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Interplay

SPECIALE INTERPLAY: L’AMORE, LA MORTE E IL TEMPO

Il sentiero artistico tracciato da questa 22ma edizione di Interplay, festival della nuova danza guidato con mano solida e sicura da Natalia Casorati, prosegue approfondendo temi da sempre scottanti: l’amore degli amanti pompeiani fuso e immortalato nell’ultimo loro istante dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ispira il duo ideato dal giovane e promettente Adriano Bolognino; da Oriente giunge una morte di bianco vestita raccontata da Nanhee Yook, coreografa sudcoreana di grande spessore artistico che ha già attirato l’attenzione degli operatori, non solo asiatici ma europei; Lorenzo Morandini indaga la possibilità di sfuggire alle definizioni; infine Guy Nader e Maria Campos, esplorano la dimensione rarefatta del tempo con Set of Sets.

Adriano Bolognino apre il programma della terza serata alla Lavanderia a Vapore di Collegno con Gli amanti, un duo di forte impatto visivo ed emozionale. Le danzatrici Rosaria Di Maro e Giorgia Longo interpretano una coreografia che prova a immaginarsi la vita degli amanti pompeiani nel tempo precedente l’attimo in cui i loro corpi diventano una scultura fusa dalla violenza delle ceneri incandescenti del vulcano. Il movimento oscilla tra due poli: da una parte le pose plastiche in cui i corpi quasi si cristallizzano in figure di bassorilievo, e momenti in cui la danza si scioglie in gesti a volte fluidi, più spesso con accelerazioni contrapposte frenate improvvise, in cui la vita degli amanti si manifesta in una tensione verso l’altro più che in un afflato erotico. L’emozione che scaturisce da questo fluttuare tra la staticità statuaria e l’accelerazione-decelerazione riguarda più la compassione, nel senso proprio di patire insieme, nel vivere insieme a quei due corpi, l’amore privo di qualsiasi risvolto terreno di chi si approssima alla morte, un amore assoluto rappreso e irrigidito nel suo ultimo istante. La musica scelta, caratterizzata da un’atmosfera ieratica e solenne, ci spinge in questa direzione: lontano dalle braccia di Afrodite verso quelle di Persefone.

Rosaria di Maro e Giorgia Longo in Gli amanti di Adriano Bolognino

Se Adriano Bolognino coglie l’amore che precede la morte, la coreografa coreana Nanhee Yook ci immerge nell’atmosfera luttuosa che accompagna sempre il suo passaggio tra i viventi. Il titolo del suo pezzo breve, Talk about death, non lascia adito a dubbi, così come il bianco dei costumi considerato nelle culture orientali il colore del lutto. La morte non è presente come elemento traumatico, piuttosto si indaga la malinconia, il ricordo, ciò che rimane di una presenza. La morte è dunque vista nel suo essere un momento nel flusso delle vite, un processo di trasformazione e di passaggio, non un termine ultimo, benché in chi resti permanga una sensazione costante d’assenza e di mancanza.

Lorenzo Morandini porta in scena Idillio, un breve solo incentrato sulla volontà di inventare nuove parole e nuovi significati. I gesti vogliono provare a essere altro rispetto al consueto, la danza tenta di sfuggire alla tradizione culturale che le preesiste. Il risultato di tali tensioni rimane incerto. Non si riesce a percepire una vera fuga, quanto piuttosto un permanere in un’orbita da cui non si riesce a sfuggire. Non si scappa mai alla propria cultura. Si può al limite tentare di cambiare le regole del gioco ma solo quando si conoscono perfettamente le regole. Si può variare il canone solo nel momento in cui si è padroni del canone. Idillio di Lorenzo Morandini non riesce quindi del tutto nel suo intento proprio perché ricade nello stereotipo da cui cerca di fuggire: gesti e atteggiamenti partono dal noto, ma non riescono quasi mai a raggiungere terre sconosciute.

Al Teatro Astra incontriamo Guy Nader e Maria Campos, coppia artistica consolidata e affermata anche nel nostro paese. Set of sets è un pezzo di insieme ipnotico e suggestivo incentrato su un’immagine del tempo come ritorno e ripetizione. Ciò che si dipana davanti ai nostri occhi è una sorta di planetario in cui i corpi dei danzatori costruiscono orbite e attrazioni gravitazionali in perpetua traslazione nello spazio.

Questo complesso meccanismo di rotazioni, rivoluzioni, ripetizioni e variazioni costruisce complicati congegni di precisione in cui i movimenti dei danzatori, anche quando apparentemente casuali, definiscono con precisione la meccanica. Davanti ai nostri occhi si materializzano orologi cosmici formati da corpi in continua interazione. Il tempo non appare mai lineare, cronologico, quanto piuttosto una spirale in perpetua evoluzione tra il pendolo del ritorno dell’uguale e il mistero quantistico della simultaneità.

La musica, eseguita in scena dallo stesso compositore Miguel Marin, è una multiforme tessitura di loop elettronici e sampling su cui si innestano i ritmi della batteria. La trama sonora è il battito su cui si vengono a formare i sistemi planetari, il disegno ritmico di campi di asteroidi in perenne fuga e attrazione reciproca. I corpi ruotano su se stessi, su e con gli altri corpi: si scontrano, si accarezzano, rimbalzano come palline di un biliardo. Se il tempo è il protagonista primario, l’antagonista è di certo la gravità da cui la danza cerca perennemente di sfuggire. I volteggi acrobatici, i corpi lanciati e catturati quando sembrano destinati a una rovinosa caduta, sono una aperta sfida all’attrazione gravitazionale. La tensione tra la fuga e l’inevitabile ricaduta è la vera fascinazione di quest’opera complessa e ipnotica.

APRITE QUELLA PORTA: LA SPOSA BLU DI SILVIA BATTAGLIO

La sposa blu di Silvia Battaglio è la versione della nera favola di Barbablu che decisamente non ti aspetti. La novella di Perrault ci racconta di un uomo che sposa e uccide le sue mogli. E dunque ci si attenderebbe un ovvio parallelismo con il triste e inarrestabile fenomeno dei femminicidi. Tale elemento non manca, si badi bene, ma rimane sullo sfondo, come una quinta cupa, che conferisce alla narrazione un’angolatura tutta particolare e speciale.

La sposa blu osa contrapporsi a Barbablu, mai presente in scena, benché in qualche modo incomba nell’ombra tra le quinte. Non è la curiosità a spingere verso il proibito, ma un’affermazione positiva di indipendenza. La sposa vuole liberarsi delle paure proprie e di lui, quei timori che ci trasformano nella parte peggiore di noi stessi e teniamo sepolti nel profondo del nostro animo. Per questo desidera a tutti costi aprire quella porta e dialogare con gli scheletri nell’armadio. E proprio in questo confronto si libera dal possesso, non vuole essere schiava del terrore incombente, della solitudine a cui viene relegata da un uomo possessivo e violento, decide di aprire la porta e cercare l’uscita e la libertà.

Il racconto si dipana per immagini, attraverso linguaggi tessuti in contrappunto: gesto, danza, teatro di figura. La voce è sempre fuori scena, una voce pronta a prendere in prestito le parole altrui, di Desdemona, di Carmelo Bene e altri, a formare una sorta di montaggio di stati d’animo riuniti insieme allo scopo superare il trauma e il terrore verso una liberazione e non verso la morte certa.

Le stupende marionette degli anni ’40 della collezione Toselli prestate dall’ Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare di Grugliasco, diventano le mogli passate, pronte a riprendere vita, a suggerire un diverso finale alla novella sposa di pizzo bianco vestita. Evocative nell’essere copie e simulacri, le marionette sono una presenza inquietante sul confine abisso tra la vita prestata e l’inerzia dell’oggetto inanimato.

La colonna sonora, fatti di suoni d’ambiente e arie d’opera, gioca in contrappunto con la scena, è segno rivelatore di un percorso emotivo. Evocative le immagini, il gesto sempre controllato, mai superfluo o ridondante. Le luci sono materia utile ad aprire e chiudere gli spazi e a fornire linee di fuga.

Silvia Battaglio in La sposa blu

La sposa blu di Silvia Battaglio è un lavoro molto ben concepito, frutto di attento studio. Non è una semplice messa in scena ma una vera creazione d’attrice. Nonostante questi indubbi pregi a cui si assomma un gusto estetico raffinato e mai volgare o dozzinale, il lavoro risente, proprio per l’eccessiva attenzione al minimo particolare di una certa freddezza, una mancanza di emotività empatica che avrebbe fatto brillare il certosino lavoro di elaborazione.

Nel cercare di dominare il gran volume di materiale e di tecniche un’attrice come Silvia Battaglio, i cui lavori precedenti riflettevano di una certa misurata emotività che donava commozioni composte, sottili, ma profonde, si è come raffreddata, irrigidita nell’attenzione ai particolari e nel confezionare immagini di grande impatto visivo ma pronte a soddisfare più l’intelletto che il cuore. Il lavoro è ancora in fieri, non ha ancora raggiunto la sua temperatura ideale. Ora che la forma è ben incanalata e i materiali perfettamente incastrati, bisogna sfuggire alla loro orbita, navigarci dentro superando tutte le trappole che le immagini pongono sulla via, e ritrovare il calore magmatico dell’emozione. Bisogna dimenticare le regole e la gabbia drammaturgica e dopo aver dimenticato, come dicevano i maestri taoisti, dimenticare di aver dimenticato, il che significa lasciarsi portar dal flusso, presenti e distanti nello stesso tempo, e far fiorire l’emotività di un viaggio periglioso verso la liberazione.

La sposa blu è dunque un lavoro complesso ancora in lotta con sé stesso per sorgere alla piena luce sfuggendo ai legami che la stessa creazione pone alla sua attrice. Silvia Battaglio è un’artista esperta, sapiente, capace con il lavoro di costruire tale tipo di percorso che necessità solo di tempo per far emergere tutte le sue potenzialità. Il tempo è l’unico elemento utile all’artista per far sbocciare i propri lavori, un bene sempre più prezioso e raro in un sistema pronto solo a chiedere e pretendere e a non concedere. Silvia Battaglio ha però la fortuna di essere prodotta e supportata da una compagnia come Zerogrammi, molto attenta a coltivare i processi artistici. Silvia dunque saprà trovare, come la sua Sposa Blu, la giusta via di fuga e raggiungere tutta la piena e delicata potenza che traspare dal disegno compositivo. Di questo ne siamo sicuri.

Inferno di Roberto Castello

L’INFERNO SECONDO ROBERTO CASTELLO

Per descrivere l’inferno immaginato da Roberto Castello potremmo utilizzare una apodittica sentenza di Baudelaire: «È l’immagine variegata della bellezza equivoca». La frase era riferita al lavoro di un illustratore, Costantine Guys, oggi pressoché sconosciuto. Baudelaire riconosceva a costui la modernissima capacità di cogliere lo spirito dell’epoca in schizzi di vita da strada o di bordello, tra vicoli e case chiuse, sul confine in cui l’inaccettabile andava a braccetto con il rispettabile. Roberto Castello in Inferno ha questa rara capacità. In poche scene ci catapulta in un luogo affascinante e brillante pur nella sua mediocrità. Ci divertiamo all’inferno. Ci rimaniamo volentieri, ridendo, felici. C’è tutto quello che serve: la nostra idea di quotidianità, di cultura, di spettacolo.L’inferno non è quindi né metafisico né ultraterreno, non ci aspetta alla fine della vita, e le nostre anime non saranno pesate né giudicate da nessun Minosse. Non è nemmeno l’inferno della guerra, o della miseria, o della criminalità, benché li presupponga. L’inferno di cui si parla è quello di cui siamo coautori, quello che creiamo volenterosi ogni giorno, contenti, come Cypher in Matrix, di gustare una bistecca buona quanto finta.

Inferno di Roberto Castello Ph:@ Giovanni Chariot

Infernodi Roberto Castello è niente più che un vecchio specchio in cui mirare noi stessi, uno specchio andato un po’ fuori moda da quando il teatro non è più l’occhio che guarda il mondo, ma si manifesta, per lo più, come spazio di esposizione di sé. Quei personaggi sciabattanti e sciatti, coi visi e i corpi distorti da boccacce e pose innaturali, quelle cocottes felici e raggianti di essere sotto al riflettore, quindi, non siamo altri che noi.L’Inferno se privo di diavoli è però colmo di immagini, ma come nella caverna di Platone, esse risultano solo ombre di una verità, invisibile a noi, incapaci some siamo, a volgere lo sguardo verso l’uscita, tanto il luogo di proiezione è pieno di confort e attrazioni. Il gioco di ombre è formato da due livelli pronti a incastrarsi perfettamente: la danza energica, nervosa, espressiva, gioiosa e multiritmica e una videoanimazione sul fondale. Questa non è mai un semplice sottofondo o una carta da parati, ma un elemento dialogante e significante, in molti luoghi divertente.

Inferno di Roberto Castello ph:@ Cosimo Trimboli

Tre alberi spogli su una collina illuminati solo da uno scoppio di fuoco di artificio, un deflagrare unico e ripetuto come rintocco di campana a morto. Gli alberi risuonano e costituiscono il primo ambiente sonoro. Il cielo è nero ma man mano sorge una pallida alba abitata da corvi e un grande frigorifero rosso. Si passa poi in una galleria d’arte in cui le opere sono astruse ed esposte come in un supermercato, e osservate da strani hipsters. Presto la situazione si agita, la danza si anima, e il cane di Jeff Koons insegue un uomo di marmo. Ovviamente in questa pletora di icone non poteva mancare l’arte e la cultura, bersagliata bonariamente per la sua autoreferenza.

Questi sono due piccoli esempi, senza andar troppo a svelare e peccare di spoileraggio. Servono solo a far comprendere il clima di uno spettacolo che va visto e goduto, per la capacità di farci sorridere della nostra civiltà ormai declinante e sciocca. Non ci sono accuse né giudizi, solo le immagini. Possiamo dialogarci, respingerle, se vogliamo persino ignorarle. Dobbiamo farci i conti se vogliamo comprendere noi stessi. Possiamo però anche tranquillamente goderci lo spettacolo, divertirci e sorridere, e fermarci al primo livello di lettura.

Roberto Castello possiede infatti questa grande qualità; la capacità di sapersi rivolgere a qualunque tipo di pubblico. Nessuno rimane escluso ed è inoltre libero di cogliere ciò che vuole, secondo la sua personalissima capacità di vedere.L’Inferno è dunque accogliente. Non respinge nessuno. Non necessita di esorcismi. Ne facciamo già parte, intelligenti e colti, colpevoli e innocenti. Da un bel pezzo. E la cosa non ci dispiace affatto.

INFERNO

visto al Teatro Astra di Torino il 13 aprile 2022

Coreografia: Roberto Castello/in collaborazione con Alessandra Moretti/danza Martina Auddino, Erica Bravini, Jacopo Buccino Michael Incarbone, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri

musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli/Fender rhodes Paolo Pee Wee Durante/luci Leonardo Badalassi/costumi Desirée Costanzo/consulenza 3D Enrico Nencini/mixaggio audio Stefano Giannotti/mastering audio Jambona Lab

un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo una coproduzione ALDES, CCN – Centre Chorégraphique National de Nantes, Romaeuropa Festival, Théâtre des 13 vents CDN – Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE

e con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati

con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo

Durata 75′

Questo è il tempo in cui attendo la grazia@Claudia Pajewski

LO SGUARDO DI PASOLINI SECONDO FABIO CONDEMI

Questo è il tempo in cui attendo la grazia di Fabio Condemi è un’opera che fin dal suo esordio, con la frase che campeggia sullo schermo bianco, ci spinge nell’orbita gravitazionale dell’immaginazione.

Più che un vedere è un ascoltare per immaginare come nel teatro elisabettiano. Si prova a vedere con l’occhio e lo sguardo di Pasolini, attraverso alcuni frammenti e scene tratte da alcune sceneggiature del poeta. Si attraversa Pasolini a partire da Medea, Edipo Re, Il fiore delle mille e una notte, il mai realizzato progetto su San Paolo, La ricotta. È una storia di uno sguardo da cui risulta il racconto di una vita di continua stupefazione di fronte al mondo, nel tentativo di dare uno sguardo nuovo sul mondo.

L’innocente aprire gli occhi innocenti del bambino, quello divino ed estatico del centauro, pronto a far sorgere l’innaturale della natura (non più luogo fisico ma ambiente fecondo di apparizioni e manifestazioni trascendenti), quello non ancora convertito e fanatico di Saulo, quello innocente e travagliato di Stefano, partigiano in una Parigi devastata dalla guerra mondiale, quello sfrontato nella candita genuinità dei giovani adolescenti cairoti.

Nello sguardo mediato e raccontato compaiono i corpi, sensuali, martirizzati, fragili, feriti dei personaggi descritti dalla voce dell’attore.

Unico corpo vivo in scena, e quindi guida in questa evocazione di sguardi, è Gabriele Portoghese, coautore della drammaturgia. La sua voce è poetica, sensuale, non incarna né interpreta, semplicemente si fa tramite di un viaggio dell’immaginazione il cui protagonista è, lo ripetiamo, lo spettatore immaginante.

La scena è semplice, quasi disadorna: un rettangolo di terra abitato da una vegetazione pronta a divenire bordo di fiume e palmizio d’oasi, (ma anche, dopo un momento di devastazione, richiamo alla spiaggia di Ostia), un pallone (quest’ultimo forse superfluo e didascalico, presente solo per sottolineare un già detto), un volume di opere pasoliniane, un proiettore e una sedia. Uno schermo sul fondo in cui appaiono paesaggi, didascalie di film, titoli, opere pittoriche da cui Pasolini ha tratto ispirazione. La colonna sonora è discreta a richiamare le opere citate e luoghi evocati.

Fabio Condemi manifesta in questo lavoro un rapporto sano con la Tradizione: non dialettico secondo Brecht, quindi non un processo passante per un rifiuto, un critica e una ricostruzione, ma nemmeno una triviale ammirazione devota, indiscussa e indiscutibile. Il Pasolini che emerge non è quindi quello iconico, consueto, ma immagine di un uomo che nel suo essere artista era sinceramente e totalmente aperto alla visione, e in questo capace di vedere e far vedere non il solo il mondo come appariva, ma anche e soprattutto, come laboratorio di invenzione di possibilità inedite.

Alcuni passaggi sono commoventi come il martirio di Santo Stefano e il finale in cui il corpo dell’attore diventa schermo di proiezione del finale di Edipo Re (scena citazione, mise en abyme, laddove lo stesso Pasolini faceva di sé schermo delle proprie immagini filmiche). A chiuderci gli occhi su questo viaggio nella visione l’ultima battuta di Edipo Re: «Oh luce che non vedevo più, che prima eri in qualche modo mia, ora mi illumini per l’ultima volta. Sono giunto. La vita finisce dove comincia».

Fabio Condemi e Gabriele Portoghese ci accompagnano in un percorso immaginativo, dove lo sguardo non è tanto puntato sulla scena ma nella mente dello spettatore. Alcuni video, soprattutto quelli dei luoghi, spesso diventano quindi quasi una zavorra in questa immersione nello sguardo interiore. Risultano un dir due volte, un bloccare la fantasia. Così molti gesti a sottolineare oggetti evocati o a indicare la direzione di uno sguardo. Come diceva Kandinskij spesso in arte uno più uno da zero. Nel concludere queste piccole e personalissime note su un’opera gradevole e in molti punti toccante, ben accolta dal pubblico, non per giudicare ma per suggerire, umilmente, di non aver paura di osare e di sottrarre, torniamo al teatro elisabettiano, luogo dell’immaginazione come pochi altri nella storia del teatro, in quel prologo nell’Enrico V di Shakespeare che ci svela il segreto di ogni immaginare: «completate le nostre lacune con i vostri pensieri. […] Saranno infatti i vostri pensieri a rivestire i re di ricche vesti, a trasferirli ora qua or là, saltando le stagioni, concentrando anni di eventi nel giro di una clessidra».

Visto al Teatro Astra di Torino il 10 aprile 2022

Questo è il tempo in cui attendo la grazia

Da Pier Paolo Pasolini / drammaturgia e montaggio dei testi Fabio Condemi, Gabriele Portoghese / regia Fabio Condemi / con Gabriele Portoghese / drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich / filmati Igor Renzetti, Fabio Condemi / foto di scena Claudia Pajewski / produzione Centro di Produzione Teatrale La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Comunale Giuseppe Verdi – Pordenone, Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Durata 50′

Jan Lauwers

JAN LAUWERS: LE LACRIME E TUTTO IL BENE DEL MONDO

All the good di Jan Lauwers con Needcompany è uno spettacolo-mondo. Si svolge dentro e fuori la rappresentazione, nel presente e nel passato, partorisce doppi concreti o evanescenti alla bisogna. All the good è un tutto-pieno. Potremmo paragonarlo a un buco bianco, un oggetto su cui l’astrofisica fatica a dimostrare l’esistenza pur presupponendola, un corpo celeste che, contrariamente al suo doppio più noto e oscuro, anziché attrarre materia, la rigetta e rimanda nell’universo in tutte le direzioni possibili.

All the good è una sfida. Non si può raccontare, né descrivere. Non nello spazio di un articolo per lo meno. Per analizzarlo ci vorrebbe una tesi di laurea e al solo scriverlo wordpress inizia ad allarmarsi guardandomi con le faccine rosse dell’illeggibilità.

Non resta che provare a giocare lo stesso gioco. Saltare di racconto in racconto. Provare a dire balbettando. Incominciamo dalla fine.

La deposizione di Rogier Van Der Weyden. Una pala d’altare in cui i personaggi occupano ogni spazio possibile sulla tavola di legno. Il Cristo al centro, la Madonna poco discosta. Entrambi cadenti verso il basso e coloro che devono sostenerli sembrano, non solo non averne la forza, ma sono persino messi in posizione tale da essere incapaci di portare aiuto. Quello che colpisce, oltre alla claustrofobia, è la caduta del divino e le lacrime su ogni volto, piccole gocce naturalisticamente perfette, presenti ed evidenti, cristalli scolpiti col dolore del mondo.

Jan Lauwers All the good La deposizione di Rogier Van der Weyden ph: @Andrea Macchia

Le lacrime ci portano a Mahmud, il soffiatore di vetro di Hebron. I suoi vasi tra il blu e il verde acquamarina riempiono la scena. Un’istallazione raccoglie come un enorme scolabottiglie decine di giare di vetro. Nella terra tormentata di Palestina le chiamano le lacrime di Allah. Ogni tanto qualcuno ne rompe una, e nasce un racconto d’arte e di dolore, come lo stupro e la tortura di Artemisia Gentileschi. L’intreccio di richiami tra l’arte e la vita è inestricabile. Si passa da uno all’altro continuamente. E a connettere i due elementi sempre due forze: quella implosiva del dolore, e quella esplosiva dell’amore e della passione.

Jan Lauwers appare per primo in scena. Prova a dirci cosa succederà. Ha scritto un libro (o voleva scriverlo? È molto difficile capire nell’immenso frullatore linguistico in cui fiammingo, inglese, francese, spagnolo, tedesco ed ebraico si scambiano le parti come per gioco e poi: chi lo guarda il sottotitolo mentre davanti a tuoi occhi succede di tutto?); questo libro nessuno lo pubblicherà quindi la storia viene portata in scena ed è una ( o forse mille?) vicenda/e che riguardano la sua famiglia.

Sul palco infatti c’è non solo Jan Lauwers insieme al suo doppio attorico e alchemico, ma la moglie, i due figli. E c’è Elik, il fidanzato della figlia. Ha un passato da soldato in Israele. Ha dovuto uccidere in Libano. E la domanda sottesa è se questa storia d’amore possa reggere al dolore. Forse è la domanda di tutto questo mondo rigoglioso e terribile che sta sorgendo davanti ai nostri occhi.

Jan Lauwers All the good Ph:@Andrea Macchia

Tornando indietro all’insalata linguistica: non è un vezzo espressivo o un’inutile croce da far portare al povero spettatore. É una mina contro l’identità, non personale, ma politica, quella su cui si esercita il potere, per questo sono centrali le storie del soldato Elik e di Mahmud, soffiatore di vetro di Hebron, quell’identità che spinge alla lotta.

In scena oltre alla famiglia Lauwers ci sono anche gli amici, i danzatori della compagnia, la ragazza che ha posato per una fotografa e ha conosciuto il dolore delle pornostar; il colombiano che ha avuto una relazione con la moglie di Jan Lauwers, Grace Ellen Barkey (siamo nella finzione o nella realtà? Ce lo si chiede per tutta la durata dello spettacolo), e i musicisti, anche loro raccontatori di storie (per inciso indossano maschere di animali). Ci sono tante persone e tanti oggetti sul palco da temere che non ci sia spazio sufficiente, esattamente come nella pala d’altare di Rogier Van Der Weyden.

Le storie si affastellano su quella principale. Alcune sono solo accennate e non raccontate veramente. Non c’è il tempo e nemmeno lo spazio. Sono e siamo tutti compressi sul palcoscenico. I linguaggi si mischiano: danza, proiezioni, racconto, canto, musica. Tutto concorre a questo vortice, al buco bianco nato per scagliare materia incandescente, solida, fluida, incorporea, semplici fotoni di luce pronti a cantare all’unisono anche ad anni luce di distanza. Un fiume in piena, venato di correnti di dolore, di morte, di strazi commessi dall’uomo sull’uomo. E si torna dunque a quel Cristo dipinto da Rogier Van Der Weyde, quel Cristo caduto per cui tutti versano lacrime, e si ha la sensazione che noi, artisti e pubblico, siamo alla fine incapaci, come i personaggi del quadro, di trattenere il Figlio dell’Uomo deposto dalla croce.

Jan Lauwers All The Good ph: @Andrea Macchia

Ci vuole forza a vedere tutto il buono del mondo. Un’energia capace di sfuggire all’orizzonte degli eventi di un buco nero rotante e supermassivo. Questa potenza e vitalità sembra essere la prerogativa degli artisti: ritrarre l’umanità, sollevare dalle ceneri della distruzione immagini che sappiano parlare non di un mondo possibile e diverso, ma di ciò che val la pena di esser vissuto e provato in questo.

All the good in questo gioco serissimo tra finzione e realtà, prova a cantare di ciò che è bene nonostante le lacrime e la perdita di solidarietà in atto nelle nostre società occidentali, ricche e malate. È uno sforzo immane strappare il bene al vortice distruttivo in cui il mondo sta cadendo, ma è questo ciò forse resta da fare, ciò che rende l’arte necessaria. Far brillare tutto il bene nonostante tutto. O forse, come diceva Calvino: «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Visto durante il Festival delle Colline Torinesi al Teatro Astra il 5 novembre 2021

imitation of life

TEATRO, REALTÀ E POLITICA: KORNÉL MUNDRUCZÓ E MIRIAN SELIMA FIENO

A partire dall’Umanesimo e in seguito col Rinascimento, il teatro come forma d’arte ha intrattenuto un certo rapporto ambiguo con la realtà. Se per i Greci la questione era la verità intesa come Aletheia, ossia uno svelamento di ciò che è nascosto sotto le pieghe della realtà per un suo emergere evidente davanti agli occhi, per l’Occidente sorto dal cantiere sperimentale del Medioevo, la questione si spostava, e non solo in teatro, verso la rappresentazione del reale. Calderon de la Barca parla di Gran teatro del mondo, né accenna anche Shakespeare. Appare sempre più evidente con l’epoca barocca che il mezzo teatro vuole essere uno specchio del reale.

Con la fretta necessaria agli articoli brevi giungiamo d’un balzo al Novecento dove, dopo gli eccessi naturalistici e illusionistici dei Meinenger, si giunge alla ricerca di Stanislavskij, con cui si aggiunge uno scavo intimistico, attraverso l’azione fisica, verso un rispecchiamento del reale che si unisce alla verità del sentimento. L’avanzare del Novecento però porta a un nuovo e interessante atteggiamento: influire sul reale attraverso la rappresentazione. Ciò che avviene in scena è una modalità di intervento sulla realtà vissuta nel quotidiano. È azione politica, artistica, utopistica e immaginativa. Si vuole cambiare il mondo attraverso una visione dello stesso. Un rapporto attivo si viene a instaurare tra ciò che è e ciò che si rappresenta, dove quest’ultimo può, o dovrebbe essere, motore di cambiamento del primo.

Con l’avvento del Ventunesimo secolo, e soprattutto con l’avanzata della virtualità digitale, la questione si sposta in territori finora non mai battuti. La domanda diventa cosa è reale? Esiste una qualsivoglia possibile verità? È possibile definire una realtà oggettiva da tutti vissuta, o ci si deve accontentare di mostrare un punto di vista, un approcciò più o meno efficace con ciò che convenzionalmente chiamiamo mondo? Verità è manipolazione? Si fa fatica a capire cosa è reale e non solo cosa sia vero, ma se sia sensato parlare di verità.

Al Festival delle Colline Torinesi si è potuto assistere a due interessanti performance in cui la questione del rapporto con la realtà dei fatti viene affrontata con urgenze quanto mai impellenti e innovative. Parlo di Imitation of life di Kornél Mundruczó e Fuga dall’Egitto di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio.

Imitation of life fin dal titolo pone la controversa serie di quesiti in evidenza. Un titolo che è di per se stesso una mise en abyme: il teatro è imitazione della vita? La nostra personale esistenza è a sua volta imitazione delle vite delle generazioni precedenti, per noi fonti di cultura, abitudini e pregiudizi?

Lo spettacolo inizia con un filmato in cui a una donna anziana di etnia Rom viene comunicato lo sfratto. Appare subito chiaro l’interesse economico della società privata che agisce per mandato del comune per gentrificare il quartiere. Bisogna far sloggiare i Rom per riqualificare le proprietà immobiliari. Il video pare una testimonianza reale di qualcosa avvenuto veramente in Ungheria, ma il sipario si alza e vediamo lo scenario della ripresa video. La casa in questione non è una casa vera ma la scenografia entro cui agiscono gli attori. Non abitiamo nel documentario ma nella fiction.

La donna anziana si sente male e il liquidatore, suo malgrado è costretto a chiamare i soccorsi. La conversazione con il 118 ungherese è agghiacciante: i soccorsi non arriveranno in tempo utile per questione di priorità e quel particolare quartiere non lo è. L’uomo si sente in colpa, non sa se abbandonare la donna al suo destino o provare a fare qualcosa. Si decide a consigliarla, all’arrivo dell’ambulanza, di farsi portare in ospedale in modo così da bloccare lo sfratto. L’uomo esce.

Lo scenario cambia. Cade una pioggia vaporosa su cui viene proiettato un filmato: un incontro della donna col figlio in un albergo del centro dove lui esercita la professione di prostituto. Il ragazzo è scappato di casa a causa di un padre violento e soprattutto perché rifiutava le sue origini tzigane. Voleva non essere discriminato. Quello che vediamo è probabilmente un ricordo. Qualcosa di avvenuto prima e ora, forse, visione della donna in punto di morte.

Lo scenario cambia ancora. La casa comincia lentamente a ruotare di 360 gradi sull’asse verticale. Tutto all’interno crolla e si sfascia. È una scena molto lunga, suggestiva e violenta. Quando ritorna in assetto ecco tornare il liquidatore con una giovane donna. Nonostante la casa sia allo sfascio, l’uomo cerca di convincerla a firmare un contratto di locazione alle stesse condizioni della vecchia e per la stessa truffaldina società. La giovane, costretta dall’indigenza, ma è costretta a mentire perché la csa è per una persona e lei ha ha un figlio. Appena uscito il liquidatore, lo fa entrare di nascosto in casa.

La madre riceve dei messaggi da parte di un ex amante. Costui è insistente e nonostante appaia chiara la natura burrascosa e violenta del loro rapporto, lei accetta di incontrarlo lasciando solo a casa il figlio. È in questo momento che accade qualcosa di inaspettato. Scende ancora la pioggia su cui viene proiettata l’immagine del figlio dell’anziana signora in una stanza d’albergo con la sua amante. Litigano e nel mentre appare il bambino. Il ragazzo lo insegue e in questa rincorsa labirintica nei corridoi dell’albergo eccolo aprire una porta e piombare in casa. Subito la riconosce per quella della madre. Il bambino dice che è morta e ora sono loro ad abitarla.

Tutto sembra una prosecuzione del racconto. Arriverà la madre del bambino? Cosa le è successo? E che farà il ragazzo apparso per magia e ora con una katana in mano per tagliare una semplice mela? Il sipario improvvisamente cala e viene proiettato un testo in cui si racconta l’uccisione di un bambino con un colpo di spada da parte di un uomo di origine Rom. Questo ha creato scalpore nell’opinione pubblica ma solo fino quando si è scoperto che anche il bambino aveva le stesse origini. La storia è vera.

Imitation of life

Tutti i piani sono ora svelati: abbiamo un fatto di cronaca reale e una drammaturgia derivata. Gli attori interpretano dei ruoli mostrando allo spettatore una realtà sociale intrisa di pregiudizi quanto mai reali, soprattutto oggi dove, a governare l’Ungheria, vi è un partito di estrema destra e un regime al limite della dittatura. I personaggi però sono ingabbiati nelle parti che ha scelto per loro, non il drammaturgo, ma la vita reale stessa. Il lavoro dell’attore nella creazione dei personaggi è limitato proprio dalla realtà che si vuole rappresentare: il liquidatore è razzista e non sopporta i Rom, la donna anziana ne è orgogliosa nonostante gli innumerevoli affronti ricevuti durante tutta una vita, il figlio di lei rifiuta le sue origini perché discriminato. Le loro vite immaginarie non sono frutto di scelte artistiche ma di un’immersione in un ambiente e in una cultura che fa giocare loro una partita già giocata infinite volte, non nella fiction, ma nella realtà.

Si imita la vita nella realtà come nella rappresentazione. Se fosse solo questo saremmo in un territorio conosciuto, ma è solo una falsa impressione. Verità, immaginazione, illusione, oggettività si mischiano a tal punto da confonderci. Il filmato sembra vero, un documento reale di un fatto accaduto, ma scopriamo essere parte della rappresentazione e quando siamo ormai tranquilli di abitare solo una storia, certo con riferimenti a una realtà politica difficile, ingiusta e violenta, ma pur sempre parte di una fiction, ecco che irrompe nel finale nuovamente la realtà.

Imitation of life è uno specchio del mondo con molti piani di rifrazione. Difficile stabilire quale immagine sia quella esistente e quali semplici proiezioni della stessa. È come la scena del padiglione degli specchi ne Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii: anche se si rompono, non si riesce a trovare Terence Hill.

Miriam Selima Fieno
Fuga dall’Egitto

Diverso il punto di vista di Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio. Lo spettacolo trae origine dal libro Fuga dall’Egitto di Azzurra Meringolo Scarfoglio e vuole raccontare la diaspora di intellettuali, medici, artisti dall’Egitto post rivoluzionario in seguito all’avvento della giunta militare guidata da Abdel Fattah al-Sisi. Migliaia di persone sono scappate dal proprio paese dopo aver vissuto l’ebbrezza di essere riusciti a far cadere il regime di Hosni Mubarak e l’aver, in seguito, impedito la deriva integralista del successore Mohamed Morsi.

Come disse Dante: “noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto”. Al Sisi prende il potere insieme ai militari e dal 2014 si assiste nel paese a un’escalation di repressione, sparizioni, incarcerazioni ingiustificate. Testimonianza di ciò le tragiche storie che hanno colpito il nostro paese con la morte di Giulio Regeni e l’ingiusta e continua detenzione di Patrick Zaki.

Miriam Selima Fieno costruisce una performance in cui racconta la sua volontà di narrare quest’esodo. Lo spettacolo parte proprio da qui, dalla storia recente dell’Egitto e dalla collaborazione con la giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio. Miriam per prima cosa vorrebbe andare in Egitto ma la giornalista la sconsiglia caldamente proprio dopo quanto successo a Giulio Regeni. Il rischio della vita è concreto. Così Miriam muta obbiettivo, raccontare l’esodo insieme a chi l’ha vissuto. Contatta quindi degli esuli, ora rifugiati in vari paesi d’Europa, e costoro immediatamente accettano la collaborazione.

A questo punto nascono i dubbi, le domande e le incertezze. Questo rimuginare e domandarsi costituisce la spina dorsale dello spettacolo. Miriam Selima Fieno condivide le sue difficoltà e paure con il pubblico: cosa sto raccontando? E utile quanto sto facendo? È incisivo? E soprattutto: è giusta la strada che sto intraprendendo?

La narrazione prosegue: alcuni collaboratori si ritirano per paura: persino all’estero possono giungere le ripercussioni da parte del regime. Nel 2020 scoppia la pandemia che rende tutto ancora più difficile. Finalmente Miriam riesce ad incontrare i tre esiliati (nell’ordine Bahey El-din Hassan, Taher Mokhtar, Ahmed Said) con cui ha mantenuto il contatto e la materia si surriscalda. Si avverte negli occhi e nelle parole di questi tre uomini la delusione, la solitudine, la sconfitta, di chi ha creduto in una rivoluzione e ha perso. E la cui fuga ha costretto a lasciare indietro affetti, famiglia, figli, amici. Così dalle parole di questi uomini sorge una domanda scomoda per il pubblico e per la stessa artista: perché volete parlare e ascoltare dell’Egitto quando l’Italia e il suo governo sono tra i principali partner commerciali dell’Egitto vendendo al regime di Al Sisi strumenti di controllo telematico e armi? Perché non vi ribellate al vostro governo complice del degenerare di un regime militare?

Siamo tutti presi in causa. Siamo complici silenti e non basta commuoversi per i “poveri” rifugiati. Siamo abituati in Occidente a spettacoli o libri che ci parlano degli orrori nelle altre parti del mondo, ma tornati a casa o posato il libro, la nostra preoccupazione svanisce nell’autocompiacimento di non essere come gli altri, di essere progressisti, informati, colti, non affetti da pregiudizi, blandamente impegnati politicamente. Miriam si accorge di questo rischio e si chiede cosa fare. Emblematica e suggestiva la scena in cui discute con se stessa proiettata sugli schermi.

Miriam Selima Fieno
Fuga dall’Egitto

Miriam si accorge che alla narrazione mancano degli elementi. Il primo è incarnato in scena da Yasmine El Baramawy, autrice live delle musiche di scena. Yasmine racconta la rivoluzione delle donne. Mostra un video di uno stupro in piazza, durante le proteste. Le donne, in questo evento storico, sono le vittime silenziose e non difese da nessuno, e questo sia prima, nel momento della speranza, sia dopo con l’avvento del regime.

L’ultimo elemento, quello che conclude lo spettacolo, è la voce stessa del regime. Si proietta un’intervista pubblica di Al Sisi in cui alla domanda del giornalista se ci siano sparizioni e incarcerazioni ingiustificate, il dittatore nega. Eppure le fonti parlano di sessantamila persone desaparide, continua il giornalista. Al Sisi sorridente nega ancora. La storia è ora completa e lo spettacolo può terminare.

Fuga dall’Egitto intesse un’interessante rapporto con quello che chiamiamo realtà. Innanzitutto per quanto si cerchi di essere oggettivi e obiettivi il punto di vista di chi narra è sempre presente: quella raccontata da Miriamo non è la Storia ma la sua storia intessuta insieme a quelle dei quattro rifugiati.

Inoltre si pone la questione documentale. Nella nostra epoca questi sono sempre più fragili e manipolabili. Viviamo in un tempo in cui le fake news inquinano ogni possibilità di raggiungere la verità. E quindi come si può raccontare un fatto, un evento, una vita? Possiamo forse accontentarci di fornire solo una parziale visione sperando di convincere l’occhio che guarda della nostra onestà e imparzialità? E nel far questo possiamo sperare di cambiare le cose e costruire un mondo diverso? Oppure è solo uno sforzo vano, e il massimo raggiungibile è l’applauso del pubblico?

Queste sono domande non solo di Miriam ma anche di chi scrive ogni volta che scrive. Penso anche di chiunque cerchi secondo coscienza di dar conto di ciò che avviene intorno a lui o lei. Realtà e verità sono concetti sempre più relativizzati dal costante inquinamento delle informazioni e, paradossalmente proprio dall’abbondanza dei documenti. L’innumere annulla il segnale, lo azzera e tutto diventa confuso. La domanda finale diventa: il teatro può ancora pensare, come nello scorso secolo, di poter essere motore di cambiamento delle coscienze?

Miriam e Nicola con molta umiltà, ostentando tutti i difetti e i dubbi, con estrema onestà intellettuale condividono con noi un percorso su una questione che ci riguarda (ricordiamo Giulio Regeni e Patrick Zaki). Interrogarsi in merito è il minimo che possiamo fare come spettatori.

Il merito di Miriam e Nicola è di aver provato a mettere di fronte ai nostri occhi una realtà scomoda, evidente e nascosta allo stesso tempo. Lo hanno fatto con strumenti ancora debitori di altre ricerche (soprattutto Milo Rau e Agrupation Señor Serrano), ma sulla strada per costruire un loro modo di raccontare il mondo. La sincerità e onestà con cui hanno condiviso il loro percorso li ha ripagati e il pubblico li ha gratificati di una giusta standing ovation. Ora bisogna continuare il cammino e affrontare nuove sfide. Auguro loro di proseguire con questo impegno e con questo entusiasmo, senza mai smettere di porsi domande scomode e rimanendo fedeli alla sincerità che ha accompagnato questa loro Fuga dall’Egitto.

Dellavalle/Petris

IL NIDO E IL TORO: ALLA RADICE DEL SENSO DEL RACCONTO

L’ultimo fine settimana di settembre mi ha portato a contatto con due opere in sé molto diverse per approccio drammaturgico, estetico e politico, ma in qualche modo correlate proprio nel loro essere opposte. Come le piante del mito indiano una ascendente verso l’alto, l’altra discendente verso il basso intrecciano i loro rami e diventano la casa, non più degli dei, ma delle immagini.

Questo appartenere a piani e orientamenti diversi, ci pone a contatto con alcune questioni sempre più urgenti: riformulare le funzioni della scena, in primo luogo; in seconda battuta mette in questioni le modalità di racconto della realtà quando questa si fa sempre più sfuggente, relativa, evanescente. Anzi forse la vera domanda è se esista una realtà da raccontare e non ci si trovi di fronte a una miriade di punti di vista parziali, divisi e sparpagliati come i frammenti di uno specchio rotto, e solo attraverso la relazione di queste diverse isole possa intravedersi un disegno mai statico ma multiforme e cangiante.

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Le opere di cui parlo sono The Nest – Il nido in scena al Teatro Astra di Torino, ultima creazione della Compagnia Dellavalle/Petris da un testo del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz del 1974 e già in anticipo sui tempi rispetto ai temi ambientali; l’altra in scena alle Fonderie Limone nel programma di TorinoDanza è Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou, acclamato artista maestro nell’ideazione di paesaggi immaginari ed evocativi attraverso cui, in ogni sua creazione, riesce a ridefinire cosa sia una coreografia.

Torniamo al tema di apertura. Roberto Calasso scriveva: «La narrazione presuppone la scomparsa della realtà. Non ha senso raccontare a chi è testimone». Questo principio presuppone non la descrizione di un mondo quanto piuttosto l’invenzione di uno non esistente ma possibile, e nel suo essere plausibile ecco farsi specchio riflettente un’immagine che, in qualche modo misterioso, riesce a parlare proprio del mondo attraverso il nascondimento proprio della rappresentazione.

È il processo che avviene nel mito: Agamennone non è solo un semplice reduce di guerra, la sua vicenda non è la cronaca di una vendetta nata dalle conseguenze di un conflitto. È una figura inesistente, una maschera contenitore attraverso la quale parlano le voci (da qui il termine Hypocrites che definisce il ruolo dell’attore: colui che risponde e interpreta l’oracolo, ossia colui che viene parlato dalle voci) ed entro cui le contraddizioni tra ciò che è considerato giusto e sbagliato possono scontrarsi. La sua storia diventa un luogo altro, una porta dimensionale attraverso cui infinite realtà possono materializzarsi, ed ecco perché, attraverso i secoli, il racconto delle vicende sue e della sua famiglia, ha colpito e ancor colpisce.

Se Eschilo avesse parlato della vera storia del semplice soldato Eumeo, del suo ritorno a casa, del tradimento della moglie Santippe con il vicino di casa, del suo omicidio e delle vendetta del figlio Telegono, il risultato sarebbe stato lo stesso? Quella vicenda lontana dai miti e dagli eroi avrebbe varcato i secoli? Si sarebbe potuto parlare della nascita del tribunale e di fondazione dell’Occidente se Eschilo si fosse limitato alla cronaca?

The nest – Il Nido Compagnia Dellavalle/Petris ph:@Andrea Macchia

Il Nido messo in scena dalla Compagnia Dellavalle/Petris, riscrittura personalissima dal lavoro del drammaturgo tedesco Franz Xaver Kroetz, mette in questione proprio questo: attraverso la vicenda di un semplice camionista, del suo accettare qualsiasi lavoro per potere mantenere la sua famiglia, anche quelli illeciti come il versare liquami tossici nel lago dove nuota suo figlio mettendone in pericolo la vita, non stiamo raccontando un universale in cui tutti ci troviamo coinvolti? Il racconto fatto ai testimoni di una modalità comune non genera allo stesso modo una catarsi o un satori improvviso?

Dellavalle/Petris scelgono inoltre di portare il piano di realtà ancora più prossimo al pubblico mostrando in scena interviste a giovani coppie che si interrogano proprio su cosa avrebbero fatto al posto del protagonista. Queste confessioni rivelano una realtà più conformista e consenziente del personaggio incarnato dall’attore in scena già molto poco eroe e più complice e vittima di un sistema. Nell’osservare il processo drammaturgico messo in moto ci scopriamo a essere tutti complici di un modello sociale ed economico e, nello stesso tempo, di essere pronti comunque a giudicare severamente chi viene colto in flagranza di reato e, in seguito, di essere altrettanto pronti a giustificare le nostre connivenze con la scusa che il pane va comunque portato a casa e non ci si può permettere di perdere il lavoro.

La cronaca quindi, la microstoria intrecciata con le altre personalissime narrazioni dei cittadini, partecipanti al processo di condivisione drammaturgica con le artiste, ci mostra la tela di ragno entro cui tutti siamo ingabbiati. Il meccanismo attraverso cui siamo tutti schiavi in apparente stato di libertà, e dove l’equilibrio ecologico del pianeta è messo a rischio da un criterio economico fondato sul ricatto e lo sfruttamento, un sistema tenuto a galla proprio dalle nostre continue complicità, dal nostro quotidiano cedere ai ricatti, nell’essere incapaci di astrarsi da un consumismo compulsivo generante un falso senso di appagamento.

Il nido entro cui pensiamo di essere protetti è un’illusione e siamo proprio noi stessi, con i nostri quotidiani piccoli sì, con i nostri bisogni di consumatori, gli artefici della sua distruzione. Proprio come ne La Tana di Kafka, il costruttore del rifugio ne è anche il distruttore.

Non è più quindi il racconto a essere mezzo di emersione di verità nel senso di Aletheia, ossia di ciò che è nascosto, quanto il dispositivo che con le sue trappole fa emergere un contesto. Un processo inverso attraverso cui l’universale sorge dal particolare, dall’elemento cronachistico, dalla microstoria. Qualcuno potrebbe obiettare che tutto questo non è per nulla nuovo. Fin da Brecht e del teatro agit-prop si provato in teatro a far questo. Eppure perfino quel teatro è rimasto affascinato dal mito. Solo le nuove generazioni stanno riuscendo ad allontanarsi definitivamente da una narrazione che prevede un eroe che universalizza in sé un problema.

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Dimitri Papaioannou ci catapulta in un mondo strutturalmente diverso. Siamo accalappiati fin dall’inizio in un gorgo di immagini, le quali richiamano a loro volta altre immagini, miti, opere d’arte, paesaggi. Papaioannou, architetto come Dedalo, orchestra un meraviglioso labirinto di forme pronte a susseguirsi senza una reale necessità drammaturgica ma come nei sogni dove la logica si fa evanescente. Papaioannou trasforma la scena nel dio Proteo, il quale, affinché pronunci l’oracolo, deve essere tenuto ben saldo a terra e solo dopo l’ultima trasformazione dirà la verità.

È inutile in questa sede fare un elenco dei riferimenti iconografici. Poco importa che il toro diventi quello di Pasifae o il rapitore di Europa, né a quale artista si possa riferire l’immagine della donna partoriente nella conchiglia. Interessa il processo drammaturgico messo in atto da Dimitri Papaioannou: accostare le immagini, farle fiorire una dall’altra, mostrare questi corpi ibridi, nati da generazioni equivoche, mescolare i piani di realtà a livello iconico. In questo disegno non importa nemmeno che vi sia un progetto. Ciò che diventa fondamentale è farsi trasportare come foglie dal vento generato da questo voltar pagine e pagine da un’immagine e l’altra. La realtà appare? O forse come Cobb in Inception di Christopher Nolan siamo intrappolati in un sogno dentro a un sogno? Questo labirinto estetico è provvisto di un qualsiasi filo d’Arianna che ci aiuti a uscire dalla caverna per osservare chi genera le ombre proiettate sullo schermo?

Traverse Orientation di Dimitri Papaioannou ph.@Julian Mommert

Il Nido e Traverse Orientation ci mostrano due modi di raccontare il mondo: attraverso l’infinitamente piccolo e l’abissalmente lontano. Come racconta la Tavola Smaragdina, testo cruciale dell’alchimia, ciò che è in alto rispecchia ciò che sta in basso. Ciò che è cambiato radicalmente è la prospettiva in cui si pone l’osservatore. Non è più parte di un mondo solido, costituito di valori ampiamente condivisi, ma è assiso sulla capocchia di un proprio personalissimo spillo, dal quale vede un mondo drasticamente diverso da quello del suo vicino. Queste visioni si possono incontrare solo se in qualche modo riunite in rete, collegate come sinapsi neuronali, riconfigurantesi volta per volta.

Non vi è più una sola realtà. Forse non c’è nemmeno una realtà. Solo dei fenomeni che appaiono fugaci come lampi nella notte. E non ci sono più testimoni nel senso tribunalizio del termine: il terstis, colui che ha visto e ne dà conto; ma secondo l’etimologia che ci porta al mártys (da cui martire) colui che testimonia in pubblico la sua fede. Il fatto di aver vissuto, di essere nella pelle di, rende vero e tangibile ciò che è relativo e personalissimo. Esistono quindi solo sguardi diversi che per confrontarsi necessitano di un termine di paragone, o di uno specchio che rimbalzi l’immagine, rendendo chiaro che, in ogni caso, è sempre tutto un gioco di ombre.

Festen. Il gioco della verità

FESTEN: VERITÀ E COMUNITÀ, RICERCA E POLITICA

Da quando i teatri hanno riaperto ho voluto cercare l’occasione giusta per ritornare in sala. Volevo uno spettacolo che mi risvegliasse il desiderio del teatro e riportasse a galla gli alti valori di quest’arte millenaria sopiti nel lungo intermezzo d’assenza e che nessuno streaming o zoom poteva in alcun modo impersonare se non nella mancanza e nell’inadeguatezza.

Festen. Il gioco della verità messo in scena da Il Mulino di Amleto al Teatro Astra di Torino, prima versione teatrale italiana del capolavoro cinematografico di Thomas Vinterberg, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1998, mi sembrava l’occasione giusta per molti motivi ben rappresentati dalle parole chiave comprese nel titolo in testa a queste riflessioni.

La verità in primis. Veritas per i latini rimandava a una conformità di un’asserzione rispetto al reale oggettivo. Il termine aveva, etimologicamente parlando, anche una certa parentela con la fede, consanguineità rimasta nella vera nuziale (pensiamo anche alla religione cattolica dove si dice: Dio è verità). Per i greci d’altra parte, si parlava di Aletheia, ossia del non dimenticato, di un venire a galla attraverso uno svelamento, un apparire da un nascondiglio. Aletheia è velata ma sotto gli occhi di tutti, solo un’azione energica, coraggiosa, persino crudele, è capace di togliere il velo e farla apparire. Aletheia è appannaggio di Dike, dea della giustizia, perché ciò che rivela ci conduce lontano dalle false opinioni e dall’ignoranza. È dunque un’azione legata alla conoscenza, perciò è fluida, non granitica, mutevole secondo le circostanze e il contesto. Il teatro può essere una forma di conoscenza, laddove si allontana dallo spettacolino, per divenire dunque una sorta di prassi filosofica volta a far emergere ciò che di irrisolto resta nel nostro vivere, qui e ora.

Per dire la verità, intesa come Aletheia, bisogna percorrere strade tortuose. Per fare emergere ciò che è nascosto bisogna nascondersi a propria volta, usando la maschera, farsi parlare dalle voci, farsi attraversare dalle cose. Questo è il gioco della verità messo in atto da Il Mulino di Amleto: la festa a cui assistiamo, la vicenda di cui ci troviamo a essere complici (e vedremo in che modo), è la macchina di svelamento, il mezzo attraverso cui emerge il nascosto. Ulteriore strumento di emersione è il gioco tra ciò che avviene dal vivo e l’immagine filmica, in unico piano sequenza girato dagli stessi attori, proiettato sul telo trasparente che forma la quarta parete. Si può scegliere cosa guardare: la rappresentazione o la finzione, entrambe realtà parziali, frammenti di uno specchio da dover ricostruire ognuno a suo modo, e così scoprire il gioco di incastri, scambi e trucchi messi in atto davanti a noi per darci l’impressione della festa. Qui non siamo di fronte a un’ennesima applicazione della tanto sbandierata multidisciplinarietà, ma di un vero e proprio montaggio delle attrazioni in cui ogni linguaggio possiede una sua linea di significanza che si contrappunta con le altre a formarne uno più complesso da cui emergono i temi principali.

Da questo intreccio di forme diventa palese che il pretesto della vicenda, ciò che avviene tra i personaggi, non riguarda tanto e non solo l’istituzione famiglia, quanto piuttosto la lotta generazionale, l’oppressione dei padri sui figli, il liberarsi dei debiti ereditati, dalle catene imposte che negano una libera costruzione di un futuro diverso. La maschera e il montaggio delle attrazioni insieme rivelano un problema politico, soprattutto in questo paese, dove tutti abbiamo ricevuto in dote un fardello di cliché, debiti (pubblici e privati), automatismi e cattive abitudini da cui è molto difficile, non solo liberarsi, ma addirittura guardarle senza impallidire e distogliere lo sguardo.

In questo gioco di maschere e di scomodi svelamenti, una parte è affidata al pubblico. Ci scivoliamo dentro quasi senza accorgersene. Sembra un gioco per innescare la narrazione, una delle tante e vuote forme di coinvolgimento del pubblico, qualcosa per farlo partecipare all’opera. Ci viene fatto scegliere quale copione interpretare, se quello verde o quello giallo. E la festa comincia. Solo alla fine capiamo perché quando nel finale ci viene riproposto il meccanismo: scegliere la lettera gialla o quella verde. Da quella lettera si scopre il verminaio e noi pubblico, altro non eravamo che gli ospiti della festa, quegli invitati che di fronte agli scandali snocciolati davanti ai nostri occhi abbiamo taciuto, osservando interessati e incuriositi, ma senza intervenire. Come in Five easy pieces di Milo Rau dove nel terzo frammento ci troviamo tutti a essere Dutroux, anche in Festen tutti partecipiamo, con il nostro semplice osservare taciti, al tentativo di insabbiamento della verità. L’atto di svelamento avviene sul palcoscenico ma senza la nostra attiva partecipazione. Noi siamo i complici. Abbiamo visto ma taciuto continuando a partecipare da ospiti alla festa di compleanno. Questa è l’azione politica messa in atto da Il Mulino di Amleto: svelare la complicità di noi tutti nell’ignorare ciò che avviene sotto i nostri occhi, e di ciò farci prendere coscienza.

Art needs time

Il processo di svelamento mediante il dispositivo di rappresentazione è frutto di un lungo processo di ricerca che ha impegnato Il Mulino di Amleto per almeno due anni, processo di cui chi scrive è stato in parte testimone partecipando alle sessioni di lavoro del progetto Art needs time messo in atto dalla compagnia torinese durante il 2019 e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia nel febbraio del 2020, quando proprio durante una sessione di lavoro fu annunciata la prima chiusura dei teatri. Durante quei periodi di intenso lavorio svincolato dalla necessità produttiva (un vero miracolo di questi tempi, soprattutto perché autofinanziato dalla compagnia stessa con estrema generosità) i materiali sono stati attraversati in molti modi: dal Manifesto Dogma 95, alla favole (Hansel e Gretel attraversa e si intreccia con Festen), e poi il Manifesto di Gent, Gli spettri e Un nemico del popolo di Ibsen. Un lungo lavoro con gli attori, i drammaturghi, la regia. Un processo reso possibile dalla grande coesione di un gruppo che sta crescendo insieme da anni condividendo l’evoluzione creativa sia del linguaggio registico, che delle scrittura e del lavoro dell’attore su se stesso, sulle tecniche e sui materiali.

Con troppa fretta in questi anni si è archiviata la modalità di creazione condivisa delle comunità teatrali, relegando il fenomeno a un momento storico concluso da cui non potevano maturare altri frutti. Eppure oggi si sente la mancanza di tale crescita comune, di coesione, discussione, lotta con la materia e con se stessi affrontata insieme in tutte le sue pericolose e tremende vicissitudini. Questa è la vera forza de Il Mulino di Amleto: l’essere un gruppo eterogeneo, unito, aperto alla sperimentazione e al confronto, con uno sguardo ampio e fiducioso verso il migliore teatro italiano ma soprattutto europeo. Questa forma comunitaria di agire, questa bottega artigiana abitata da molti, permette l’emergere della comunità proprio nel suo essere inclusiva anche del pubblico senza scomodare azioni forzate di coinvolgimento (avveniva anche nello splendido Platonov). È la forza dell’opera che ci permette, come pubblico, di essere parte in causa, di essere interpellati a viva forza e di essere quasi costretti, seppur gentilmente, a dire la nostra, a esprimerci. Ecco un’applicazione viva, non copiata, ma ispirata da quella che Milo Rau chiama Interpellation: il chiamare in causa il pubblico, scuotendolo, impegnandolo a dar conto delle proprie scelte e opinioni.

Ecco quindi le quattro parole che formano il titolo: verità, comunità, ricerca e politica intrecciate nella pratica di un gruppo che si impone sul panorama nazionale per il rigore con cui riafferma le funzioni più alte dell’azione teatrale: prassi filosofica, forma di conoscenza, luogo di confronto, farmaco delle ferite che ci attraversano come società.

Fin qui ho parlato de Il Mulino di Amleto come unita compatta, ma questo corpo unico e fortemente unito ha diverse anime che è giusto ricordare: a partire da Marco Lorenzi, uno dei registi di maggior spessore in questi anni, affiancato da Lorenzo De Iacovo alla scrittura e dalla dramaturg Anne Hirth, e quindi gli attori Roberta Calia, Yuri D’agostino, Elio D’Alessandro, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca, a cui, in questo ultimo lavoro si affiancano Roberta Lanave, Danilo Nigrelli e Irene Valdi.

Giunti alla fine qualcuno potrebbe obiettare che in questa recensione vi sono molte riflessioni ma pochi riferimenti alla storia. Avete ragione. La storia non è importante. È il pretesto per mettere in piedi un atto di conoscenza. Se si è interessati alle storie bisogna rivolgersi verso altri lidi, cercare l’intrattenimento, laddove tutto si basa sul plot. Il teatro, quando è grande teatro, è pensiero in atto, un ragionamento fatto d’azione, parole, movimento. È presa di conoscenza del mondo in cui si vive, ognuno dal suo punto di vista, sempre diverso nel tempo e nello spazio.

FESTEN. IL GIOCO DELLA VERITÀ

DI THOMAS VINTERBERG, MOGENS RUKOV & BO HR. HANSEN


ADATTAMENTO PER IL TEATRO DI DAVID ELDRIDGE


PRIMA PRODUZIONE MARLA RUBIN PRODUCTIONS LTD, A LONDRA


PER GENTILE CONCESSIONE DI NORDISKA APS, COPENHAGEN

VERSIONE ITALIANA E ADATTAMENTO DI LORENZO DE IACOVO E MARCO LORENZI

CON DANILO NIGRELLI, IRENE IVALDI E (IN ORDINE ALFABETICO) ROBERTA CALIA,
YURI D’AGOSTINO, ELIO D’ALESSANDRO, ROBERTA LANAVE, BARBARA MAZZI,
RAFFAELE MUSELLA, ANGELO TRONCA

REGIA MARCO LORENZI
ASSISTENTE ALLA REGIA NOEMI GRASSO
DRAMATURG ANNE HIRTH
VISUAL CONCEPT E VIDEO ELEONORA DIANA
COSTUMI ALESSIO ROSATI
SOUND DESIGNER GIORGIO TEDESCO
LUCI LINK-BOY (ELEONORA DIANA & GIORGIO TEDESCO)
CONSULENTE MUSICALE E VOCAL COACH BRUNO DE FRANCESCHI
PRODUZIONE TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA, ELSINOR CENTRO DI PRODUZIONE TEATRALE, TEATRO STABILE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA, SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
IN COLLABORAZIONE CON IL MULINO DI AMLETO

DEBUTTO 31 MAGGIO 2021 – TEATRO ASTRA, TORINO
PRIMA ASSOLUTA ITALIANA

DURATA 110 MIN

Il giardino dei ciliegi

ALESSANDRO SERRA: IL GIARDINO DEI CILIEGI

L’immagine iniziale de Il giardino dei ciliegi diretto da Alessandro Serra ricorda un bellissimo racconto breve di Kafka intitolato Di notte: “Sprofondato nella notte. […] Gli uomini intorno dormono. Una piccola commedia, un’innocente illusione che dormano nelle loro case, nei letti solidi, sotto un tetto solido”, e giunge un lume da dietro il fondale, poi entro la stanza: “uno deve vegliare, dicono. Uno deve essere presente”. Da questo momento ecco il risveglio, tutto prende vita, inizia il vortice di risolini e piccoli pianti intorno al destino del giardino dei ciliegi.

Alessandro Serra fa danzare il testo di Čechov. La sua più che una regia è una coreografia, e la danza è quella degli appestati, di coloro che festeggiano sull’orlo dell’abisso che incombe solo un passo più in là. Le immagini evocate appaiono tutte a prima vista innocenti, serene, carezzevoli. Eppure un retrogusto di stantio, di muffo, di defunto non abbandona il palato. I fermo-immagine color seppia che evocano i ferrotipi e gli ambrotipi non parlano forse di un mondo morto? E gli oggetti? Il carrello, le sedie da giardino in ferro battuto, le valigie e le cappelliere, gli ombrellini da passeggio in pizzo? Non siamo di fronte a una ricostruzione suppur un poco surreale, per quanto a prima vista possa parere. È un mondo di fantasmi quello che appare davanti ai nostri occhi, di anime morte ignare del fulmine che si abbatteva su di loro. E non ci sono nemmeno vincitori e sconfitti tra quei balli, festicciole, e ritrovi di famiglia e amici. Tutti saranno travolti dalla nera tempesta che si profilava all’orizzonte e verso la quale nessuno volge gli occhi. Nel finale infatti si torna alla landa desolata i cui tutti dormono. Solo Firs si aggira tra loro, ma poi si accascia, si sdraia bocconi e, dopo un ultimo risolino, il silenzio. Non vi è nemmeno più colui che veglia.

Il giardino dei ciliegi
Il giardino dei ciliegi ph:@Alessandro Serra

Il movimento e il ritmo, di cui Alessandro Serra è padrone, sono proprio i sintomi più evidenti di tale sprofondare nell’abisso. Come diceva Ernesto De Martino: “In tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione; il mondo crolla, sprofonda”.

Le immagini sono cesellate, frutto di estrema cura. I quadri si susseguono come in una galleria. Ogni gesto o movimento è dosato e mai abusato. Tutto concorre a far emergere un gusto complesso, di dolce, di zuccheroso a nascondere il marcio che pur affiora. Probabilmente tutto ciò sfugge alle intenzioni volte più a far risaltare, come recita il programma di sala, una stanza per bambini e un sentimento legato a un’età lontana e come dimenticata. Ma l’opera spesso sfugge dalle mani dell’autore, rivela altri sentieri, sollecita altre visioni, e questo rivela la ricchezza di una scrittura al di là del tempo e delle interpretazioni.

Il giardino dei ciliegi

Il giardino dei ciliegi è stata l’ultima opera di Čechov ad andare in scena. Era il 1904 al Teatro d’arte di Mosca sotto la direzione di Stanislavskij. Se Čechov aveva concepito l’opera come una commedia, Stanislavskij la interpretò come una tragedia. C’era dunque presente un’ambivalenza nella vicenda che faceva oscillare da un estremo all’altro, una ricchezza di punti di vista per un piccolo enigma. Passati sei mesi da quella prima Čechov morì di tubercolosi. Il grande scrittore se ne andava poco prima dei colpi di cannone. Nel 1905 scoppiarono infatti in tutta la Russia moti contadini e operai, un prologo a quella definitiva del 1917 che mise fine alla Russia zarista. La maggior parte non si aspettava un tale esito. Come i personaggi de Il giardino dei ciliegi molti non compresero i segnali di tempesta che incombevano su una società morente. Oggi come allora siamo ciechi. Tra feste e balli facciamo di tutto per ignorare i colpi di scure che si abbattono sul giardino dei ciliegi

Visto al Teatro Astra di Torino il 15 febbraio 2020

Il caso W

IL CASO W DI CLAUDIO MORGANTI

Il teatro ha avuto fin dalle origini una passione per il tribunale, tanto da poter quasi dire che le due istituzioni, in Occidente, siano nate gemelle. Questa attrazione reciproca continua tutt’oggi. Pensiamo solo a molti lavori di Milo Rau dove il tribunale è la forma teatrale stessa. Oppure a come molti artisti oggi scelgano di incontrare l’Orestea di Eschilo. Il caso W di Claudio Morganti, con la scrittura di Rita Frongia, è un’ulteriore immagine di tale fascinazione a sua volta innesco per far deflagrare altre seduzioni pericolose.

Prima fra tutte il caso Woyzeck. C’è qualcosa di estremamente contemporaneo nella vicenda lasciata incompiuta da Büchner, un’inquietudine molesta che fa riflettere. Non solo per il femminicidio perpetrato dal soldato Woyzeck, ispirato alla reale vicenda dell’omonimo barbiere di Lipsia consumatasi nel 1821. Si tratta di un grumo ambiguo, un buco nero in cui si agitano follia, libero arbitrio, condizioni ambientali, abbrutimento, alcolismo e che si palesano in una semplice domanda: Woyzeck era in grado di intendere e di volere? E ancora: questo male oscuro da cosa è generato? È contagioso? Si può insinuare in ogni coscienza?

Il professor Johann Christian August Clarus fu il primo a porsi il problema tra il 1821 e il 1824, periodo in cui, tramite due perizie, cercò di far revisionare il processo Woyzeck scongiurando la pena di morte all’omicida. I suoi sforzi furono inutili ma le sue considerazioni, pubblicate su una rivista medica cui era abbonato il padre di Büchner fecero nascere il personaggio teatrale. Agli albori del Novecento ecco riaffiorare la vicenda Woyzeck, non solo per le numerose regie tra cui spiccano quella di Max Reinhardt e l’opera di Alban Berg, ma anche e soprattutto per il suo doppio letterario, il Moosbrugger de L’uomo senza qualità di Musil.

Woyzeck e Moosbrugger portano alla luce forze caotiche non chiaramente definibili causa di inquietudini profonde che la civiltà occidentale vuole convincersi siano sopite, scongiurate, rese innocue, ma formano il sottofondo cupo e ambiguo che si agita sotto la calda e confortante coperta della civilizzazione. :”Se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger” ci dice Musil, e con esso il soldato Woyzeck, aggiungeremmo noi.

Il caso W è l’ultima propaggine di una ricerca minuziosa, di un’indagine accuratissima al limite dell’ossessione che Claudio Morganti affronta da circa vent’anni. In questa sua ultima fatica è affiancato dalla scrittura arguta e surreale di Rita Frongia. L’opera in cui lo spettatore si trova immerso, quasi catapultato in un tribunale dove si dibatte l’appello del caso Woyzeck, possiede elementi di agghiacciante ironia su cui si staglia l’orrenda e tremenda solitudine dell’omicida. Nessuno vuole capire cosa sia realmente successo: non gli avvocati, avversari solo perché di parte, ma amichevoli nelle pause del dibattimento; non il giudice e il cancelliere, ascoltatori e osservatori per dovere; non i testimoni portatori di una propria verità parziale, larva e maschera delle proprie colpe e miserie, soprattutto correi per disattenzione; e nemmeno lo spettatore, muto e nascosto nell’ombra. Ciascuno, in questa cronaca di una morte annunciata, recita una parte tranne Woyzeck, il quale tenta di dire, straparla, balbetta, si affanna a trovar parole che diano una ragione ma incapace di trovarle. Il povero soldato è impedito dalla separazione totale dal resto del consesso umano.

La forma data da Claudio Morganti e Rita Frongia richiama esplicitamente una certa commedia all’italiana colma di contenuti politici e alla ricerca del paradosso, dell’iperbole, del grottesco. Woyzeck nel suo mutismo, nel suo stare seduto a capo chino con le mani abbandonate in grembo, il suo chiedere parola rispettosamente alzando la mano sembra quasi il più normale e soprattutto il più reale. Testimoni, avvocati e giudice sono personaggi, parte di un grande spettacolo di varietà, di una farsa da avanspettacolo volta a intrattenere la morbosa curiosità del pubblico e non attori di un processo volto a comprendere e stabile la verità al fine di affermare la giustizia e comminare una pena, peraltro già assegnata. Siamo di fronte a un circo il cui unico scopo è alzare polvere che offuschi i fatti e i moventi, cortina fumogena di cui tutti siamo testimoni ogniqualvolta un delitto si affaccia gli onori della cronaca. Pensiamo ai casi clamorosi di Cogne, di Rosa e Olindo, il delitto di Garlasco o quello di Perugia. A ogni nuovo trucido fatto di sangue ecco sfilare testimoni, esperti, vallette e dubbi vip a dire la loro, a stabilire colpe e moventi, senza chiedersi: perché? E di fronte a tutta questa macchina spettacolare ecco il teatro, nel suo essere rappresentazione e finzione, manifestare la sua funzione rivelatrice facendosi portatore delle voci inascoltate: quella di Woyzeck e del fantasma di Marie.

Il teatro, lo ripetiamo, nasce a braccetto con il delitto e il tribunale. C’è un’affinità inquietante tra le due realtà. Il delitto sembra essere il terreno su cui interrogarsi a proposito della natura umana e Il caso W ne sembra la quintessenza. Come dice il poliziotto nell’ultima battuta del manoscritto di Büchner: “un bel delitto, un delitto fatto bene, proprio bello! Tanto bello che non si poteva pretendere di più. Da tanto non ne avevamo avuto uno così”.