Archivi tag: Torinodanza

AB [INTRA] di Rafael Bonachela: la fluida semplicità della bellezza

Torinodanza apre la nuova edizione del festival con la presentazione in prima italiana di Ab [intra] del coreografo catalano-australiano Rafael Bonachela con la Sidney Dance Company dal lui diretta dal 2008. Il lavoro di Bonachela si è sviluppato nel corso degli anni in un continuo melange tra cultura alta e pop, che in questo lavoro risalta alla massima potenza.

Ab [intra] in latino significa “da dentro”, “dall’interno” e tale locuzione è la chiave di lettura dell’intero balletto. I diciassette danzatori entrano in scena come se fossero in una sala prove mentre stilettate di violoncello attraversano lo spazio come il battito di pulsazione di un cuore. Sul palcoscenico l’insieme dei danzatori abbozza frasi di movimento. Non siamo ancora al linguaggio ma al balbettio di qualcosa che nasce da dentro e prova e estrinsecarsi verso l’esterno. Man mano si creano piccole formazioni, a due, a tre, che provano a formare frasi più complesse e compiute. Lo sguardo dello spettatore non può accoglierle tutte insieme, deve scegliere cosa guardare, operare un montaggio suo proprio, diverso da quello di qualsiasi altro.

Il tessuto sonoro amplia il suo spettro emotivo, cattura l’attenzione verso una gamma di emozioni che cominciano a sorgere in un paesaggio costituito solo da corpi in movimento e luce. La struttura si viene via via a definire. I pezzi di insieme si sciolgono in commuoventi soli, pas de deux, e trii. Il movimento è si atletico e virtuosistico, ma non stucchevole o fine a se stesso. La componente emotiva, istintuale è la chiave di volta che permette di trascendere la tecnica per colpire l’animo dell’osservatore e avvincerlo.

La struttura drammaturgica è un continuo eterno ritorno di una pulsazione dal singolo all’insieme passando per le formazioni a due e a tre. Si conforma come un costante dialogo tra l’individuo e la società, che si aggrega e disgrega, attraverso la fluidità di questa energia sorgente dal profondo dell’animo. Non vi sono traumi in questo comporsi e scomporsi, ma una naturale fluidità, una aggregazione di molecole eternamente combinantesi fino a raggiungere uno scopo per poi sciogliersi e incominciare nuovamente il processo. La luce e la musica sono il bagno di cultura di queste cellule singole pronte a combinarsi per formare sempre nuovi organismi.

La tessitura sonora è composta dal secondo concerto per violoncello e orchestra Klâtbûtne del compositore lettone Peteris Vasks, nella versione eseguita dalla violoncellista argentina Sol Gabetta, e ai ritmi, viscerali, coinvolgenti della musica elettronica dell’australiano Nick Wales che si sovrappone e si commista con la composizione di Vasks.

Ab [intra] dunque benché appaia semplice e riconoscibile nella sua forma, nasconde nella comprensibile tessitura il mistero di ogni disegno che appare sulla tela. Tutto è dosato, senza eccessi, senza ricercare la meraviglia ma facendola semplicemente apparire come spontanea.

Mallarmé scriveva nel suo saggio sul balletto che la danzatrice sa esprimere attraverso il movimento: «una poesia liberata da qualsiasi scrittura». Una danza non narrativa come quella di Rafael Bonachela esemplifica il pensiero del grande poeta francese. Tutto può essere visto e sentito in quei movimenti così ben concepiti da trascendere la tecnica che li ha generati. Ogni occhio che guarda può scoprirvi un mondo e riempire pagine per descrivere ciò che ha provato senza riuscirvi. Per questo credo Ab [intra] ha riscosso così tanto successo tra il pubblico di Torinodanza, perché è un vaso vuoto che ognuno può riempire con ciò che riesce a cogliere. Vi è un senso di libertà e di fluente emozione che libera dalla necessità razionalista e tutta occidentale di voler per forza comprendere un’opera d’arte. Lei è lì nel suo svolgersi qui ed ora e ci pone enigmi come la sfinge, possiamo risolverli oppure ignorarli e godere per qualche tempo la gioia della bellezza dei corpi in movimento.

COREOGRAFIA RAFAEL BONACHELA
luci Damien Cooper
scene e costumi David Fleischer
partitura musicale originale NICK WALES CON KLĀTBŪTNE DI PĒTERIS VASKS
DANZATORI Lucy Angel, Naiara de Matos, Dean Elliott, Riley Fitzgerald, Jacopo Grabar, Liam Green, Madeline Harms, Luke Hayward, Morgan Hurrell, Sophie Jones, Connor McMahon, Jesse Scales, Piran Scott, Emily Seymour and Chloe Young.
produttori Guy Harding, Simon Turner, Tony Mccoy, Annie Robinson, Jenn Ryan
Sydney Dance Company
con il patrocinio dell’Ambasciata di Australia in Italia

Durata 75′

Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri il 15 settembre 2023

Neighbours ph:@_Julien_Benhamou

Neighbours e Un discreto protagonista: a TorinoDanza dialoghi tra vicini lontani

|ENRICO PASTORE

Nel terzo appuntamento a TorinoDanza vanno in scena due prime nazionali: Neighbours e Un discreto protagonista, coreografie nate da incontri importanti e casuali in altre opere cruciali nella danza degli ultimi anni: da una parte Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit si sono trovati a lavorare per William Forsythe in A quiet evening, mentre Damiano Ottavio Bigi e Lukasz Przytarski durante Transverse orientation di Dimitri Papaiouannu.

Neighbours nasce anche dall’incontro di due diversi linguaggi coreografici: Brigel Gjoka ha una formazione tecnica focalizzata sul contemporaneo e sulle tecniche di improvvisazione, mentre Rauf “RubberLegz” Yasit è un B-boy esponente della corrente astratta della breakdance. Sono dunque vicini, come recita il titolo Neighbours, ma nello stesso tempo i loro linguaggi corporei sono tangenti ma mai intersecanti. Così come le loro origini (albanese Gjoka e curdo Rauf) sono prossime, ma l’eccezionalità curda, popolo senza terra in perenne stato di guerra e di difficile convivenza con gli stati che li ospitano con ostilità, rende distanti le loro radici (per quanto anche gli albanesi nei Balcani conoscano la difficoltà delle convivenze etniche forzate).

Linguaggi, pratiche e origini differenti, forse lontane nella loro prossimità, hanno generato una coreografia (supervisionata dallo sguardo dello stesso Forsythe) tesa all’incontro. A fare da anello di congiunzione la musica originale suonata dal vivo dal musicista e compositore turco Ruşan Filiztek.

Neighbours appare al pubblico inizialmente come un’opera tecnica e ostica. Nel silenzio i due danzatori cercano di usare i loro complessi codici espressivi alla ricerca di un incontro. Un difficile equilibrio di geometrie e flessibilità, di pause e accelerazioni improvvise, di spigoli e curve, di muscolarità e grazia

Solo con il perdurare di tali incastri subentra la musica ad addolcire il dialogo, rendendolo più intimo e personale, così come la luce diviene più delicata, espressiva, meno asseverativa.

Solo a partire da questo momento Neighbours si trasforma in un oggetto coreografico caldo, sfuggente alla grande tecnica messa in campo dai due eccellenti danzatori, e pronta a concedere allo sguardo sfumature commoventi, persino carezzevoli, nonostante certa maschia ruvidezza. Solo a questo punto, quando la tecnica va oltre se stessa, si abbandona, si dimentica, ecco l’incontro, non solo tra i danzatori in scena, ma con il pubblico in sala.

Neighbours è un’opera di pazienza e racconta come solo tramite l’attesa e lo sguardo attento possa avvenire la vera conoscenza tra le persone. Il primo sguardo concede, spesso e volentieri, un’immagine deformata dai pregiudizi. Si vedono i luoghi comuni e non le eccezioni. In quest’epoca frettolosa in cui siamo costretti a voltare pagina in fretta, a dare un’immagine di noi stessi in un secondo, Brigel Gjoka e Rauf “RubberLegz” Yasit ci ricordano l’importanza del tempo affinché una verace comprensione possa emergere dopo le prime impressioni dettate dall’impulso.

Di natura diversa Un discreto protagonista di Damiano Ottavio Bigi, Lukasz Przytarski e la regista e drammaturga Alessandra Paoletti. L’incontro e la relazione sono anche in questo caso i protagonisti della coreografia, ma se in Neighbours si parte da un dato concreto, umano e tecnico insieme, in Un discreto protagonista abbiamo come base un elemento astratto e sfuggente come il vuoto.

I due danzatori sviluppano incontri, dialoghi, collisioni, lotte, su uno spazio vuoto, il quale assume aspetti differenti proprio grazie agli eventi che in esso capitano. La sviluppo è però freddo e le premesse restano opache e ostiche. Non è chiaro quale tipo di vuoto sia oggetto di riflessione. Si parla di vuoto matematico e di vuoto sapienziale, ma l’impressione è che ognuno debba trovarsi la sua strada in solitudine.

Un discreto protagonista è un’opera di grande livello tecnico incapace, nell’opinione personalissima e fallace di chi scrive, di proiettarsi empaticamente al di là del proscenio, dimenticando i presupposti intellettuali e filosofici per essere realmente oggetto caldo, aperto e vuoto per un incontro con l’altro. È prigioniero del suo stesso disegno e delle sue proprie aspirazioni.

Neighbours

BRIGEL GJOKA | RAUF “RUBBERLEGZ” YASIT & RUŞAN FILIZTEK
Albania/Regno Unito/Stati Uniti/Turchia

Fonderie Limone – Sala Grande 16, 17 settembre ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti
coreografia e interpreti Brigel Gjoka, Rauf “RubberLegz” Yasit
creato in collaborazione con William Forsythe
compositore e musicista Ruşan Filiztek (Accords Croisés)
luci Zeynep Kepekli
costumi Ryan Dawson Laight
Una produzione Sadler’s Wells con il supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
coproduzione Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Un discreto protagonista

DAMIANO OTTAVIO BIGI | ALESSANDRA PAOLETTI
Italia/Polonia

Fonderie Limone – Sala Piccola 16 settembre, ore 22.15, 17 settembre, ore 19.30 e ore 22.15 – Prima nazionale
durata 50 minuti

Concetto e direzione Alessandra Paoletti & Damiano Ottavio Bigi
danzatori Damiano Ottavio Bigi & Lukasz Przytarski
Torinodanza Festival
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
ONE DANCE WEEK Festival Plovdiv, Compagnia Simona Bucci/Degli Istanti
D'un reve Salia Sanou

We shall overcome: il sogno di Salia Sanou

Secondo appuntamento a TorinoDanza e si cambia completamente atmosfera. Dalle ieratiche e primordiali acque di Damien Jalet si viene trasportati in una scena politica, dove la storia si confronta con l’attualità in un giocoso sogno di libertà e uguaglianza. È l’aspirazione del coreografo e ballerino del Burkina Faso Salia Sanou, attivo sia in Francia con la sua compagnia Mouvements perpetuels, con sede a Montpellier, e a Ouagandougou con il Centro di promozione coreografico da lui fondato con Saydou Boro.

D’un reve si presenta in forma ibrida, tra coreografia e musical, un luogo di sogno dove la realtà presente e passata sono ben presenti. L’opera inizia con A change is gonna come di Sam Cooke del 1963, vero manifesto dei diritti civili in America. Il brano è cantato dal vivo da tutti i danzatori immersi fino alle caviglie in batuffoli di cotone. Sullo sfondo quattro ceste colme di bianchi fiocchi simbolo di un passato di schiavitù e oppressione.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

La danza comincia mentre sullo sfondo vengono proiettate immagini d’epoca delle marce dei neri negli Stati Uniti negli anni ’60, mentre i danzatori ripetono le ultime parole di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis nel 2020, da cui scaturì il movimento di protesta Black Lives Matter.

D’un reve inizia dunque con toni cupi, in cui subentra un certo sconforto, nel dire che i tempi cambiano ma certe cose restano sempre uguali. Presto subentra però un altro clima, dopo aver cantato We shall overcome, il capolavoro di Pete Seeger, poi portato in auge da Joan Baez sempre nel 1963, ma cantato prima di loro dalle donne afroamericane dipendenti dall’American Tobacco Company in sciopero nel 1943.

È a questo punto che i danzatori prendono dei grossi rastrelli e fanno scomparire il bianco cotone dietro il fondale facendo apparire il nero del tappeto danza. D’un reve cambia passo, si trasforma in un musical, una vera carrellata di successi musicali afroamericani, canzoni che, dagli anni ’30 a oggi, hanno cambiato il ruolo e l’immagine della comunità nera agli occhi del mondo e che tutti noi abbiamo ballato o ascoltato a partire da Get Up (I Feel like Being a) Sex Machine.

Salia Sanou vuole giocare con il pubblico, trasmettere il sogno di integrazione e parità di diritti e dignità a partire dalle festosità della musica, da quel linguaggio universale che unisce i popoli oltre i confini, i colori, le bandiere. La scena si trasforma in un dancing club anni ’70, con luci colorate, palchi mobili, e danza sfrenata.

Salia Sanou ci presenta una corporeità comune, costituita da corpi normali non atletici, la danza è sporca ma calda come il fruscio della puntina su un disco di vinile. Non si cerca la perfezione stilistica ma l’empatia, il coinvolgimento, la vibrazione dionisiaca dei corpi che ballano.

D’un reve di Salia Sanou ph:@ laurentphilippe

Il pubblico ha accolto calorosamente il sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori e cantanti. Gli applausi sono scroscianti tanto da concedere un piccolo bis di James Brown danzato anche dallo stesso Sanou.

D’un reve è un’opera vitale, persino ottimistica ma lascia profonde riflessioni in questo clima di elezioni politiche dove la destra e il suo pensiero sembrano invincibili. Applaudiamo la comunità nera quando ci intrattiene ma rimaniamo insensibili alle loro morti in mare, alle loro guerre causate dal postcapitalismo da noi abbracciato. Restiamo muti e sordi di fronte ai crescenti episodi di intolleranza e forse quindi i nostri applausi focosi sono ipocriti. Forse lo sguardo con cui osserviamo le opere della comunità nera è ancora velato da un esotismo di maniera, da una simpatia per un diverso creduto inoffensivo e legato al puro intrattenimento. Chissà quanti usciti dal teatro saranno stati contagiati dal sogno di Salia Sanou e dei suoi danzatori, e quanti invece stamattina avranno guardato con pietà mista a disprezzo il nero davanti al panettiere che chiede l’elemosina.

Fonderie Limone – Sala Grande 13, 14 settembre, ore 20.45 – Prima nazionale
durata 65 minuti (senza intervallo)

Ideazione e coreografia: Salia Sanou
con Lydie Alberto, Milane Cathala-Difabrizio, Ousséni Dabaré, Ange Fandoh, Virgine Hombel, Kevin Charlemagne Kabore, Dominique Magloire, Elithia Rabenjamina, Marius Sawadogo, Akeem Washko,
Siham Falhoune, Ida Faho
musiche: Lokua Kanza
testi: Capitaine Alexandre et Gaël Faye
video: Gaël Bonnefon
scenografia: Mathieu Lorry-Dupuy
luci: Marie-Christine Soma
costumi: Mathilde Possoz
Compagnie Mouvements perpétuels

Variazioni Goldberg

ANNE TERESA DE KEERSMAEKER: LE VARIAZIONI GOLDBERG

Nel capitolo VIII del Doctor Faustus di Thomas Mann, il conferenziere balbuziente Kretzschmar, racconta della lotta furibonda tra Beethoven e il Credo con fuga della sua Messa Solenne op. 123. I detrattori del grande Ludovico Van osavano affermare di una sua manchevolezza nell’arte del contrappunto, unico banco di prova della suprema maestria. Kretzschmar narra al suo ristretto uditorio l’aneddoto inquietante di una notte burrascosa in cui Beethoven, senza cena per averla dimenticata, licenzia le fantesche con le evangeliche parole: “neanche un’ora sapete vegliare con me?” senza curarsi che le ore passate erano ben più di una. Gli amici, al mattino lo trovarono in uno stato miserando ma vittorioso. Il Credo era pur stato scritto.

Il racconto ovviamente è romanzato e ben poco di vero riscontra la Storia. Beethoven, come ricorda Kundera nei suoi stupendi romanzi e saggi, si sforzò piuttosto di conciliare il contrappunto con la forma sonata. come ben dimostrano le sue ultime opere (tra tutte, oltre alla Messa, la Sonata per pianoforte in la bemolle maggiore op. 110, e la Sonata in re per violoncello op.102).

Il succo del racconto manniano si concentra piuttosto in un aspetto: con la conquista della civiltà si è perso in naturalezza, e così la lotta con la forma è diventato sforzo titanico, soprattutto laddove il linguaggio musicale, proprio nel contrappunto, esprime il suo massimo rigore matematico e formale.

Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

Cos’è il contrappunto che ci spinge a scrivere questa prolissa introduzione? Se si potesse in parole semplici esprimere un’arte complicatissima si potrebbe forse dire così: un concordare di diverse voci indipendenti sotto l’aspetto melodico, e le cui relazioni avvengono per lo più attraverso processi imitativi. Puncta contra punctum dicevano in latino i maestri medievali, ossia nota contro nota. Le voci diverse si rincorrono, appaiate e distanziate insieme, concorrendo a una melodia.

Le leggendarie Variazioni Goldberg, sono un pezzo per clavicembalo a due manuali composto per alleviare l’insonnia dell’Ambasciatore von Kayserlingk, benefattore del giovane Goldberg, allievo prediletto di Johann Sebastian Bach, e restano un caposaldo e un monumento dell’arte del contrappunto. Un pezzo universalmente noto, ripreso dai più grandi concertisti per misurare il proprio virtuosismo (si pensi a Glenn Gould), ispiratore di opere e pensieri sull’arte nel corso degli ultimi due secoli, racchiude in sé la straordinaria bellezza della matematica applicata alla musica.

Le Variazioni Goldberg BWV 988 constano di un Aria con trenta variazioni e una ripresa finale. Le trenta variazioni sono a loro volta divise in tre cicli di dieci: una danza, una toccata e un canone, quest’ultimo man mano che l’opera avanza, aumenta l’intervallo tra le voci. In realtà le trenta variazioni si conformano come due semicerchi il cui punto di tangenza è la variazione n.16, unica di 16+32 battute (le altre sono di 16 o di 32). È un sorta di andata e ritorno dall’Aria iniziale, di cui si varia solo il basso e non la melodia, un rientro ad essa dopo un lungo viaggio. Un riflusso di marea dopo una lunga notte.

Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

Non è certo mia intenzione mettermi a fare un’analisi delle Variazioni Goldberg in quanto sarebbe usurpare competenze proprie a studiosi di musicologia, quanto piuttosto provare a introdurre il lavoro di Anne Teresa de Keersmaeker, insieme al giovane e talentuosissimo pianista Pavel Kolesnikov, sull’opera di J. S. Bach.

Le due linee melodiche dello spettacolo sono appunto la musica e la danza, indipendenti e intersecantesi, secondo variazioni e riprese. Si riproduce in qualche modo il processo e la struttura dell’opera di Bach, secondo altri principi, più propri al movimento. Il viaggio dall’Aria iniziale alla sua ripresa inizia nel silenzio. È la danza ad apparire per prima e a innescare questa nuova e vitale modalità di contrappunto. La scena è cosparsa di semiellissi a dettare spazi propri al movimento secondo schemi arcani, matematici e magici per noi che non conosciamo l’arte e il pensiero sottesi, ma pronti a rispondere alle sollecitazioni musicali. C’è una segreta corrispondenza tra quei glifi e i tessuti musicali. Tutto è puncta contra punctum, ma senza la lotta titanica di Beethoven. Il confronto è più leggero, apparentemente. Insieme musica e danza affrontano, fianco a fianco, non una lotta ma l’attraversamento di una lunga notte, colma di pericoli nonostante la calma apparente.

Si viaggia alla luce della luna, pallida e argentea come lo schermo sulla destra della scena. La luce si sposta pian piano, modifica la sua incidenza sullo spazio e il movimento, e poi sparisce. Rimane la musica e paradossalmente i nostri sensi si acuiscono. È l’ora più buia. Gradualmente torna una luce nuova, un’alba rosata e poi la chiarore dorato di un sole. È forse sorto un nuovo giorno e con il suo arrivo, ecco la ripresa dell’Aria. Siamo tornati a un punto di partenza. Non si sa se nel percorso siamo cambiati, o se qualcosa è mutato nell’ambiente e nel mondo. È stato un viaggio iniziatico forse. Oppure abbiamo solo attraversato una lunga notte insieme, inconsci dei pericoli che gravavano su di noi.

Variazioni Goldberg Variazioni Goldberg ph © ANNE VAN AERSCHOT

È cifra stilistica di Anne Teresa De Keersmaeker intavolare intensi dialoghi matematici e musicali con i brani che accompagnano le sue coreografie. Bach è stato inoltre affrontato da poco con i sei Concerti Brandeburghesi, ma la frequentazione con il grande compositore tedesco affonda nelle radici della carriera della coreografa belga. Vi è nell’incontro con Bach un manifestarsi di astratto e concreto, la vita del corpo contrapposta ai principi matematici della musica che nell’incontro dal vivo si scambiano un poco le parti: la maestria della danza delle mani di Pavel, mani piene di vita, guizzanti e sorprendenti, e i movimenti geometrici, precisi come quelli di un orologio, asettici, per niente emotivi della de Keersmaeker. Corpo e mente, pensiero e azione, le due voci di questo contrappunto, i due compagni che attraversano la notte per ritrovarsi insieme all’alba.

In tutto questo c’è anche il pubblico che osserva e genera una nuova coppia: ciò che avviene in scena e ciò che viene ricreato nell’occhio dell’osservatore. Si è partiti da una storia dentro una storia e concludiamo con un mito, quello indiano che parla di due uccelli appollaiati sui rami dell’albero della vita. Uno mangia una bacca, l’altro si limita a guardare. Non può esistere uno senza l’altro. Solo guardandosi reciprocamente si garantiscono l’esistenza. Solo nel reciproco sguardo vi è la scintilla della vita.

Visto a TorinoDanza alle Fonderie Limone di Moncalieri il 28 ottobre 2021

Coreografia e danza: Anne Teresa de Keersmaeker

Musica: Variazioni Goldberg, BWV 988 di J.S. Bach

Pianoforte: Pavel Kolesnikov

Collaborazione musicale: Alain Franco

Assistente alla scenografia: Diane Madden

Disegno Luci e Scene: Minna Tiikkainen

Rosas

Durata 120′

Dellavalle/Petris

IL NIDO E IL TORO: ALLA RADICE DEL SENSO DEL RACCONTO

L’ultimo fine settimana di settembre mi ha portato a contatto con due opere in sé molto diverse per approccio drammaturgico, estetico e politico, ma in qualche modo correlate proprio nel loro essere opposte. Come le piante del mito indiano una ascendente verso l’alto, l’altra discendente verso il basso intrecciano i loro rami e diventano la casa, non più degli dei, ma delle immagini.

Questo appartenere a piani e orientamenti diversi, ci pone a contatto con alcune questioni sempre più urgenti: riformulare le funzioni della scena, in primo luogo; in seconda battuta mette in questioni le modalità di racconto della realtà quando questa si fa sempre più sfuggente, relativa, evanescente. Anzi forse la vera domanda è se esista una realtà da raccontare e non ci si trovi di fronte a una miriade di punti di vista parziali, divisi e sparpagliati come i frammenti di uno specchio rotto, e solo attraverso la relazione di queste diverse isole possa intravedersi un disegno mai statico ma multiforme e cangiante.

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Le opere di cui parlo sono The Nest – Il nido in scena al Teatro Astra di Torino, ultima creazione della Compagnia Dellavalle/Petris da un testo del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz del 1974 e già in anticipo sui tempi rispetto ai temi ambientali; l’altra in scena alle Fonderie Limone nel programma di TorinoDanza è Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou, acclamato artista maestro nell’ideazione di paesaggi immaginari ed evocativi attraverso cui, in ogni sua creazione, riesce a ridefinire cosa sia una coreografia.

Torniamo al tema di apertura. Roberto Calasso scriveva: «La narrazione presuppone la scomparsa della realtà. Non ha senso raccontare a chi è testimone». Questo principio presuppone non la descrizione di un mondo quanto piuttosto l’invenzione di uno non esistente ma possibile, e nel suo essere plausibile ecco farsi specchio riflettente un’immagine che, in qualche modo misterioso, riesce a parlare proprio del mondo attraverso il nascondimento proprio della rappresentazione.

È il processo che avviene nel mito: Agamennone non è solo un semplice reduce di guerra, la sua vicenda non è la cronaca di una vendetta nata dalle conseguenze di un conflitto. È una figura inesistente, una maschera contenitore attraverso la quale parlano le voci (da qui il termine Hypocrites che definisce il ruolo dell’attore: colui che risponde e interpreta l’oracolo, ossia colui che viene parlato dalle voci) ed entro cui le contraddizioni tra ciò che è considerato giusto e sbagliato possono scontrarsi. La sua storia diventa un luogo altro, una porta dimensionale attraverso cui infinite realtà possono materializzarsi, ed ecco perché, attraverso i secoli, il racconto delle vicende sue e della sua famiglia, ha colpito e ancor colpisce.

Se Eschilo avesse parlato della vera storia del semplice soldato Eumeo, del suo ritorno a casa, del tradimento della moglie Santippe con il vicino di casa, del suo omicidio e delle vendetta del figlio Telegono, il risultato sarebbe stato lo stesso? Quella vicenda lontana dai miti e dagli eroi avrebbe varcato i secoli? Si sarebbe potuto parlare della nascita del tribunale e di fondazione dell’Occidente se Eschilo si fosse limitato alla cronaca?

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Il Nido messo in scena dalla Compagnia Dellavalle/Petris, riscrittura personalissima dal lavoro del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz, mette in questione proprio questo: attraverso la vicenda di un semplice camionista, del suo accettare qualsiasi lavoro per potere mantenere la sua famiglia, anche quelli illeciti come il versare liquami tossici nel lago dove nuota suo figlio mettendone in pericolo la vita, non stiamo raccontando un universale in cui tutti ci troviamo coinvolti? Il racconto fatto ai testimoni di una modalità comune non genera allo stesso modo una catarsi o un satori improvviso?

Dellavalle/Petris scelgono inoltre di portare il piano di realtà ancora più prossimo al pubblico mostrando in scena interviste a giovani coppie che si interrogano proprio su cosa avrebbero fatto al posto del protagonista. Queste confessioni rivelano una realtà più conformista e consenziente del personaggio incarnato dall’attore in scena già molto poco eroe e più complice e vittima di un sistema. Nell’osservare il processo drammaturgico messo in moto ci scopriamo a essere tutti complici di un modello sociale ed economico e, nello stesso tempo, di essere pronti comunque a giudicare severamente chi viene colto in flagranza di reato e, in seguito, di essere altrettanto pronti a giustificare le nostre connivenze con la scusa che il pane va comunque portato a casa e non ci si può permettere di perdere il lavoro.

La cronaca quindi, la microstoria intrecciata con le altre personalissime narrazioni dei cittadini, partecipanti al processo di condivisione drammaturgica con le artiste, ci mostra la tela di ragno entro cui tutti siamo ingabbiati. Il meccanismo attraverso cui siamo tutti schiavi in apparente stato di libertà, e dove l’equilibrio ecologico del pianeta è messo a rischio da un criterio economico fondato sul ricatto e lo sfruttamento, un sistema tenuto a galla proprio dalle nostre continue complicità, dal nostro quotidiano cedere ai ricatti, nell’essere incapaci di astrarsi da un consumismo compulsivo generante un falso senso di appagamento.

Il nido entro cui pensiamo di essere protetti è un’illusione e siamo proprio noi stessi, con i nostri quotidiani piccoli sì, con i nostri bisogni di consumatori, gli artefici della sua distruzione. Proprio come ne La Tana di Kafka, il costruttore del rifugio ne è anche il distruttore.

Non è più quindi il racconto a essere mezzo di emersione di verità nel senso di Aletheia, ossia di ciò che è nascosto, quanto il dispositivo che con le sue trappole fa emergere un contesto. Un processo inverso attraverso cui l’universale sorge dal particolare, dall’elemento cronachistico, dalla microstoria. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non è per nulla nuovo. Fin da Brecht e del teatro agit-prop si provato in teatro a far questo. Eppure perfino quel teatro è rimasto affascinato dal mito. Solo le nuove generazioni stanno riuscendo ad allontanarsi definitivamente da una narrazione che prevede un eroe che universalizza in sé un problema.

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Dimitri Papaioannou ci catapulta in un mondo strutturalmente diverso. Siamo accalappiati fin dall’inizio in un gorgo di immagini, le quali richiamano a loro volta altre immagini, miti, opere d’arte, paesaggi. Papaioannou, architetto come Dedalo, orchestra un meraviglioso labirinto di forme pronte a susseguirsi senza una reale necessità drammaturgica ma come nei sogni dove la logica si fa evanescente. Papaioannou trasforma la scena nel dio Proteo, il quale, affinché pronunci l’oracolo, deve essere tenuto ben saldo a terra e solo dopo l’ultima trasformazione dirà la verità.

È inutile in questa sede fare un elenco dei riferimenti iconografici. Poco importa che il toro diventi quello di Pasifae o il rapitore di Europa, né a quale artista si possa riferire l’immagine della donna partoriente nella conchiglia. Interessa il processo drammaturgico messo in atto da Dimitri Papaioannou: accostare le immagini, farle fiorire una dall’altra, mostrare questi corpi ibridi, nati da generazioni equivoche, mescolare i piani di realtà a livello iconico. In questo disegno non importa nemmeno che vi sia un progetto. Ciò che diventa fondamentale è farsi trasportare come foglie dal vento generato da questo voltar pagine e pagine da un’immagine e l’altra. La realtà appare? O forse come Cobb in Inception di Christopher Nolan siamo intrappolati in un sogno dentro a un sogno? Questo labirinto estetico è provvisto di un qualsiasi filo d’Arianna che ci aiuti a uscire dalla caverna per osservare chi genera le ombre proiettate sullo schermo?

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Il Nido e Traverse Orientation ci mostrano due modi di raccontare il mondo: attraverso l’infinitamente piccolo e l’abissalmente lontano. Come racconta la Tavola Smaragdina, testo cruciale dell’alchimia, ciò che è in alto rispecchia ciò che sta in basso. Ciò che è cambiato radicalmente è la prospettiva in cui si pone l’osservatore. Non è più parte di un mondo solido, costituito di valori ampiamente condivisi, ma è assiso sulla capocchia di un proprio personalissimo spillo, dal quale vede un mondo drasticamente diverso da quello del suo vicino. Queste visioni si possono incontrare solo se in qualche modo riunite in rete, collegate come sinapsi neuronali, riconfigurantesi volta per volta.

Non vi è più una sola realtà. Forse non c’è nemmeno una realtà. Solo dei fenomeni che appaiono fugaci come lampi nella notte. E non ci sono più testimoni nel senso tribunalizio del termine: il terstis, colui che ha visto e ne dà conto; ma secondo l’etimologia che ci porta al mártys (da cui martire) colui che testimonia in pubblico la sua fede. Il fatto di aver vissuto, di essere nella pelle di, rende vero e tangibile ciò che è relativo e personalissimo. Esistono quindi solo sguardi diversi che per confrontarsi necessitano di un termine di paragone, o di uno specchio che rimbalzi l’immagine, rendendo chiaro che, in ogni caso, è sempre tutto un gioco di ombre.

A Family Trilogy

PEEPING TOM: A FAMILY TRILOGY

Peeping Tom, l’acclamata compagnia belga fondata da Gabriela Carrizo e Frank Chartier, si è esibita a TorinoDanza, per la prima volta riunita per tre sere di seguito con l’intera A Family Trilogy. Nel 2014 Vater (padre) ha inaugurato un processo proseguito con Moeder (madre) del 2016 e conclusosi ora nel 2019 con Kind (Figlio). Una ricerca lunga quasi un decennio in cui Peeping Tom, tra le formazioni artistiche più importanti nel panorama della danza mondiale, ha esplorato i più inquietanti recessi insiti nel nucleo familiare. L’occasione di aver visto i tre lavori riuniti ci permette di fare alcune riflessioni generali, seppur solamente accennate, sul complesso lavoro creativo e cogliere nelle singole opere elementi fondanti e ricorrenti.

Il termine forse più appropriato per descrivere gli ambienti in ci si dipana questa intricata matassa familiare è Perturbante nel senso in cui lo intendeva Freud. Das Unheimliche, parola composta da Un (non) e Heimliche (familiare, di casa) nella lingua tedesca descrive infatti tutto ciò che risulta nello stesso tempo estraneo e consueto. Heimliche inoltre contiene nel suo etimo anche due tensioni contrapposte: da una parte descrivere qualcosa di noto legato alla casa e alla patria, e dall’altra si riferisce a un nascosto che avrebbe dovuto rimanere celato e nostro malgrado affiora.

In tutti gli spettacoli che compongono A Family Trilogy questo perturbante, portatore di una certa angoscia, non solo è presente ma costituisce gli elementi, situazioni e ambienti che appaiono a prima vista consueti, ma anche fuori di sesto per tutta una serie di particolari e circostanze. Lo strano bosco in Kind, la sala parto che nello stesso tempo è camera mortuaria in Moeder, la casa di riposo in Vater. Questi habitat, a cui potremmo aggiungere il museo in Moeder, ambiente onirico e allucinatorio come il Museo-Bordello sognato da Baudelaire e con il quale vi sono effettivamente delle analogie, sono noti ma nello stesso tempo contengono elementi mitici, ctonii, primitivi, evocanti forze oscure, legati all’animalità primigenia, e che la civiltà ci ha portato a ignorare ma in qualche modo sgusciano fuori appena abbassiamo le difese.

Non è un caso neppure il continuo riferirsi a elementi mitici (Kronos è continuamente evocato in Vater, come i mondi acquatici e liquidi legati al femminile in Moeder), o della fiaba classica intesa come rito di iniziazione (il bosco in cui si trova la bambina/adulta in Kind), o dell’inconscio come elemento appunto agente nel far affiorare il rimosso (il museo in Moeder). Peeping Tom attinge a tutti questi serbatoi, appunto, per far affiorare ciò che agita le acque oscure e profonde ad affrontarlo con un certo imbarazzo in quanto appartenente a un mondo spaventoso, disagevole, scomodo. La presenza della morte contigua o sovrapposta al luogo deputato alla nascita, la violenza sia subita che esercitata dall’infanzia, la perdita dell’innocenza, il contrasto generazionale che porta a una rituale uccisione del padre, sono elementi presenti nella vita di tutti, agenti in maniera più o meno conscia, ma nello stesso tempo nascosti come polvere sotto il tappeto. Il loro riemergere in maniera prepotente sul palco mette lo spettatore sempre in una situazione non propriamente di comfort.

Anche la profonda ironia insita nelle singole scene e di cui si potrebbero fare numerosi esempi, tra cui il clownesco e ripetuto omicidio nel bosco della turista giapponese in Kind, o la scena di sesso con la macchina del caffè in Moeder, o le continue scope presenti in Vater, non sono motrici di una risata aperta, liberatoria, quanto piuttosto di un riso strozzato da un senso di colpa e da domande a cui forse non vogliamo rispondere.

Come nel mondo classico dei clown o delle maschere della commedia dell’arte affiora in maniera sottile seppur perentoria un mondo demonico, sotterraneo, ínfero, ma nello stesso tempo ricco e liberatorio. I funerali, oppure le morti e le violenze, sono quasi apotropaici, degli scongiuri rituali atti da un lato a esorcizzare le forze oscure, dall’altro a renderci coscienti della loro presenza al fine di legare e imbrigliare le pulsioni più disturbanti.

L’inizio di Kind è esemplare da questo punto di vista: in una strana selva montuosa degli uomini con maschere e tute da scienziati tengono sollevato un enorme masso. Dopo una lunga incertezza il macigno piomba a terra. In seguito viene risollevato e posto in alto su delle rocce ma sempre in maniera precaria e instabile. Infine la selva viene scossa da un terremoto che genera una frana devastante. L’elemento di pericolo resta dunque presente in scena per tutta la performance. Non lascia scampo alcuno e non ce ne si può assolutamente liberare. Si è sempre minacciati e la morte cammina al nostro fianco, ci sfiora in ogni istante. Come diceva Artaud il teatro ci ricorda che il cielo può caderci in testa in ogni momento.

L’intera trilogia è costellata di riferimenti iconici legati non solo al mondo della fiaba o della mitologia, ma anche a una certo pensiero superflat intrecciante elementi pop e classici, cultura alta e bassa. Questa prassi si ripropone anche nella selezione musicale dove Joan Baez coesiste con arie operistiche e musiche elettroniche. I generi si mischiano creando accostamenti imprevisti non solo ironici ma volti a perpetuare quel senso di perturbante precarietà che caratterizza la scrittura scenica di Peeping Tom.

Il mondo familiare evocato in A Family Trilogy appare dunque affetto da profonde venature tragiche esaltate da un forte humor noir fortemente presente nella cultura nordica. Non è un caso l’affiorare più o meno nascosto di atmosfere alla Roy Anderson, soprattutto in Moeder (per esempio nella scena del funerale iniziale che si intravede dietro la finestra come in una ripresa a camera fissa tipica del regista svedese).

Un ultima nota sulla danza particolarissima proposta da Gabriela Carrizo e Franck Chartier. I corpi sono sempre fluidi, quasi scomposti, alla ricerca di pose innaturali e precarie, dove l’equilibrio e la stabilità sono sempre messe in discussione. Corpi quasi di contorsionisti si agitano sulla scena, mai conformi a un canone e pronti a divenire animali, oggetti, mostri. In perenne mutazione essi assumono valenze multiple, ibride, equivoche.

Peeping Tom ci offre un teatro danza, – o forse meglio un semplice teatro pronto a utilizzare diversi linguaggi a seconda delle necessità compositive ed espressive -, sempre a cavallo tra surrealismo e iperrealismo, volto a raccontare il mondo della famiglia come tutt’altro che rassicurante. Un ambiente costellato di pericoli mortali, di violenze, di nevrosi, di desideri non sempre leciti e paure, raccontato da personaggi sempre sull’orlo di un abisso, tra realtà e fantasia, tra concreto e astratto. Un teatro efficace, di straordinaria e raffinata scrittura scenica e solidità compositiva, che possiede una chiara e personale visione della funzione della scena: uno specchio mai gentile, strumento volto a misurare gli aspetti più fragile del nostro vivere e a scoperchiare i vasi di Pandora sepolti sotto la coltre rassicurante della civiltà.

KIND visto a TorinoDanza l’1 ottobre 2019

MOEDER visto a Torino Danza il 3 ottobre 2019

VATER visto a La Batie a Ginevra agosto 2014

Xenos

Xenos: Akram Khan a TorinoDanza racconta l’orrore della Grande Guerra

Xenos in greco antico indicava, con una certa ambiguità, lo straniero, l’ospite o l’amico lontano. Forse più semplicemente designava un individuo che non faceva parte della comunità. Akram Khan utilizza questa parola antica come titolo della sua ultima opera coreografica dedicata ai soldati coloniali indiani dell’esercito inglese che hanno combattuto nella Prima Guerra Mondiale. Xenos, commissionato da 14-18 NOW, l’associazione che ha promosso le attività legate alla commemorazione del centenario della Grande Guerra, ha dunque un significato politico riferendosi al contributo dimenticato dei Sipahi, costretti a combattere e morire sui campi di battaglia in Occidente.

La danza espressa da Akram Khan per raccontare la vicenda di un danzatore indiano trasformato in strumento di guerra è un’abile e fine commistione di Kathak, lo stile tradizionale indiano originario dell’Uttar Pradesh, e un linguaggio coreografico contemporaneo. Katha in sanscrito significa “colui che racconta una storia” e indica probabilmente l’origine del genere legata all’attività dei cantastorie che sostenevano il racconto con il movimento delle mani e dei piedi e con le espressioni del volto. Xenos è infatti una narrazione costruita per lo più con immagini che generano un forte stato d’animo d’empatia con il personaggio sulla scena gettato a forza in un contesto che lo angoscia e spaventa, una situazione che non riesce né a capire né a controllare e in cui la sua vita è fragile come un fiocco di neve nel deserto.

L’inizio dello spettacolo però è decisamente rassicurante e accogliente. All’entrata del pubblico in sala si vedono il cantore e il percussionista (figure classiche nell’accompagnamento del Kathak). Al centro della scena essi sono seduti su dei tondi cuscini, illuminati di un nastro di lampadine come in uno dei tanti cortili di Benares, mentre eseguono musiche tradizionali. Talvolta la loro esecuzione è interrotta come da un boato di cannone, che fa tremolare le luci e nasconde il canto soave. Il rombo del tuono che preannuncia la tempesta imminente.

L’ingresso del danzatore, quasi catapultato in scena, non muta questa immagine volutamente pregna di esotica serenità. Vengono immessi solo alcuni particolari inquietanti, come il tavolino che si rompe al minimo tocco, le sedie vuote a lato della scena, i numerosi canapi che attraversano la scena. Akram Khan inizia in suo racconto sempre in piena atmosfera di una vera performance di Kathak in cui alla pura danza seguono le tre parti ritmiche in cui spiccano il parhant, dove il danzatore esegue movimenti scanditi da sillabe, e il taktar, in cui i movimenti delle gambe e dei piedi producono il suono dei campanelli di cui sono fasciate le caviglie. Questa atmosfera è minata come dall’incombere di un uragano che presto si scatena. La calda luce iniziale lascia il posto a controluce freddi e tagli come di lame. Le corde che infestavano come serpi tutta le scena cominciano a risucchiare tutti gli elementi facendoli sparire dietro la piccola collina che ingombra il palcoscenico. Il danzatore rimasto solo in scena viene anch’esso trascinato dal franare delle cose: i campanelli alle caviglie si trasformano in bandoliere di pallottole, il cortile diventa trincea, la musica da armoniosa diventa dissonante, angosciante, terribilmente incalzante.

Tutto richiama un conflitto totale che non lascia scampo alcuno. L’uomo al centro della scena è in totale balia degli eventi. Una voce dice: questa non è una guerra. È la fine del mondo”. La terra è l’elemento più straziante del racconto. Non madre, non accogliente abbraccio, ma tentacolo che stritola, scavo di trincea, oggetto d’offesa in seguito a deflagrare delle granate, tomba fetida e fangosa. Il corpo ne è oltraggiato, sporcato, sommerso.

Il grammofono in alto sulla collina è altro oggetto perturbante, fuori contesto, rinnovato in una funzione colorata di morte e non più di gioia conviviale. Esso diventa megafono da cui sgusciano gracchianti nomi dei caduti, faro che illumina il campo di battaglia, bocca di cannone.

Il finale è struggente. L’uomo ormai annichilito e schioccato da tanta violenza viene sommerso da una frana di pigne dove, ancora una volta, l’elemento naturale non richiama alla vita ma alla morte e all’offesa. Una voce ci interroga con le parole di Jordan Tannahill, autore dei brevi testi che costellano la narrazione coreografica: “Ho ucciso. Sono stato ucciso. Non è abbastanza?”

Sublime la musica composta da Vincenzo Lamagna nella sua capacità di evocare un’atmosfera di perenne conflitto. Stridii, ritmi ossessivi, dissonanze non mai risolte, tutto concorre a disegnare un’apocalisse.

Xenos è opera di cruda potenza evocativa in cui appare in tutta la sua agghiacciante violenza l’orrore di tutte le guerre. Inoltre è stata forse l’ultima occasione di poter ammirare Akram Khan in scena in seguito alla sua decisione di abbandonare l’esecuzione delle sue coreografie. Un lavoro commovente e intenso, un’interrogazione senza appelli a render conto non solo della brutalità scatenata ma soprattutto volta a chiedere conto di una rimozione: il destino tragico di un milione e mezzo di soldati indiani venuti a combattere nelle trincee di una guerra d’Occidente.

Visto a TorinoDanza il 26 settembre 2019

Sutra Sidi Labi Cherkaoui

SUTRA DI SIDI LABI CHERKAOUI E ANATOMIA DI SIMONA BERTOZZI APRONO IL FESTIVAL TORINODANZA

L’edizione 2019 di TorinoDanza è stata inaugurata al Teatro Regio con Sutra, acclamata opera che riunisce in sé la danza poetica e suggestiva del maestro coreografo belga di origine magrebina con la disciplina delle arti marziali dei monaci Shaolin.

Sidi Labi Cherkaoui non è il primo artista occidentale conquistato dall’incontro con le filosofie e le pratiche corporee orientali. La fascinazione di Mejerchol’d per il teatro Nō, la folgorazione di Artaud per il teatro balinese, così come l’innamoramento di Rodin per le danzatrici cambogiane, sono solo alcuni incroci, peraltro notevoli, che hanno segnato il progressivo incontro tra Asia e Europa nell’arte solo nell’ultimo secolo. In questi confronti, spesso segnati da fraintendimenti peraltro fruttuosi, si è quasi sempre cercato una dimensione spirituale che si fatica a trovare nella nostra cultura, ma anche una sorta di mistero insondabile, una profondità abissale attraente come un potente magnete. Nell’Oriente, dal tempo degli antichi Greci, ci si perde e qualche volta ci si ritrova.

È il caso di Sidi Labi Cherkaoui da quando nel 2007, per sfuggire dalla routine in cui si sentiva ormai costretto, va in visita del Tempio Shaolin sulle montagne del Songshan (nella provincia di Henan in Cina), ritenuto dalla tradizione la culla del buddhismo Chan (zen in giapponese) per avervi ospitato il fondatore Bodhidharma. Da questo viaggio e in seguito all’incontro con la pratica nasce quest’opera che si avvale del suggestivo design scenico di Antony Gormley (già collaboratore in Icon e Noetic presenti nella passata edizione del festival) e della composizione musicale di Szymon Brzóska.

Sutra appare come un’esplorazione del corpo animato nel movimento da una mente in quiete, pacificata nel rapporto tra sé, gli altri e la natura. Un percorso rigoroso fatto di geometrie essenziali e compiuto mediante l’utilizzo di semplici moduli scenografici, delle scatole rettangolari di legno grezzo via via ricombinate a creare spazi d’azione per il corpo e la coscienza. Una meditazione in movimento in cui le casse diventano via via bare, porte, passaggi, case, letti. Semplici mattoni con cui il danzatore e il monaco-bambino modulano e cambiano lo spazio scenico, come fossero mandala continuamente disegnati e distrutti. Come in molte danze sacre del buddismo mahayana, la profondità e serietà del processo viene minata continuamente da momenti comici, quasi dissacranti, a sancire la necessità del non attaccamento al proprio pensiero, un non prendersi sul serio che relativizza gli assoluti. Il rigore della geometria delle linee viene inoltre ammorbidito dalla fluidità del movimento delle tecniche delle arti marziali dei monaci ispirate in buona parte dal movimento animale. Sutra è dunque un’opera coreografica che sa unire la profondità di un’esigenza di ricerca spirituale con una forte componente pop molto apprezzata dal pubblico in sala e dalle platee di tutto il mondo.

Di tutt’altro tenore Anatomia di Simona Bertozzi, opera che si situa quasi al polo opposto rispetto a questa visione di corpo spirituale. L’esplorazione operata dalla coreografa insieme alla giovanissima danzatrice Matilde Stefanini, si nutre e si avvale della composizione sonora live di Francesco Giomi, e attraversa sondandole le possibilità anatomiche del corpo. Il corpo-strumento valuta distanze, velocità, ritmi, equilibri e disequilibri, distensioni e contrazioni, tutte le possibilità del corpo-macchina al variare dei parametri. Un flusso di scambio continuo tra il movimento e il suono in rapporto a uno spazio-laboratorio per le esplorazioni anatomiche. In ogni movimento, in ciascuna frase coreografica possiamo come ammirare i vettori di velocità, i pesi che si equilibrano, la lotta strenua contro la gravità e le forze della fisica così come le infinite possibilità del corpo umano di estendersi e contrarsi, espandersi e implodere, allungarsi e restringersi. Un rigore scientifico in cui il suono rimanda al corpo che restituisce lo stimolo per lanciarsi verso una nuova variazione o una nuova espansione del processo .

In apertura TorinoDanzapropone quindi due modi in cui il corpo diventa strumento di conoscenza: da una parte in Sutra verso una dimensione spirituale, volta a una maggiore consapevolezza del proprio sé interiore, in Anatomia verso una meccanica di relazioni e possibilità che si instaurano tra il corpo, il suono e lo spazio. In entrambi i lavori emerge il rigore della ricerca, lo studio profondo e l’urgenza intensa dei processi di ricerca.

Il programma del festival prosegue fino al 26 ottobre con alcuni appuntamenti imperdibili per incontrare alcuni tra i più grandi maestri della danza contemporanea. Xenos di Akram Khan il 25 e 26 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri, l’intera Trilogia sulla famiglia (KindMoederVader) di Peeping Tom l’1, 3 e 5 ottobre prossimi alle Fonderie Limone per la prima volta riunita in trittico e, in chiusura Kamuyot di Ohad Naharin con la Batsheva Dance Company.

Sutra visto al Teatro Regio di Torino il 12 settembre 2019 con l’interpretazione di Ali Thabet

Anatomia visto al Teatro Gobetti di Torino il 13 settembre 2019

Sharon Eyal

OCD LOVE di Sharon Eyal a TorinoDanza

Sabato 29 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri è andato in scena, nell’ambito di TorinoDanza, OCD Love, coreografia di Sharon Eyal e Gay Behar con la L-E-V Dance Company.

Cresciuta in seno alla Batsheeva Dance Company, di cui è stata direttrice, Sharon Eyal ha fondato la L-E-V, il cui acronimo in ebraico significa “cuore”, compagnia che ha riscosso notevoli consensi in patria e all’estero.

La coreografia di Sharon Eyal, presentata a Torino nella versione per cinque danzatori, si ispira alla poesia omonima dello slam poet Neil Hilbron, la cui performance su Youtube ha realizzato più di quattordici milioni di visualizzazioni.

Neil Hilborn, ventisettenne texano a cui è stato diagnosticato in giovane età un grave bipolarismo, in OCD Love racconta un amore nato all’ombra di un disturbo ossessivo compulsivo. La sua è poesia colma ironia venata di dolore e rimpianto che ispira a Sharon Eyal un danza costantemente tesa, quasi in un arco isterico, tra fluidità e instabilità sincopata e che del Gaga conserva la grande intensità emotiva benché declinata in una colorazione più drammatica, quasi oscura e saturnina.

Dalla penombra della scena emerge un’unica danzatrice i cui movimenti sono scissi tra tensione e distensione. Le linee del movimento bipolari, ogni gesto offerto e negato, potenza trattenuta, quasi timorosa di esplodere.

Il solo si evolve, diventa duo e poi quintetto ma la danza conserva questo oscillare tra gli estremi, tra fluente e frammentato. I corpi si sfiorano, quasi mai si toccano, si avvicinano per lasciarsi bruscamente, universi al massimo tangenti e mai secanti.

La luce disegna la scena in toni di bianco tra l’algido e l’incandescente, sfruttando piogge, tagli, e controluci, giocando con le ombre e i toni di grigio del tappeto danza e dei fondali.

I costumi dei danzatori velano di nero solo alcune parti del corpo, anch’esso diviso tra il nitore della pelle e il corvino delle vesti.

La coreografia è contrappuntata dalla musica elettronica live di Ori Lichtik, musicista e dj, padre della rave music in Israele. Le sue sonorità ripropongono il pendolo emotivo alternando i ritmi cadenzati dai bassi a più morbide e fluenti sonorità, creando con la danza una fitta trama di intrecci.

OCD Love di Sharon Eyal, benché sia una danza estremamente tecnica, quasi virtuosistica, non perde contatto con l’emozione che a tratti trabocca. L’amore che la danza disegna è complicato, difficile, frutto si sforzo costante, sempre in bilico su un abisso, pericolante. In questo comunicare emozione che trascende il pensiero la danza di Sharon Eyal trasmette la lezione della Gaga Dance anche se il suo movimento appare meno naturale e spontaneo.

Ma è solo un’impressione. La tecnica trascende in emozione e il corpo comunica, senza bisogno di parole, tutta la devastante lacerazione di un disturbo mentale.

In OCD Love la danza è costantemente indecisa tra la routine ossessiva e il gesto affrancato dallo schema imprigionante. Come nei versi di Hillbron l’animo è in battaglia con se stesso da una parte condannato da un male che è galera a suo modo confortevole, e dall’altra incantato da un amore rischioso e liberante.

Diversamente da The Great Tamer di Papaioannou, la cui bellezza intensa era rivolta a un godimento intellettuale che quasi escludeva l’emozione, OCD Love di Sharon Eyal colpisce il cuore bypassando il cervello. Si è immersi in un’atmosfera emotiva che attanaglia le viscere. La melanconia, il rimpianto, gli afflati estatici, non sono compresi, metabolizzati, sono selvaggi, animali, incontenibili. È una danza che parla una lingua non di parole intellegibili, ma di vagiti, sospiri, grida, suoni inarticolati e balbuzienti. Quasi un linguaggio mistico dell’animo che trascende il linguaggio quasi palpito dell’animo.

Ph: @Regina-Brocke

https://www.rumorscena.com/

Neil Hilborn OCD Love  https://www.youtube.com/watch?v=vnKZ4pdSU-s

Papaioannou

MEMORIE DAL SOTTOSUOLO: DIMITRIS PAPAIOANNOU E THOMAS RICHARDS

A volte ci sono spettacoli che, per quanto siano diversi per concezione, stili e produzione, dialogano tra loro e con il pubblico (inteso come comunità) e pongono delle domande a cui non necessariamente esiste una risposta. O forse ne prevedono infinite, quelle che ciascuno di noi si sente di dare.

É il caso di The great tamer di Dimitris Papaioannou, in cartellone a TorinoDanza, e The Underground: a Response to Dostoevskij di Thomas Richards, direttore artistico del Workcenter of Jerzy Grotowski, in scena alla Cavallerizza occupata.

Dimitris Papaioannou porta in scena il mito di Persefone, la figlia di Demetra, rapita da Ade, dio dei morti, e costretta a vivere tra la vita e la morte, perennemente divisa tra due mondi. Persefone è Kore, la pupilla, colei che vede e nel cui occhio si riflette ciò che viene osservato e solo allora diventa reale e possibile. Persefone è anche mostro, corpo ibrido, che avvinta e violata da Zeus in forma di serpente, partorisce Dioniso.

Su un palcoscenico sconnesso e dissestato, Dimitris Papaioannou racconta in uno spettacolo che è grande coreografia benché non sia quasi mai danza, l’avventura del corpo perennemente oscillante tra la vita e la morte. Immagine ricorrente è un corpo nudo disteso, quasi Cristo morto di Mantegna, velato e svelato continuamente in ossessiva ripetizione.

Attraverso il corpo si esplora l’intimo dell’umano agire/patire, incessantemente sospeso sull’abisso, presente e inquietante a fondo palco, laddove spariscono le figure e dal quale riemergono. Un corpo ibrido, composto e ricomposto, persino mostruoso, frutto di generazioni equivoche: una donna con le gambe di due uomini; un corpo assemblato da parti di sei uomini diversi che si frantuma al suolo come una statua di gesso; un corpo morto, che diventa oggetto di studio in una parodia de La scuola di anatomia di Rembrandt, e le cui parti asportate diventano piatto principale di un illecito banchetto.

Il palco è colmo di trabocchetti, fosse nascoste dal quale emergono e scompaiono i corpi, dalla terra alla terra, in un continuo scendere e ascendere da e per il regno dei morti.

Papaioannou attraversa il mito di Persefone con un’ironia pervasa di afflizione per il tempo che scorre e ci avvicina all’abisso. Il dolore di Demetra, alla ricerca della figlia scomparsa, è il nostro dolore, e quel campo di grano che sorge dalla terra è anche freccia che la ferisce. Il mito di Persefone, dea divisa tra la vita e la morte, primavera destinata al gelo dell’inverno, è l’immagine poetica e struggente di un tempus fugit che dobbiamo cogliere prima che il buio ci incateni alla terra.

Un teschio, un libro e due arance, è l’immagine finale, un barocco vanitas vanitatum, per un’esistenza frale, senza sostanza e colma di vane aspirazioni.

Infiniti i riferimenti iconografici e filmici, primo fra tutti 2001, Odissea nello spazio, Ricordata non solo nelle immagini, ma anche con l’ossessivo ritorno del Danubio blu di Strauss scomposto, rallentato, rimontato da Stephanos Droussiotis. Inutile elencarli, anche perché forse è inutile.

Al di là delle immagini e dei riferimenti, resta l’atmosfera densa di poesia, per quanto gelida come la luce fredda che cade dall’alto. Il dolore della vita strappata dalla terra che alla terra ritorna non tocca il cuore ma affascina l’occhio e la mente.

Thomas Richards in The Underground: a Response to Dostoevskij esplora anch’esso un mondo sotterraneo e inquieto attraversando un collage di testi di Dostoevskij, primi fra tutti Le memorie dal sottosuolo e Il grande inquisitore da I fratelli Karamazov.

La sua esplorazione delle parole del grande autore russo, avviene attraverso la commistione con antichi testi sapienziali, i canti vibratori e la semplice povertà della scena. Un’atmosfera rituale, quasi misterica, scandaglia il sottosuolo interno all’uomo che pur cercando di sfuggire alla sofferenza, la abbraccia e la cerca.

Un mondo di esseri fragili, persino corrotti ed empi, esseri mai veramente vivi, più vicini alla morte, dalla quale tentano inutilmente di fuggire, che alla vita.

La scena è attraversata da semplici figure, che non sono mai personaggi, ma attori che danno corpo a istanze e prendono sostanza nello spazio del teatro. La voce evoca le immagini, con il canto e la parola, in una dimensione quasi sciamanica, che tocca il cuore e l’animo e fa vibrare lo spazio e le emozioni sepolte nel profondo sommerso e radicato in ciascuno di noi.

Una scena semplice, di povertà francescana, pochi elementi a indicare uno spazio e una minima geografia. Non racconto, né parola riferita, quanto esperienza corporea di un pensiero liquido, in perenne divenire, mai fermo nell’asserzione.

Sia Papaioannou che Richards esplorano il mondo della sofferenza, della privazione, della fragilità della vita, utilizzando processi artistici diversi benché abbiano in comune un’altissima qualità di esecuzione. Sebbene da opposte balze, ricercano i fondamenti del teatro. Papaioannou indaga le radici culturali dell’Occidente attraverso una dissezione razionale del mito attraverso immagini e citazioni in una forma pregna di fascinazione estetica, Richards al contrario fa emergere il sottosuolo scuotendo le emozioni, l’anima sottile sepolta e trattenuta, utilizzando soprattutto la capacità evocatoria e magica della voce umana..

Entrambi fanno parlare il teatro con il suo proprio linguaggio, attraverso l’azione, le immagini, il corpo e il movimento sebbene le loro opere sorgano da universi produttivi radicalmente diversi. Se quello di Papaioannou è uno spettacolo prodotto da una fittissima cordata di grandi festival europei, il lavoro di Thomas Richards rappresenta l’emersione di una corrente minoritaria, artigianale e sommersa, di un fare teatro come missione più che come professione.

Due maestri, due poetiche molto diverse che hanno in comune una grande qualità di esecuzione e una forte coscienza del significato del fare teatro oggi. Sono due istanze differenti di una scena che è sempre alla ricerca di se stessa. Sono forse le due sponde estreme di un fare teatro che oggi, meno di ieri, ha poco chiara la propria funzione nel contesto sociale contemporaneo. Nel mezzo ci sono miriadi di piccoli fiumi che danno risposte diverse sul perché fare teatro oggi. Non c’è una risposta, non c’è mai stata. C’è solo la ricerca, la pratica, la pazienza dell’artigiano alla ricerca di una forma perennemente fuggevole.

Dimitris Papaioannou e Thomas Richards hanno dato vita a due opere che raccontano la grandezza del teatro come mezzo per esplorare l’umano, per indagare le sue pulsioni e paure, per riflettere sulla sua condizione fragile e mortale. Entrambi gli autori hanno chiare le possibilità del mezzo che usano e le possibili funzioni che possono assumere. Questa chiarezza di intenti e coscienza di azione sono un’eccezione eccellente, e poco importa che siano radicalmente diverse. La qualità del loro lavoro dipende da esse.