i suoi dischi.

Usare un tale materiale musicale, così divisivo, e in alcun modo accostabile a quello di Beethoven se non negli elementi sopracitati, in un’opera coreutica la cui intenzione è; «diventare una forza rilevante nell’individuare anomalie sociali e proporre alternative» ne inficia inevitabilmente l’esito. Emanuel Gat ha più volte dichiarato che West è il più significativo musicista degli ultimi anni, ma come si può scindere oggi la musica e il messaggio che vuole veicolare? Si può ancora sostenere che l’artista e la sua opera siano mondi separati? Se l’arte non si distingue per la sua etica da ciò che rende il nostro mondo un luogo terribile in cui vivere, ha ancora senso? La bellezza veramente monda ogni nefandezza?

Con questo non si vuole accomunare Gat con le posizioni di West, ma semplicemente mettere in questione l’utilizzo dei materialie la loro funzione all’interno di un’opera di così grande levatura tecnica ed espressiva. Forse la libertà di questa sonata danzata arriva fino a comprendere e inglobare in sé le forme più deteriori rivalutandole? Forse la libertà è vera quando accetta anche le manifestazioni più urticanti? Emanuel Gat di certo ci ha donato con Freedom Sonata, molte questioni su cui riflettere.

Infine, il confronto tra Beethoven e West appare sproporzionato, dove al secondo movimento della 111 si accostano tutte le quindici tracce dell’album del rapper americano, il cui messaggio cristiano integralista è estraneo all’opera del maestro viennese. Il tessuto sonoro e il suo significato espressivo diventano compagni ingombranti rispetto a una danza dalla qualità sopraffina. Era proprio necessario l’utilizzo di tutte le tracce, sbilanciando il confronto, così tanto a favore di West (crica 18′ l’esecuzione dell’arietta contro più di un’ora per The life of Pablo)?

Freedom Sonata inizia con i danzatori completamente vestiti di bianco che danzano su un tappeto nero. Alla fine i colori sono invertiti. Bianco e nero si scambiano i ruoli e così, forse, tutto tramontando nel proprio opposto si trasforma e assume altri significati imprevisti. Resta però la sensazione che la libertà di cui si parla si sia colorata di venature oscure e inquiete.

AB [INTRA] di Rafael Bonachela: la fluida semplicità della bellezza

Torinodanza apre la nuova edizione del festival con la presentazione in prima italiana di Ab [intra] del coreografo catalano-australiano Rafael Bonachela con la Sidney Dance Company dal lui diretta dal 2008. Il lavoro di Bonachela si è sviluppato nel corso degli anni in un continuo melange tra cultura alta e pop, che in questo lavoro risalta alla massima potenza.

Ab [intra] in latino significa “da dentro”, “dall’interno” e tale locuzione è la chiave di lettura dell’intero balletto. I diciassette danzatori entrano in scena come se fossero in una sala prove mentre stilettate di violoncello attraversano lo spazio come il battito di pulsazione di un cuore. Sul palcoscenico l’insieme dei danzatori abbozza frasi di movimento. Non siamo ancora al linguaggio ma al balbettio di qualcosa che nasce da dentro e prova e estrinsecarsi verso l’esterno. Man mano si creano piccole formazioni, a due, a tre, che provano a formare frasi più complesse e compiute. Lo sguardo dello spettatore non può accoglierle tutte insieme, deve scegliere cosa guardare, operare un montaggio suo proprio, diverso da quello di qualsiasi altro.

Il tessuto sonoro amplia il suo spettro emotivo, cattura l’attenzione verso una gamma di emozioni che cominciano a sorgere in un paesaggio costituito solo da corpi in movimento e luce. La struttura si viene via via a definire. I pezzi di insieme si sciolgono in commuoventi soli, pas de deux, e trii. Il movimento è si atletico e virtuosistico, ma non stucchevole o fine a se stesso. La componente emotiva, istintuale è la chiave di volta che permette di trascendere la tecnica per colpire l’animo dell’osservatore e avvincerlo.

La struttura drammaturgica è un continuo eterno ritorno di una pulsazione dal singolo all’insieme passando per le formazioni a due e a tre. Si conforma come un costante dialogo tra l’individuo e la società, che si aggrega e disgrega, attraverso la fluidità di questa energia sorgente dal profondo dell’animo. Non vi sono traumi in questo comporsi e scomporsi, ma una naturale fluidità, una aggregazione di molecole eternamente combinantesi fino a raggiungere uno scopo per poi sciogliersi e incominciare nuovamente il processo. La luce e la musica sono il bagno di cultura di queste cellule singole pronte a combinarsi per formare sempre nuovi organismi.

La tessitura sonora è composta dal secondo concerto per violoncello e orchestra Klâtbûtne del compositore lettone Peteris Vasks, nella versione eseguita dalla violoncellista argentina Sol Gabetta, e ai ritmi, viscerali, coinvolgenti della musica elettronica dell’australiano Nick Wales che si sovrappone e si commista con la composizione di Vasks.

Ab [intra] dunque benché appaia semplice e riconoscibile nella sua forma, nasconde nella comprensibile tessitura il mistero di ogni disegno che appare sulla tela. Tutto è dosato, senza eccessi, senza ricercare la meraviglia ma facendola semplicemente apparire come spontanea.

Mallarmé scriveva nel suo saggio sul balletto che la danzatrice sa esprimere attraverso il movimento: «una poesia liberata da qualsiasi scrittura». Una danza non narrativa come quella di Rafael Bonachela esemplifica il pensiero del grande poeta francese. Tutto può essere visto e sentito in quei movimenti così ben concepiti da trascendere la tecnica che li ha generati. Ogni occhio che guarda può scoprirvi un mondo e riempire pagine per descrivere ciò che ha provato senza riuscirvi. Per questo credo Ab [intra] ha riscosso così tanto successo tra il pubblico di Torinodanza, perché è un vaso vuoto che ognuno può riempire con ciò che riesce a cogliere. Vi è un senso di libertà e di fluente emozione che libera dalla necessità razionalista e tutta occidentale di voler per forza comprendere un’opera d’arte. Lei è lì nel suo svolgersi qui ed ora e ci pone enigmi come la sfinge, possiamo risolverli oppure ignorarli e godere per qualche tempo la gioia della bellezza dei corpi in movimento.

COREOGRAFIA RAFAEL BONACHELA
luci Damien Cooper
scene e costumi David Fleischer
partitura musicale originale NICK WALES CON KLĀTBŪTNE DI PĒTERIS VASKS
DANZATORI Lucy Angel, Naiara de Matos, Dean Elliott, Riley Fitzgerald, Jacopo Grabar, Liam Green, Madeline Harms, Luke Hayward, Morgan Hurrell, Sophie Jones, Connor McMahon, Jesse Scales, Piran Scott, Emily Seymour and Chloe Young.
produttori Guy Harding, Simon Turner, Tony Mccoy, Annie Robinson, Jenn Ryan
Sydney Dance Company
con il patrocinio dell’Ambasciata di Australia in Italia

Durata 75′

Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri il 15 settembre 2023

Neighbours ph:@_Julien_Benhamou

Neighbours e Un discreto protagonista: a TorinoDanza dialoghi tra vicini lontani

|ENRICO PASTORE

Nel terzo appuntamento a TorinoDanza vanno in scena due prime nazionali: Neighbours e Un discreto protagonista, coreografie nate da incontri importanti e casuali in altre opere cruciali nella danza degli ultimi anni: da una parte Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit si sono trovati a lavorare per William Forsythe in A quiet evening, mentre Damiano Ottavio Bigi e Lukasz Przytarski durante Transverse orientation di Dimitri Papaiouannu.

Neighbours nasce anche dall’incontro di due diversi linguaggi coreografici: Brigel Gjoka ha una formazione tecnica focalizzata sul contemporaneo e sulle tecniche di improvvisazione, mentre Rauf “RubberLegz” Yasit è un B-boy esponente della corrente astratta della breakdance. Sono dunque vicini, come recita il titolo Neighbours, ma nello stesso tempo i loro linguaggi corporei sono tangenti ma mai intersecanti. Così come le loro origini (albanese Gjoka e curdo Rauf) sono prossime, ma l’eccezionalità curda, popolo senza terra in perenne stato di guerra e di difficile convivenza con gli stati che li ospitano con ostilità, rende distanti le loro radici (per quanto anche gli albanesi nei Balcani conoscano la difficoltà delle convivenze etniche forzate).

Linguaggi, pratiche e origini differenti, forse lontane nella loro prossimità, hanno generato una coreografia (supervisionata dallo sguardo dello stesso Forsythe) tesa all’incontro. A fare da anello di congiunzione la musica originale suonata dal vivo dal musicista e compositore turco Ruşan Filiztek.

Neighbours appare al pubblico inizialmente come un’opera tecnica e ostica. Nel silenzio i due danzatori cercano di usare i loro complessi codici espressivi alla ricerca di un incontro. Un difficile equilibrio di geometrie e flessibilità, di pause e accelerazioni improvvise, di spigoli e curve, di muscolarità e grazia

Solo con il perdurare di tali incastri subentra la musica ad addolcire il dialogo, rendendolo più intimo e personale, così come la luce diviene più delicata, espressiva, meno asseverativa.

Solo a partire da questo momento Neighbours si trasforma in un oggetto coreografico caldo, sfuggente alla grande tecnica messa in campo dai due eccellenti danzatori, e pronta a concedere allo sguardo sfumature commoventi, persino carezzevoli, nonostante certa maschia ruvidezza. Solo a questo punto, quando la tecnica va oltre se stessa, si abbandona, si dimentica, ecco l’incontro, non solo tra i danzatori in scena, ma con il pubblico in sala.

Neighbours è un’opera di pazienza e racconta come solo tramite l’attesa e lo sguardo attento possa avvenire la vera conoscenza tra le persone. Il primo sguardo concede, spesso e volentieri, un’immagine deformata dai pregiudizi. Si vedono i luoghi comuni e non le eccezioni. In quest’epoca frettolosa in cui siamo costretti a voltare pagina in fretta, a dare un’immagine di noi stessi in un secondo, Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit ci ricordano l’importanza del tempo affinché una verace comprensione possa emergere dopo le prime impressioni dettate dall’impulso.

Di natura diversa Un discreto protagonista di Damiano Ottavio Bigi, Lukasz Przytarski e la regista e drammaturga Alessandra Paoletti. L’incontro e la relazione sono anche in questo caso i protagonisti della coreografia, ma se in Neighbours si parte da un dato concreto, umano e tecnico insieme, in Un discreto protagonista abbiamo come base un elemento astratto e sfuggente come il vuoto.

I due danzatori sviluppano incontri, dialoghi, collisioni, lotte, su uno spazio vuoto, il quale assume aspetti differenti proprio grazie agli eventi che in esso capitano. La sviluppo è però freddo e le premesse restano opache e ostiche. Non è chiaro quale tipo di vuoto sia oggetto di riflessione. Si parla di vuoto matematico e di vuoto sapienziale, ma l’impressione è che ognuno debba trovarsi la sua strada in solitudine.

Un discreto protagonista è un’opera di grande livello tecnico incapace, nell’opinione personalissima e fallace di chi scrive, di proiettarsi empaticamente al di là del proscenio, dimenticando i presupposti intellettuali e filosofici per essere realmente oggetto caldo, aperto e vuoto per un incontro con l’altro. È prigioniero del suo stesso disegno e delle sue proprie aspirazioni.

Neighbours

BRIGEL GJOKA | RAUF “RUBBERLEGZ” YASIT & RUŞAN FILIZTEK
Albania/Regno Unito/Stati Uniti/Turchia

Fonderie Limone – Sala Grande 16, 17 settembre ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti
coreografia e interpreti Brigel Gjoka, Rauf “RubberLegz” Yasit
creato in collaborazione con William Forsythe
compositore e musicista Ruşan Filiztek (Accords Croisés)
luci Zeynep Kepekli
costumi Ryan Dawson Laight
Una produzione Sadler’s Wells con il supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Un discreto protagonista

DAMIANO OTTAVIO BIGI | ALESSANDRA PAOLETTI
Italia/Polonia

Fonderie Limone – Sala Piccola 16 settembre, ore 22.15, 17 settembre, ore 19.30 e ore 22.15 – Prima nazionale
durata 50 minuti

Concetto e direzione Alessandra Paoletti & Damiano Ottavio Bigi
danzatori Damiano Ottavio Bigi & Lukasz Przytarski
Torinodanza Festival
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
ONE DANCE WEEK Festival Plovdiv, Compagnia Simona Bucci/Degli Istanti
D'un reve Salia Sanou

We shall overcome: il sogno di Salia Sanou

Secondo appuntamento a TorinoDanza e si cambia completamente atmosfera. Dalle ieratiche e primordiali acque di Damien Jalet si viene trasportati in una scena politica, dove la storia si confronta con l’attualità in un giocoso sogno di libertà e uguaglianza. È l’aspirazione del coreografo e ballerino del Burkina Faso Salia Sanou, attivo sia in Francia con la sua compagnia Mouvements perpetuels, con sede a Montpellier, e a Ouagandougou con il Centro di promozione coreografico da lui fondato con Saydou Boro.

D’un reve si presenta in forma ibrida, tra coreografia e musical, un luogo di sogno dove la realtà presente e passata sono ben presenti. L’opera inizia con A change is gonna come di Sam Cooke del 1963, vero manifesto dei diritti civili in America. Il brano è cantato dal vivo da tutti i danzatori immersi fino alle caviglie in batuffoli di cotone. Sullo sfondo quattro ceste colme di bianchi fiocchi simbolo di un passato di schiavitù e oppressione.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

La danza comincia mentre sullo sfondo vengono proiettate immagini d’epoca delle marce dei neri negli Stati Uniti negli anni ’60, mentre i danzatori ripetono le ultime parole di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020, da cui scaturì il movimento di protesta Black Lives Matter.

D’un reve inizia dunque con toni cupi, in cui subentra un certo sconforto, nel dire che i tempi cambiano ma certe cose restano sempre uguali. Presto subentra però un altro clima, dopo aver cantato We shall overcome, il capolavoro di Pete Seeger, poi portato in auge da Joan Baez sempre nel 1963, ma cantato prima di loro dalle donne afroamericane dipendenti dall’American Tobacco Company in sciopero nel 1943.

È a questo punto che i danzatori prendono dei grossi rastrelli e fanno scomparire il bianco cotone dietro il fondale facendo apparire il nero del tappeto danza. D’un reve cambia passo, si trasforma in un musical, una vera carrellata di successi musicali afroamericani, canzoni che, dagli anni ’30 a oggi, hanno cambiato il ruolo e l’immagine della comunità nera agli occhi del mondo e che tutti noi abbiamo ballato o ascoltato a partire da Get Up (I Feel like Being a) Sex Machine.

Salia Sanou vuole giocare con il pubblico, trasmettere il sogno di integrazione e parità di diritti e dignità a partire dalle festosità della musica, da quel linguaggio universale che unisce i popoli oltre i confini, i colori, le bandiere. La scena si trasforma in un dancing club anni ’70, con luci colorate, palchi mobili, e danza sfrenata.

Salia Sanou ci presenta una corporeità comune, costituita da corpi normali non atletici, la danza è sporca ma calda come il fruscio della puntina su un disco di vinile. Non si cerca la perfezione stilistica ma l’empatia, il coinvolgimento, la vibrazione dionisiaca dei corpi che ballano.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

Il pubblico ha accolto calorosamente il sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori e cantanti. Gli applausi sono scroscianti tanto da concedere un piccolo bis di James Brown danzato anche dallo stesso Sanou.

D’un reve è un’opera vitale, persino ottimistica ma lascia profonde riflessioni in questo clima di elezioni politiche dove la destra e il suo pensiero sembrano invincibili. Applaudiamo la comunità nera quando ci intrattiene ma rimaniamo insensibili alle loro morti in mare, alle loro guerre causate dal postcapitalismo da noi abbracciato. Restiamo muti e sordi di fronte ai crescenti episodi di intolleranza e forse quindi i nostri applausi focosi sono ipocriti. Forse lo sguardo con cui osserviamo le opere della comunità nera è ancora velato da un esotismo di maniera, da una simpatia per un diverso creduto inoffensivo e legato al puro intrattenimento. Chissà quanti usciti dal teatro saranno stati contagiati dal sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori, e quanti invece stamattina avranno guardato con pietà mista a disprezzo il nero davanti al panettiere che chiede l’elemosina.

Fonderie Limone – Sala Grande 13, 14 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti (senza intervallo)

Ideazione e coreografia: Salia Sanou
con Lydie Alberto, Milane Cathala-Difabrizio, Ousséni Dabaré, Ange Fandoh, Virgine Hombel, Kevin Charlemagne Kabore, Dominique Magloire, Elithia Rabenjamina, Marius Sawadogo, Akeem Washko,
Siham Falhoune, Ida Faho
musiche: Lokua Kanza
testi: Capitaine Alexandre et Gaël Faye
video: Gaël Bonnefon
scenografia: Mathieu Lorry-Dupuy
luci: Marie-Christine Soma
costumi: Mathilde Possoz
Compagnie Mouvements perpétuels

Variazioni Goldberg

ANNE TERESA DE KEERSMAEKER: LE VARIAZIONI GOLDBERG

Nel capitolo VIII del Doctor Faustus di Thomas Mann, il conferenziere balbuziente Kretzschmar, racconta della lotta furibonda tra Beethoven e il Credo con fuga della sua Messa Solenne op. 123. I detrattori del grande Ludovico Van osavano affermare di una sua manchevolezza nell’arte del contrappunto, unico banco di prova della suprema maestria. Kretzschmar narra al suo ristretto uditorio l’aneddoto inquietante di una notte burrascosa in cui Beethoven, senza cena per averla dimenticata, licenzia le fantesche con le evangeliche parole: “neanche un’ora sapete vegliare con me?” senza curarsi che le ore passate erano ben più di una. Gli amici, al mattino lo trovarono in uno stato miserando ma vittorioso. Il Credo era pur stato scritto.

Il racconto ovviamente è romanzato e ben poco di vero riscontra la Storia. Beethoven, come ricorda Kundera nei suoi stupendi romanzi e saggi, si sforzò piuttosto di conciliare il contrappunto con la forma sonata. come ben dimostrano le sue ultime opere (tra tutte, oltre alla Messa, la Sonata per pianoforte in la bemolle maggiore op. 110, e la Sonata in re per violoncello op.102).

Il succo del racconto manniano si concentra piuttosto in un aspetto: con la conquista della civiltà si è perso in naturalezza, e così la lotta con la forma è diventato sforzo titanico, soprattutto laddove il linguaggio musicale, proprio nel contrappunto, esprime il suo massimo rigore matematico e formale.

Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

Cos’è il contrappunto che ci spinge a scrivere questa prolissa introduzione? Se si potesse in parole semplici esprimere un’arte complicatissima si potrebbe forse dire così: un concordare di diverse voci indipendenti sotto l’aspetto melodico, e le cui relazioni avvengono per lo più attraverso processi imitativi. Puncta contra punctum dicevano in latino i maestri medievali, ossia nota contro nota. Le voci diverse si rincorrono, appaiate e distanziate insieme, concorrendo a una melodia.

Le leggendarie Variazioni Goldberg, sono un pezzo per clavicembalo a due manuali composto per alleviare l’insonnia dell’Ambasciatore von Kayserlingk, benefattore del giovane Goldberg, allievo prediletto di Johann Sebastian Bach, e restano un caposaldo e un monumento dell’arte del contrappunto. Un pezzo universalmente noto, ripreso dai più grandi concertisti per misurare il proprio virtuosismo (si pensi a Glenn Gould), ispiratore di opere e pensieri sull’arte nel corso degli ultimi due secoli, racchiude in sé la straordinaria bellezza della matematica applicata alla musica.

Le Variazioni Goldberg BWV 988 constano di un Aria con trenta variazioni e una ripresa finale. Le trenta variazioni sono a loro volta divise in tre cicli di dieci: una danza, una toccata e un canone, quest’ultimo man mano che l’opera avanza, aumenta l’intervallo tra le voci. In realtà le trenta variazioni si conformano come due semicerchi il cui punto di tangenza è la variazione n.16, unica di 16+32 battute (le altre sono di 16 o di 32). È un sorta di andata e ritorno dall’Aria iniziale, di cui si varia solo il basso e non la melodia, un rientro ad essa dopo un lungo viaggio. Un riflusso di marea dopo una lunga notte.

Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

Non è certo mia intenzione mettermi a fare un’analisi delle Variazioni Goldberg in quanto sarebbe usurpare competenze proprie a studiosi di musicologia, quanto piuttosto provare a introdurre il lavoro di Anne Teresa de Keersmaeker, insieme al giovane e talentuosissimo pianista Pavel Kolesnikov, sull’opera di J. S. Bach.

Le due linee melodiche dello spettacolo sono appunto la musica e la danza, indipendenti e intersecantesi, secondo variazioni e riprese. Si riproduce in qualche modo il processo e la struttura dell’opera di Bach, secondo altri principi, più propri al movimento. Il viaggio dall’Aria iniziale alla sua ripresa inizia nel silenzio. È la danza ad apparire per prima e a innescare questa nuova e vitale modalità di contrappunto. La scena è cosparsa di semiellissi a dettare spazi propri al movimento secondo schemi arcani, matematici e magici per noi che non conosciamo l’arte e il pensiero sottesi, ma pronti a rispondere alle sollecitazioni musicali. C’è una segreta corrispondenza tra quei glifi e i tessuti musicali. Tutto è puncta contra punctum, ma senza la lotta titanica di Beethoven. Il confronto è più leggero, apparentemente. Insieme musica e danza affrontano, fianco a fianco, non una lotta ma l’attraversamento di una lunga notte, colma di pericoli nonostante la calma apparente.

Si viaggia alla luce della luna, pallida e argentea come lo schermo sulla destra della scena. La luce si sposta pian piano, modifica la sua incidenza sullo spazio e il movimento, e poi sparisce. Rimane la musica e paradossalmente i nostri sensi si acuiscono. È l’ora più buia. Gradualmente torna una luce nuova, un’alba rosata e poi la chiarore dorato di un sole. È forse sorto un nuovo giorno e con il suo arrivo, ecco la ripresa dell’Aria. Siamo tornati a un punto di partenza. Non si sa se nel percorso siamo cambiati, o se qualcosa è mutato nell’ambiente e nel mondo. È stato un viaggio iniziatico forse. Oppure abbiamo solo attraversato una lunga notte insieme, inconsci dei pericoli che gravavano su di noi.

Variazioni Goldberg Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

È cifra stilistica di Anne Teresa De Keersmaeker intavolare intensi dialoghi matematici e musicali con i brani che accompagnano le sue coreografie. Bach è stato inoltre affrontato da poco con i sei Concerti Brandeburghesi, ma la frequentazione con il grande compositore tedesco affonda nelle radici della carriera della coreografa belga. Vi è nell’incontro con Bach un manifestarsi di astratto e concreto, la vita del corpo contrapposta ai principi matematici della musica che nell’incontro dal vivo si scambiano un poco le parti: la maestria della danza delle mani di Pavel, mani piene di vita, guizzanti e sorprendenti, e i movimenti geometrici, precisi come quelli di un orologio, asettici, per niente emotivi della de Keersmaeker. Corpo e mente, pensiero e azione, le due voci di questo contrappunto, i due compagni che attraversano la notte per ritrovarsi insieme all’alba.

In tutto questo c’è anche il pubblico che osserva e genera una nuova coppia: ciò che avviene in scena e ciò che viene ricreato nell’occhio dell’osservatore. Si è partiti da una storia dentro una storia e concludiamo con un mito, quello indiano che parla di due uccelli appollaiati sui rami dell’albero della vita. Uno mangia una bacca, l’altro si limita a guardare. Non può esistere uno senza l’altro. Solo guardandosi reciprocamente si garantiscono l’esistenza. Solo nel reciproco sguardo vi è la scintilla della vita.

Visto a TorinoDanza alle Fonderie Limone di Moncalieri il 28 ottobre 2021

Coreografia e danza: Anne Teresa de Keersmaeker

Musica: Variazioni Goldberg, BWV 988 di J.S. Bach

Pianoforte: Pavel Kolesnikov

Collaborazione musicale: Alain Franco

Assistente alla scenografia: Diane Madden

Disegno Luci e Scene: Minna Tiikkainen

Rosas

Durata 120′

Dellavalle/Petris

IL NIDO E IL TORO: ALLA RADICE DEL SENSO DEL RACCONTO

L’ultimo fine settimana di settembre mi ha portato a contatto con due opere in sé molto diverse per approccio drammaturgico, estetico e politico, ma in qualche modo correlate proprio nel loro essere opposte. Come le piante del mito indiano una ascendente verso l’alto, l’altra discendente verso il basso intrecciano i loro rami e diventano la casa, non più degli dei, ma delle immagini.

Questo appartenere a piani e orientamenti diversi, ci pone a contatto con alcune questioni sempre più urgenti: riformulare le funzioni della scena, in primo luogo; in seconda battuta mette in questioni le modalità di racconto della realtà quando questa si fa sempre più sfuggente, relativa, evanescente. Anzi forse la vera domanda è se esista una realtà da raccontare e non ci si trovi di fronte a una miriade di punti di vista parziali, divisi e sparpagliati come i frammenti di uno specchio rotto, e solo attraverso la relazione di queste diverse isole possa intravedersi un disegno mai statico ma multiforme e cangiante.

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Le opere di cui parlo sono The Nest – Il nido in scena al Teatro Astra di Torino, ultima creazione della Compagnia Dellavalle/Petris da un testo del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz del 1974 e già in anticipo sui tempi rispetto ai temi ambientali; l’altra in scena alle Fonderie Limone nel programma di TorinoDanza è Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou, acclamato artista maestro nell’ideazione di paesaggi immaginari ed evocativi attraverso cui, in ogni sua creazione, riesce a ridefinire cosa sia una coreografia.

Torniamo al tema di apertura. Roberto Calasso scriveva: «La narrazione presuppone la scomparsa della realtà. Non ha senso raccontare a chi è testimone». Questo principio presuppone non la descrizione di un mondo quanto piuttosto l’invenzione di uno non esistente ma possibile, e nel suo essere plausibile ecco farsi specchio riflettente un’immagine che, in qualche modo misterioso, riesce a parlare proprio del mondo attraverso il nascondimento proprio della rappresentazione.

È il processo che avviene nel mito: Agamennone non è solo un semplice reduce di guerra, la sua vicenda non è la cronaca di una vendetta nata dalle conseguenze di un conflitto. È una figura inesistente, una maschera contenitore attraverso la quale parlano le voci (da qui il termine Hypocrites che definisce il ruolo dell’attore: colui che risponde e interpreta l’oracolo, ossia colui che viene parlato dalle voci) ed entro cui le contraddizioni tra ciò che è considerato giusto e sbagliato possono scontrarsi. La sua storia diventa un luogo altro, una porta dimensionale attraverso cui infinite realtà possono materializzarsi, ed ecco perché, attraverso i secoli, il racconto delle vicende sue e della sua famiglia, ha colpito e ancor colpisce.

Se Eschilo avesse parlato della vera storia del semplice soldato Eumeo, del suo ritorno a casa, del tradimento della moglie Santippe con il vicino di casa, del suo omicidio e delle vendetta del figlio Telegono, il risultato sarebbe stato lo stesso? Quella vicenda lontana dai miti e dagli eroi avrebbe varcato i secoli? Si sarebbe potuto parlare della nascita del tribunale e di fondazione dell’Occidente se Eschilo si fosse limitato alla cronaca?

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Il Nido messo in scena dalla Compagnia Dellavalle/Petris, riscrittura personalissima dal lavoro del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz, mette in questione proprio questo: attraverso la vicenda di un semplice camionista, del suo accettare qualsiasi lavoro per potere mantenere la sua famiglia, anche quelli illeciti come il versare liquami tossici nel lago dove nuota suo figlio mettendone in pericolo la vita, non stiamo raccontando un universale in cui tutti ci troviamo coinvolti? Il racconto fatto ai testimoni di una modalità comune non genera allo stesso modo una catarsi o un satori improvviso?

Dellavalle/Petris scelgono inoltre di portare il piano di realtà ancora più prossimo al pubblico mostrando in scena interviste a giovani coppie che si interrogano proprio su cosa avrebbero fatto al posto del protagonista. Queste confessioni rivelano una realtà più conformista e consenziente del personaggio incarnato dall’attore in scena già molto poco eroe e più complice e vittima di un sistema. Nell’osservare il processo drammaturgico messo in moto ci scopriamo a essere tutti complici di un modello sociale ed economico e, nello stesso tempo, di essere pronti comunque a giudicare severamente chi viene colto in flagranza di reato e, in seguito, di essere altrettanto pronti a giustificare le nostre connivenze con la scusa che il pane va comunque portato a casa e non ci si può permettere di perdere il lavoro.

La cronaca quindi, la microstoria intrecciata con le altre personalissime narrazioni dei cittadini, partecipanti al processo di condivisione drammaturgica con le artiste, ci mostra la tela di ragno entro cui tutti siamo ingabbiati. Il meccanismo attraverso cui siamo tutti schiavi in apparente stato di libertà, e dove l’equilibrio ecologico del pianeta è messo a rischio da un criterio economico fondato sul ricatto e lo sfruttamento, un sistema tenuto a galla proprio dalle nostre continue complicità, dal nostro quotidiano cedere ai ricatti, nell’essere incapaci di astrarsi da un consumismo compulsivo generante un falso senso di appagamento.

Il nido entro cui pensiamo di essere protetti è un’illusione e siamo proprio noi stessi, con i nostri quotidiani piccoli sì, con i nostri bisogni di consumatori, gli artefici della sua distruzione. Proprio come ne La Tana di Kafka, il costruttore del rifugio ne è anche il distruttore.

Non è più quindi il racconto a essere mezzo di emersione di verità nel senso di Aletheia, ossia di ciò che è nascosto, quanto il dispositivo che con le sue trappole fa emergere un contesto. Un processo inverso attraverso cui l’universale sorge dal particolare, dall’elemento cronachistico, dalla microstoria. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non è per nulla nuovo. Fin da Brecht e del teatro agit-prop si provato in teatro a far questo. Eppure perfino quel teatro è rimasto affascinato dal mito. Solo le nuove generazioni stanno riuscendo ad allontanarsi definitivamente da una narrazione che prevede un eroe che universalizza in sé un problema.

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Dimitri Papaioannou ci catapulta in un mondo strutturalmente diverso. Siamo accalappiati fin dall’inizio in un gorgo di immagini, le quali richiamano a loro volta altre immagini, miti, opere d’arte, paesaggi. Papaioannou, architetto come Dedalo, orchestra un meraviglioso labirinto di forme pronte a susseguirsi senza una reale necessità drammaturgica ma come nei sogni dove la logica si fa evanescente. Papaioannou trasforma la scena nel dio Proteo, il quale, affinché pronunci l’oracolo, deve essere tenuto ben saldo a terra e solo dopo l’ultima trasformazione dirà la verità.

È inutile in questa sede fare un elenco dei riferimenti iconografici. Poco importa che il toro diventi quello di Pasifae o il rapitore di Europa, né a quale artista si possa riferire l’immagine della donna partoriente nella conchiglia. Interessa il processo drammaturgico messo in atto da Dimitri Papaioannou: accostare le immagini, farle fiorire una dall’altra, mostrare questi corpi ibridi, nati da generazioni equivoche, mescolare i piani di realtà a livello iconico. In questo disegno non importa nemmeno che vi sia un progetto. Ciò che diventa fondamentale è farsi trasportare come foglie dal vento generato da questo voltar pagine e pagine da un’immagine e l’altra. La realtà appare? O forse come Cobb in Inception di Christopher Nolan siamo intrappolati in un sogno dentro a un sogno? Questo labirinto estetico è provvisto di un qualsiasi filo d’Arianna che ci aiuti a uscire dalla caverna per osservare chi genera le ombre proiettate sullo schermo?

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Il Nido e Traverse Orientation ci mostrano due modi di raccontare il mondo: attraverso l’infinitamente piccolo e l’abissalmente lontano. Come racconta la Tavola Smaragdina, testo cruciale dell’alchimia, ciò che è in alto rispecchia ciò che sta in basso. Ciò che è cambiato radicalmente è la prospettiva in cui si pone l’osservatore. Non è più parte di un mondo solido, costituito di valori ampiamente condivisi, ma è assiso sulla capocchia di un proprio personalissimo spillo, dal quale vede un mondo drasticamente diverso da quello del suo vicino. Queste visioni si possono incontrare solo se in qualche modo riunite in rete, collegate come sinapsi neuronali, riconfigurantesi volta per volta.

Non vi è più una sola realtà. Forse non c’è nemmeno una realtà. Solo dei fenomeni che appaiono fugaci come lampi nella notte. E non ci sono più testimoni nel senso tribunalizio del termine: il terstis, colui che ha visto e ne dà conto; ma secondo l’etimologia che ci porta al mártys (da cui martire) colui che testimonia in pubblico la sua fede. Il fatto di aver vissuto, di essere nella pelle di, rende vero e tangibile ciò che è relativo e personalissimo. Esistono quindi solo sguardi diversi che per confrontarsi necessitano di un termine di paragone, o di uno specchio che rimbalzi l’immagine, rendendo chiaro che, in ogni caso, è sempre tutto un gioco di ombre.

A Family Trilogy

PEEPING TOM: A FAMILY TRILOGY

Peeping Tom, l’acclamata compagnia belga fondata da Gabriela Carrizo e Frank Chartier, si è esibita a TorinoDanza, per la prima volta riunita per tre sere di seguito con l’intera A Family Trilogy. Nel 2014 Vater (padre) ha inaugurato un processo proseguito con Moeder (madre) del 2016 e conclusosi ora nel 2019 con Kind (Figlio). Una ricerca lunga quasi un decennio in cui Peeping Tom, tra le formazioni artistiche più importanti nel panorama della danza mondiale, ha esplorato i più inquietanti recessi insiti nel nucleo familiare. L’occasione di aver visto i tre lavori riuniti ci permette di fare alcune riflessioni generali, seppur solamente accennate, sul complesso lavoro creativo e cogliere nelle singole opere elementi fondanti e ricorrenti.

Il termine forse più appropriato per descrivere gli ambienti in ci si dipana questa intricata matassa familiare è Perturbante nel senso in cui lo intendeva Freud. Das Unheimliche, parola composta da Un (non) e Heimliche (familiare, di casa) nella lingua tedesca descrive infatti tutto ciò che risulta nello stesso tempo estraneo e consueto. Heimliche inoltre contiene nel suo etimo anche due tensioni contrapposte: da una parte descrivere qualcosa di noto legato alla casa e alla patria, e dall’altra si riferisce a un nascosto che avrebbe dovuto rimanere celato e nostro malgrado affiora.

In tutti gli spettacoli che compongono A Family Trilogy questo perturbante, portatore di una certa angoscia, non solo è presente ma costituisce gli elementi, situazioni e ambienti che appaiono a prima vista consueti, ma anche fuori di sesto per tutta una serie di particolari e circostanze. Lo strano bosco in Kind, la sala parto che nello stesso tempo è camera mortuaria in Moeder, la casa di riposo in Vater. Questi habitat, a cui potremmo aggiungere il museo in Moeder, ambiente onirico e allucinatorio come il Museo-Bordello sognato da Baudelaire e con il quale vi sono effettivamente delle analogie, sono noti ma nello stesso tempo contengono elementi mitici, ctonii, primitivi, evocanti forze oscure, legati all’animalità primigenia, e che la civiltà ci ha portato a ignorare ma in qualche modo sgusciano fuori appena abbassiamo le difese.

Non è un caso neppure il continuo riferirsi a elementi mitici (Kronos è continuamente evocato in Vater, come i mondi acquatici e liquidi legati al femminile in Moeder), o della fiaba classica intesa come rito di iniziazione (il bosco in cui si trova la bambina/adulta in Kind), o dell’inconscio come elemento appunto agente nel far affiorare il rimosso (il museo in Moeder). Peeping Tom attinge a tutti questi serbatoi, appunto, per far affiorare ciò che agita le acque oscure e profonde ad affrontarlo con un certo imbarazzo in quanto appartenente a un mondo spaventoso, disagevole, scomodo. La presenza della morte contigua o sovrapposta al luogo deputato alla nascita, la violenza sia subita che esercitata dall’infanzia, la perdita dell’innocenza, il contrasto generazionale che porta a una rituale uccisione del padre, sono elementi presenti nella vita di tutti, agenti in maniera più o meno conscia, ma nello stesso tempo nascosti come polvere sotto il tappeto. Il loro riemergere in maniera prepotente sul palco mette lo spettatore sempre in una situazione non propriamente di comfort.

Anche la profonda ironia insita nelle singole scene e di cui si potrebbero fare numerosi esempi, tra cui il clownesco e ripetuto omicidio nel bosco della turista giapponese in Kind, o la scena di sesso con la macchina del caffè in Moeder, o le continue scope presenti in Vater, non sono motrici di una risata aperta, liberatoria, quanto piuttosto di un riso strozzato da un senso di colpa e da domande a cui forse non vogliamo rispondere.

Come nel mondo classico dei clown o delle maschere della commedia dell’arte affiora in maniera sottile seppur perentoria un mondo demonico, sotterraneo, ínfero, ma nello stesso tempo ricco e liberatorio. I funerali, oppure le morti e le violenze, sono quasi apotropaici, degli scongiuri rituali atti da un lato a esorcizzare le forze oscure, dall’altro a renderci coscienti della loro presenza al fine di legare e imbrigliare le pulsioni più disturbanti.

L’inizio di Kind è esemplare da questo punto di vista: in una strana selva montuosa degli uomini con maschere e tute da scienziati tengono sollevato un enorme masso. Dopo una lunga incertezza il macigno piomba a terra. In seguito viene risollevato e posto in alto su delle rocce ma sempre in maniera precaria e instabile. Infine la selva viene scossa da un terremoto che genera una frana devastante. L’elemento di pericolo resta dunque presente in scena per tutta la performance. Non lascia scampo alcuno e non ce ne si può assolutamente liberare. Si è sempre minacciati e la morte cammina al nostro fianco, ci sfiora in ogni istante. Come diceva Artaud il teatro ci ricorda che il cielo può caderci in testa in ogni momento.

L’intera trilogia è costellata di riferimenti iconici legati non solo al mondo della fiaba o della mitologia, ma anche a una certo pensiero superflat intrecciante elementi pop e classici, cultura alta e bassa. Questa prassi si ripropone anche nella selezione musicale dove Joan Baez coesiste con arie operistiche e musiche elettroniche. I generi si mischiano creando accostamenti imprevisti non solo ironici ma volti a perpetuare quel senso di perturbante precarietà che caratterizza la scrittura scenica di Peeping Tom.

Il mondo familiare evocato in A Family Trilogy appare dunque affetto da profonde venature tragiche esaltate da un forte humor noir fortemente presente nella cultura nordica. Non è un caso l’affiorare più o meno nascosto di atmosfere alla Roy Anderson, soprattutto in Moeder (per esempio nella scena del funerale iniziale che si intravede dietro la finestra come in una ripresa a camera fissa tipica del regista svedese).

Un ultima nota sulla danza particolarissima proposta da Gabriela Carrizo e Franck Chartier. I corpi sono sempre fluidi, quasi scomposti, alla ricerca di pose innaturali e precarie, dove l’equilibrio e la stabilità sono sempre messe in discussione. Corpi quasi di contorsionisti si agitano sulla scena, mai conformi a un canone e pronti a divenire animali, oggetti, mostri. In perenne mutazione essi assumono valenze multiple, ibride, equivoche.

Peeping Tom ci offre un teatro danza, – o forse meglio un semplice teatro pronto a utilizzare diversi linguaggi a seconda delle necessità compositive ed espressive -, sempre a cavallo tra surrealismo e iperrealismo, volto a raccontare il mondo della famiglia come tutt’altro che rassicurante. Un ambiente costellato di pericoli mortali, di violenze, di nevrosi, di desideri non sempre leciti e paure, raccontato da personaggi sempre sull’orlo di un abisso, tra realtà e fantasia, tra concreto e astratto. Un teatro efficace, di straordinaria e raffinata scrittura scenica e solidità compositiva, che possiede una chiara e personale visione della funzione della scena: uno specchio mai gentile, strumento volto a misurare gli aspetti più fragile del nostro vivere e a scoperchiare i vasi di Pandora sepolti sotto la coltre rassicurante della civiltà.

KIND visto a TorinoDanza l’1 ottobre 2019

MOEDER visto a Torino Danza il 3 ottobre 2019

VATER visto a La Batie a Ginevra agosto 2014

Xenos

Xenos: Akram Khan a TorinoDanza racconta l’orrore della Grande Guerra

Xenos in greco antico indicava, con una certa ambiguità, lo straniero, l’ospite o l’amico lontano. Forse più semplicemente designava un individuo che non faceva parte della comunità. Akram Khan utilizza questa parola antica come titolo della sua ultima opera coreografica dedicata ai soldati coloniali indiani dell’esercito inglese che hanno combattuto nella Prima Guerra Mondiale. Xenos, commissionato da 14-18 NOW, l’associazione che ha promosso le attività legate alla commemorazione del centenario della Grande Guerra, ha dunque un significato politico riferendosi al contributo dimenticato dei Sipahi, costretti a combattere e morire sui campi di battaglia in Occidente.

La danza espressa da Akram Khan per raccontare la vicenda di un danzatore indiano trasformato in strumento di guerra è un’abile e fine commistione di Kathak, lo stile tradizionale indiano originario dell’Uttar Pradesh, e un linguaggio coreografico contemporaneo. Katha in sanscrito significa “colui che racconta una storia” e indica probabilmente l’origine del genere legata all’attività dei cantastorie che sostenevano il racconto con il movimento delle mani e dei piedi e con le espressioni del volto. Xenos è infatti una narrazione costruita per lo più con immagini che generano un forte stato d’animo d’empatia con il personaggio sulla scena gettato a forza in un contesto che lo angoscia e spaventa, una situazione che non riesce né a capire né a controllare e in cui la sua vita è fragile come un fiocco di neve nel deserto.

L’inizio dello spettacolo però è decisamente rassicurante e accogliente. All’entrata del pubblico in sala si vedono il cantore e il percussionista (figure classiche nell’accompagnamento del Kathak). Al centro della scena essi sono seduti su dei tondi cuscini, illuminati di un nastro di lampadine come in uno dei tanti cortili di Benares, mentre eseguono musiche tradizionali. Talvolta la loro esecuzione è interrotta come da un boato di cannone, che fa tremolare le luci e nasconde il canto soave. Il rombo del tuono che preannuncia la tempesta imminente.

L’ingresso del danzatore, quasi catapultato in scena, non muta questa immagine volutamente pregna di esotica serenità. Vengono immessi solo alcuni particolari inquietanti, come il tavolino che si rompe al minimo tocco, le sedie vuote a lato della scena, i numerosi canapi che attraversano la scena. Akram Khan inizia in suo racconto sempre in piena atmosfera di una vera performance di Kathak in cui alla pura danza seguono le tre parti ritmiche in cui spiccano il parhant, dove il danzatore esegue movimenti scanditi da sillabe, e il taktar, in cui i movimenti delle gambe e dei piedi producono il suono dei campanelli di cui sono fasciate le caviglie. Questa atmosfera è minata come dall’incombere di un uragano che presto si scatena. La calda luce iniziale lascia il posto a controluce freddi e tagli come di lame. Le corde che infestavano come serpi tutta le scena cominciano a risucchiare tutti gli elementi facendoli sparire dietro la piccola collina che ingombra il palcoscenico. Il danzatore rimasto solo in scena viene anch’esso trascinato dal franare delle cose: i campanelli alle caviglie si trasformano in bandoliere di pallottole, il cortile diventa trincea, la musica da armoniosa diventa dissonante, angosciante, terribilmente incalzante.

Tutto richiama un conflitto totale che non lascia scampo alcuno. L’uomo al centro della scena è in totale balia degli eventi. Una voce dice: questa non è una guerra. È la fine del mondo”. La terra è l’elemento più straziante del racconto. Non madre, non accogliente abbraccio, ma tentacolo che stritola, scavo di trincea, oggetto d’offesa in seguito a deflagrare delle granate, tomba fetida e fangosa. Il corpo ne è oltraggiato, sporcato, sommerso.

Il grammofono in alto sulla collina è altro oggetto perturbante, fuori contesto, rinnovato in una funzione colorata di morte e non più di gioia conviviale. Esso diventa megafono da cui sgusciano gracchianti nomi dei caduti, faro che illumina il campo di battaglia, bocca di cannone.

Il finale è struggente. L’uomo ormai annichilito e schioccato da tanta violenza viene sommerso da una frana di pigne dove, ancora una volta, l’elemento naturale non richiama alla vita ma alla morte e all’offesa. Una voce ci interroga con le parole di Jordan Tannahill, autore dei brevi testi che costellano la narrazione coreografica: “Ho ucciso. Sono stato ucciso. Non è abbastanza?”

Sublime la musica composta da Vincenzo Lamagna nella sua capacità di evocare un’atmosfera di perenne conflitto. Stridii, ritmi ossessivi, dissonanze non mai risolte, tutto concorre a disegnare un’apocalisse.

Xenos è opera di cruda potenza evocativa in cui appare in tutta la sua agghiacciante violenza l’orrore di tutte le guerre. Inoltre è stata forse l’ultima occasione di poter ammirare Akram Khan in scena in seguito alla sua decisione di abbandonare l’esecuzione delle sue coreografie. Un lavoro commovente e intenso, un’interrogazione senza appelli a render conto non solo della brutalità scatenata ma soprattutto volta a chiedere conto di una rimozione: il destino tragico di un milione e mezzo di soldati indiani venuti a combattere nelle trincee di una guerra d’Occidente.

Visto a TorinoDanza il 26 settembre 2019

Sutra Sidi Labi Cherkaoui

SUTRA DI SIDI LABI CHERKAOUI E ANATOMIA DI SIMONA BERTOZZI APRONO IL FESTIVAL TORINODANZA

L’edizione 2019 di TorinoDanza è stata inaugurata al Teatro Regio con Sutra, acclamata opera che riunisce in sé la danza poetica e suggestiva del maestro coreografo belga di origine magrebina con la disciplina delle arti marziali dei monaci Shaolin.

Sidi Labi Cherkaoui non è il primo artista occidentale conquistato dall’incontro con le filosofie e le pratiche corporee orientali. La fascinazione di Mejerchol’d per il teatro Nō, la folgorazione di Artaud per il teatro balinese, così come l’innamoramento di Rodin per le danzatrici cambogiane, sono solo alcuni incroci, peraltro notevoli, che hanno segnato il progressivo incontro tra Asia e Europa nell’arte solo nell’ultimo secolo. In questi confronti, spesso segnati da fraintendimenti peraltro fruttuosi, si è quasi sempre cercato una dimensione spirituale che si fatica a trovare nella nostra cultura, ma anche una sorta di mistero insondabile, una profondità abissale attraente come un potente magnete. Nell’Oriente, dal tempo degli antichi Greci, ci si perde e qualche volta ci si ritrova.

È il caso di Sidi Labi Cherkaoui da quando nel 2007, per sfuggire dalla routine in cui si sentiva ormai costretto, va in visita del Tempio Shaolin sulle montagne del Songshan (nella provincia di Henan in Cina), ritenuto dalla tradizione la culla del buddhismo Chan (zen in giapponese) per avervi ospitato il fondatore Bodhidharma. Da questo viaggio e in seguito all’incontro con la pratica nasce quest’opera che si avvale del suggestivo design scenico di Antony Gormley (già collaboratore in Icon e Noetic presenti nella passata edizione del festival) e della composizione musicale di Szymon Brzóska.

Sutra appare come un’esplorazione del corpo animato nel movimento da una mente in quiete, pacificata nel rapporto tra sé, gli altri e la natura. Un percorso rigoroso fatto di geometrie essenziali e compiuto mediante l’utilizzo di semplici moduli scenografici, delle scatole rettangolari di legno grezzo via via ricombinate a creare spazi d’azione per il corpo e la coscienza. Una meditazione in movimento in cui le casse diventano via via bare, porte, passaggi, case, letti. Semplici mattoni con cui il danzatore e il monaco-bambino modulano e cambiano lo spazio scenico, come fossero mandala continuamente disegnati e distrutti. Come in molte danze sacre del buddismo mahayana, la profondità e serietà del processo viene minata continuamente da momenti comici, quasi dissacranti, a sancire la necessità del non attaccamento al proprio pensiero, un non prendersi sul serio che relativizza gli assoluti. Il rigore della geometria delle linee viene inoltre ammorbidito dalla fluidità del movimento delle tecniche delle arti marziali dei monaci ispirate in buona parte dal movimento animale. Sutra è dunque un’opera coreografica che sa unire la profondità di un’esigenza di ricerca spirituale con una forte componente pop molto apprezzata dal pubblico in sala e dalle platee di tutto il mondo.

Di tutt’altro tenore Anatomia di Simona Bertozzi, opera che si situa quasi al polo opposto rispetto a questa visione di corpo spirituale. L’esplorazione operata dalla coreografa insieme alla giovanissima danzatrice Matilde Stefanini, si nutre e si avvale della composizione sonora live di Francesco Giomi, e attraversa sondandole le possibilità anatomiche del corpo. Il corpo-strumento valuta distanze, velocità, ritmi, equilibri e disequilibri, distensioni e contrazioni, tutte le possibilità del corpo-macchina al variare dei parametri. Un flusso di scambio continuo tra il movimento e il suono in rapporto a uno spazio-laboratorio per le esplorazioni anatomiche. In ogni movimento, in ciascuna frase coreografica possiamo come ammirare i vettori di velocità, i pesi che si equilibrano, la lotta strenua contro la gravità e le forze della fisica così come le infinite possibilità del corpo umano di estendersi e contrarsi, espandersi e implodere, allungarsi e restringersi. Un rigore scientifico in cui il suono rimanda al corpo che restituisce lo stimolo per lanciarsi verso una nuova variazione o una nuova espansione del processo .

In apertura TorinoDanzapropone quindi due modi in cui il corpo diventa strumento di conoscenza: da una parte in Sutra verso una dimensione spirituale, volta a una maggiore consapevolezza del proprio sé interiore, in Anatomia verso una meccanica di relazioni e possibilità che si instaurano tra il corpo, il suono e lo spazio. In entrambi i lavori emerge il rigore della ricerca, lo studio profondo e l’urgenza intensa dei processi di ricerca.

Il programma del festival prosegue fino al 26 ottobre con alcuni appuntamenti imperdibili per incontrare alcuni tra i più grandi maestri della danza contemporanea. Xenos di Akram Khan il 25 e 26 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri, l’intera Trilogia sulla famiglia (KindMoederVader) di Peeping Tom l’1, 3 e 5 ottobre prossimi alle Fonderie Limone per la prima volta riunita in trittico e, in chiusura Kamuyot di Ohad Naharin con la Batsheva Dance Company.

Sutra visto al Teatro Regio di Torino il 12 settembre 2019 con l’interpretazione di Ali Thabet

Anatomia visto al Teatro Gobetti di Torino il 13 settembre 2019