La sposa blu di Silvia Battaglio è la versione della nera favola di Barbablu che decisamente non ti aspetti. La novella di Perrault ci racconta di un uomo che sposa e uccide le sue mogli. E dunque ci si attenderebbe un ovvio parallelismo con il triste e inarrestabile fenomeno dei femminicidi. Tale elemento non manca, si badi bene, ma rimane sullo sfondo, come una quinta cupa, che conferisce alla narrazione un’angolatura tutta particolare e speciale.
La sposa blu osa contrapporsi a Barbablu, mai presente in scena, benché in qualche modo incomba nell’ombra tra le quinte. Non è la curiosità a spingere verso il proibito, ma un’affermazione positiva di indipendenza. La sposa vuole liberarsi delle paure proprie e di lui, quei timori che ci trasformano nella parte peggiore di noi stessi e teniamo sepolti nel profondo del nostro animo. Per questo desidera a tutti costi aprire quella porta e dialogare con gli scheletri nell’armadio. E proprio in questo confronto si libera dal possesso, non vuole essere schiava del terrore incombente, della solitudine a cui viene relegata da un uomo possessivo e violento, decide di aprire la porta e cercare l’uscita e la libertà.
Il racconto si dipana per immagini, attraverso linguaggi tessuti in contrappunto: gesto, danza, teatro di figura. La voce è sempre fuori scena, una voce pronta a prendere in prestito le parole altrui, di Desdemona, di Carmelo Bene e altri, a formare una sorta di montaggio di stati d’animo riuniti insieme allo scopo superare il trauma e il terrore verso una liberazione e non verso la morte certa.
Le stupende marionette degli anni ’40 della collezione Toselli prestate dall’ Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare di Grugliasco, diventano le mogli passate, pronte a riprendere vita, a suggerire un diverso finale alla novella sposa di pizzo bianco vestita. Evocative nell’essere copie e simulacri, le marionette sono una presenza inquietante sul confine abisso tra la vita prestata e l’inerzia dell’oggetto inanimato.
La colonna sonora, fatti di suoni d’ambiente e arie d’opera, gioca in contrappunto con la scena, è segno rivelatore di un percorso emotivo. Evocative le immagini, il gesto sempre controllato, mai superfluo o ridondante. Le luci sono materia utile ad aprire e chiudere gli spazi e a fornire linee di fuga.
La sposa blu di Silvia Battaglio è un lavoro molto ben concepito, frutto di attento studio. Non è una semplice messa in scena ma una vera creazione d’attrice. Nonostante questi indubbi pregi a cui si assomma un gusto estetico raffinato e mai volgare o dozzinale, il lavoro risente, proprio per l’eccessiva attenzione al minimo particolare di una certa freddezza, una mancanza di emotività empatica che avrebbe fatto brillare il certosino lavoro di elaborazione.
Nel cercare di dominare il gran volume di materiale e di tecniche un’attrice come Silvia Battaglio, i cui lavori precedenti riflettevano di una certa misurata emotività che donava commozioni composte, sottili, ma profonde, si è come raffreddata, irrigidita nell’attenzione ai particolari e nel confezionare immagini di grande impatto visivo ma pronte a soddisfare più l’intelletto che il cuore. Il lavoro è ancora in fieri, non ha ancora raggiunto la sua temperatura ideale. Ora che la forma è ben incanalata e i materiali perfettamente incastrati, bisogna sfuggire alla loro orbita, navigarci dentro superando tutte le trappole che le immagini pongono sulla via, e ritrovare il calore magmatico dell’emozione. Bisogna dimenticare le regole e la gabbia drammaturgica e dopo aver dimenticato, come dicevano i maestri taoisti, dimenticare di aver dimenticato, il che significa lasciarsi portar dal flusso, presenti e distanti nello stesso tempo, e far fiorire l’emotività di un viaggio periglioso verso la liberazione.
La sposa bluè dunque un lavoro complesso ancora in lotta con sé stesso per sorgere alla piena luce sfuggendo ai legami che la stessa creazione pone alla sua attrice. Silvia Battaglio è un’artista esperta, sapiente, capace con il lavoro di costruire tale tipo di percorso che necessità solo di tempo per far emergere tutte le sue potenzialità. Il tempo è l’unico elemento utile all’artista per far sbocciare i propri lavori, un bene sempre più prezioso e raro in un sistema pronto solo a chiedere e pretendere e a non concedere. Silvia Battaglio ha però la fortuna di essere prodotta e supportata da una compagnia come Zerogrammi, molto attenta a coltivare i processi artistici. Silvia dunque saprà trovare, come la suaSposa Blu, la giusta via di fuga e raggiungere tutta la piena e delicata potenza che traspare dal disegno compositivo. Di questo ne siamo sicuri.
Per la quarantasettesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo a Torino Silvia Battaglio. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Silvia Battaglio, fondatrice della Compagnia Biancateatro, è autrice, attrice e danzatrice. Tra le sue ultime opere ricordiamo la Trilogia dell’identità, con Orlando le primavere, Lolita, Ballata per Minotauro.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Per quanto mi riguarda la creazione scenica è fortemente connessa a due elementi: tempo e relazione.
Tempo, come realtàcon la quale mi è indispensabile restare in ascolto per poter iniziare qualsiasi viaggio creativo che magari porti altrove, in un tempo altro, in un luogo altro, magari lontano da qui ma pur sempre in dialogo con il presente e orientato ad accarezzare possibili visioni future. Un tempo in costante metamorfosi che disegna le trame di un presente complesso e contraddittorio di cui, attraverso l’atto creativo, cerco a mio modo di tradurre la temperatura, i sentimenti, i chiaroscuri.
Relazione, come ‘dialogo fisico’ che nasce, dal vivo, tra gli interpreti che abitano la scena e la trasformano con il loro agire, come ‘dialogo energetico’ che si costruisce insieme al pubblico senza il quale il teatro – vissuto come rituale, come atto d’amore, come luogo di piacere o dispiacere (a seconda), come fuoco che sprigiona domande – non potrebbe accadere in alcun modo.
Rispetto all’efficacia o meno della creazione, sono diverse le parole-chiave che tengo in tasca e che guidano il lavoro, una di queste mi sta particolarmente a cuore, la parola comunicazione. Durante le varie fasi di creazione scenica – una volta definiti i contenuti e il punto di partenza che spesso porta a finali imprevisti – ricavo dei momenti per spostare lo sguardo, osservando il lavoro da angolazioni e punti di vista differenti, cercando di capire se ciò che ho, o che abbiamo costruito con i compagni di lavoro, sia realmente efficace sul piano della comunicazione. Ciò che va costruendosi in scena deve in qualche modo poter essere comunicabile, altrimenti il ‘contenuto’ resta qualcosa di ermetico e personale, ascrivibile a un “esercizio di stile” che però non serve a nessuno, se non a nutrire l’ego dell’artista. Dunque per me è importante cercar di capire se ciò che accade in scena sia in grado di arrivare quantomeno alla pancia, di evocare (il più possibile senza retorica e narrativa) tematiche universali. Trovo importante che il pubblico possa sentirsi incluso, parte in causa, ingaggiato, perché è a lui che ci rivolgiamo, perché il teatro deve cercare di ‘parlare al mondo del mondo’: questo pensiero fa sempre da innesco al mio lavoro creativo,che ha visto negli anni il susseguirsi di temi quali identità, potere, famiglia, diversità, intorno ai quali sono stati costruiti i lavori realizzati fino ad ora.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
È evidente che gli strumenti produttivi a sostegno della creazione teatrale e coreutica in Italia siano carenti, che alcuni Paesi (specie nel nord Europa) abbiano maggiormente a cuore la sorte del teatro e dell’arte in genere, avendo un ‘approccio ideologico’ tale da favorire scelte economiche e politiche a sostegno della cultura (e dell’istruzione!), così come è evidente che il rapporto tra i teatri e gli artisti in Italia sia sempre meno fluido, poiché subisce il depauperamento della graduale diminuzione del finanziamento pubblico sia a livello regionale che statale.
Dunque, in un panorama in cui la cultura non è considerata come ossigeno per il benessere di tutta la comunità e non riceve adeguati sostegni, risulta arduo l’affermarsi, per esempio, di collaborazioni tra centri di produzione teatrale, compagnie e artisti, fatta eccezione per alcune realtà che sicuramente in questo senso brillano e potrebbero essere un esempio per tutti.
Resta il fatto che in molti casi (e qui penso anche ai circuiti regionali) i programmatori dei teatri non “azzardano” e in gran parte – a meno che non vi sia in ballo una residenza vinta tramite bando o un rapporto di coproduzione – si astengono dal costruire stagioni che diano spazio a spettacoli lontani dal “commerciale” e magari più vicini alla ricerca e alla sperimentazione. La stretta economica certamente mette i teatri in difficoltà, inducendoli ad optare sempre di più per i famosi ‘scambi’ e/o a scegliere titoli-nomi di richiamo, più “rassicuranti” sia per il pubblico (che ha sempre più bisogno di distrarsi, di ritrovare in teatro l’attore che ha visto in tv, di evadere), sia per i teatri stessi che, così facendo, riescono a tutelarsi maggiormente dai possibili rischi dovuti alla mancata affluenza di pubblico. In questa fragile dimensione, in cui viene sempre meno il “coraggio” di allacciare rapporti di collaborazione duraturi tra compagnie, centri di produzione, teatri e artisti, la prospettiva appare appesantita da quelle che sono (e saranno purtroppo) le conseguenze generali legate agli effetti socioeconomici causati dal Coronavirus che apre le porte ad una crisi collettiva di ordine culturale, sociale e occupazionale.
Che fare? Certo bisognerebbe ripensare ai rapporti tra teatri e compagnie, mettendo al centro la ‘qualità artistica’ e non il business o il rapporto di convenienza, bisognerebbe avviare reali azioni di sostegno e di collaborazione tra le compagnie stesse, favorendo tra loro una certa ‘unità di settore’ e coesione, anziché esacerbare meccanismi competitivi di fronte ai quali l’intero settore artistico perde forza, e quindi capacità di dialogare in modo compatto con le istituzioni stesse, provando a innescare un cambiamento di rotta.
Ma, alla base di tutto, penso che servirebbe una svolta culturale in senso più ampio, lo Stato dovrebbe ripensare, per esempio, al rapporto tra teatro e scuola, in quanto bacini comunicanti che si nutrono vicendevolmente e sui quali sarebbe indispensabile investire, pena il rischio di una graduale e totale perdita di identità culturale, quindi anche socio-politica.
In quest’ottica, troverei utile integrare il sistema scuola, introducendo il teatro e la danza come materie facenti parte del programma scolastico (dalle elementari fino alle scuole superiori), definendo un programma di lezioni – teoriche e pratiche – attraverso le quali gli studenti, fin da bambini, possano entrare in contatto con il mondo dell’arte, del teatro, della danza (spesso in famiglia questa possibilità non esiste).
Trovo pericoloso il fatto che la scuola – così come la Sanità – subisca, ormai da molti anni, una netta virata verso l’aziendalizzazione e la privatizzazione. A queste scelte dissennate, rispondono programmi di studio che vanno escludendo sempre di più le materie umanistiche quali letteratura, filosofia e storia (del resto che importanza ha oggi come oggi studiare Dante o Shakespeare o Sartre?!) in favore di quelle materie che rispondono maggiormente alle esigenze delle imprese, e quindi del (libero) mercato: non va bene, la scuola non deve solo ‘informare’ bensì ‘formare’ l’essere umano.
Quindi, tornando al teatro, credo sarebbe possibile avviarne un cambiamento, partendo proprio dalle scuole che diventerebbero luoghi di ”formazione all’umanesimo” preposti al risveglio del potenziale creativo, dove i fanciulli sarebbero stimolati fin da bambini a immaginare le mappe di un futuro migliore, che forse è ancora possibile, diventando poi ‘adulti di domani’ in grado di pensare in modo più critico e autonomo, di rompere falsi miti e di abbattere vecchi muri, di riconoscere il valore della diversità, e magari di gettare le fondamenta per una società più sana, basata non sul solo profitto personale, sul tanto a poco, sul consumismo sfrenato, sulle sole leggi del mercato, ma sul senso della comunità, della condivisione e del vivere civile.
Ecco che allora, educati al senso civico e all’amore per l’arte, gli ‘adulti di domani’ sarebbero i primi a voler difendere il teatro o meglio l’arte nel suo insieme, a desiderare la bellezza nella loro esistenza, a reclamarla. Così, forse i teatri potrebbero tornare a ripopolarsi, e non sarebbero più vissuti come luoghi per pochi e isolati folli o per intellettuali borghesi ma, al contrario, diventerebbero ‘templi’ in cui ritrovare le gesta, le memorie, le fantasiose danze di chi ci ha preceduto, diventerebbero spazi per il possibile e anche per l’impossibile, luoghi di reale partecipazione, di confronto attivo e vitale.
Mi piacerebbe che oggi lavorassimo per creare le condizioni attraverso le quali gli ‘adulti di domani’ avessero gli strumenti per illuminare una società che avesse a cuore la cultura, allora, forse questa nuova generazione potrebbe operare scelte politiche tali da restituire all’arte il posto che merita, e quindi ai teatri, alle compagnie, agli artisti…dignità e presenza.
Forse la mia è un’idea utopistica, ma intendo dire che è che proprio all’interno di questa enorme e complessa cornice…che si inserisce la fragilità del sistema teatro.
Se non si riparte dalla base, dall’istruzione, dalle scuole che sono i primi luoghi (dopo la famiglia) di formazione dell’individuo, dalla volontà di rifondare una società partendo dalla ridefinizione dei valori…a poco servirà tutto il resto, saranno solo pezze, tappi, cuciture provvisorie che accontenteranno sempre (e solo) i pochi, saranno temporanee soluzioni (certamente anche efficaci nell’immediato) per cercare di tenere insieme qualcosa che però si è spezzato dall’interno, e che noi abbiamo contribuito, chi più chi meno, a spezzare.
Probabilmente sono andata fuori tema, ma ora siamo davvero tutti un po’ stanchi, arrabbiati e smarriti, per cui mi interessava una riflessione più allargata, ci penso ogni giorno, con dispiacere, e vorrei riuscire a vedere rifiorire la vita culturale e sociale di questo paese così ingiustamente maltrattato, vorrei anche solo avere la speranza (che dico, la certezza!) di una luminosa rinascita per coloro che verranno.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Sicuramente i direttori artistici e gli operatori teatrali saprebbero rispondere a questa domanda in modo più approfondito e puntuale di me. Personalmente credo che, tra tutti, vi sia un problema che spicca e che è connesso al rapporto tra il momento della produzione e il momento della distribuzione: alle compagnie viene “chiesto” di produrre spettacoli sempre ‘nuovi’ (ma uno spettacolo nuovo è sempre garanzia di uno spettacolo effettivamente nuovo?). E questo porta a un doppio effetto negativo, il primo consiste nell’indurre gli artisti a produrre incessantemente spettacoli ‘nuovi’, appunto, correndo il rischio di non creare secondo un reale e motivato slancio, ma inseguendo faticosamente logiche “produttive” che inducono le compagnie o a ripetersi, artisticamente parlando, o a cedere a quei compromessi di produzione che allontanano la natura del progetto artistico dal ‘manifesto’ e dagli obiettivi della compagnia. Il secondo effetto negativo consiste in un ‘eccesso di produzione’ degli spettacoli e nella (conseguente) mancata circuitazione degli stessi sul territorio nazionale e non. In questo senso, non sarebbe più giusto e democratico che uno spettacolo – risultato di tutta una serie di professionalità impiegate in mesi e mesi di lavoro preparatorio e di collaborazioni in rete sul territorio – venisse ‘offerto’ al maggior numero di persone possibile? E inoltre, le compagnie e gli artisti non avrebbero diritto ad esser messi nelle condizioni di poter lavorare sulla base di una spinta propulsiva reale, per poi poter vedere nascere e vivere il proprio lavoro nel tempo, senza che questo muoia un attimo dopo il debutto, e dopo tanta fatica?
Gli spettacoli, una volta allestiti, dovrebbero essere a disposizione del pubblico, della comunità, della cittadinanza, dovrebbero poter circuitare e invece – per rispondere a questa stritolante ‘legge del mercato’ – si deve produrre tanto al minor costo possibile, e questo è esattamente ciò che accade a livello macroscopico: dunque torniamo al punto di partenza, se non cambiamo le regole del gioco nel corpo del sistema socio-economico, nemmeno il sistema del teatro, parte di questo corpo, cambierà mai davvero.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Per quanto mi riguarda, il teatro si manifesta – attraverso un rapporto carnale, di ascolto e di corrispondenza d’amorosi sensi – tra ciò che accade in scena e ciò che accade in platea, senza la prossimità con il pubblico, oltre a non esservi alcun piacere – sia per chi agisce in scena sia per chi agisce in platea – non può esistere il teatro.
Certo, attraverso il virtuale è possibile avviare ‘forme di comunicazione’ interessanti e condividere contenuti anche artistici ma, appunto, è una forma di comunicazione altra, che non ha nulla a che vedere con la natura propria e intrinseca del teatro che ‘esige’ la presenza dal vivo.
In generale, le tecnologie e il virtuale, oggi come oggi, risultano certamente fondamentali per alcuni aspetti del nostro quotidiano, inutile negarlo, ma trovo che esse abbiano conquistato un ruolo troppo importante, invadendo lo ‘spazio esistenziale’ di ognuno di noi (chi più chi meno), confondendo i piani e il senso della comunicazione, e ostacolando la possibilità di una crescita e di un confronto pulito e reale con l’altro.
Detto ciò, può essere stimolante (io stessa ne ho fatto e ne faccio uso) lavorare artisticamente utilizzando la tecnologia e il virtuale, soprattutto per accompagnare, supportare e/o integrare un lavoro artistico che magari ha bisogno di più strade espressive e più canali di comunicazione, per costruirsi ed esistere nella sua interezza.
Altro caso invece è quando la tecnologia viene utilizzata proprio all’interno di uno spettacolo teatrale: qui il discorso cambia, dal mio punto di vista l’utilizzo della tecnologia e della virtualità sono validi solo se messe profondamente in dialogo con lo spettacolo, fino a diventarne lo scheletro, l’ossatura drammaturgica, il corpo, non una cornice ornamentale di sottofondo, poiché in questo caso non aggiunge niente di stimolante, anzi – come pubblico – devo ammettere che spesso mi distrae dal senso di ciò che sta accadendo in scena.
Concludendo, credo che il teatro esista solo in un luogo e in un tempo a lui dedicato, nella presenza fisica di coloro che lo creano, e tra questi c’è il pubblico. Amo moltissimo l’attimo in cui si spengono le luci e tutto si fa buio, e per qualche istante senti come un respiro trattenuto, come un’attesa, un richiamo ancestrale, collettivo che si diffonde tra platea e palcoscenico. E’ un momento sospeso, in cui nessuno sa cosa accadrà, e tutta la vita è raccolta lì, in quell’attimo che diventa sacro, eterno, che appartiene a tutti, per una volta insieme, nella condivisione di qualcosa che porterà via da qui, chissà dove, come una nascita, come uno schiudersi, come l’attimo prima della partenza per un viaggio in cui tutto può accadere e niente è mai stato così vero.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Al di là del discorso sui nuovi media, che spesso confondono il senso e il piano della comunicazione, il rapporto con il reale seconde me è parte integrante del teatro, a prescindere dalla forma e dalle poetiche con le quali decidiamo di dialogare. Il reale – qualsiasi sia la forma con la quale ci esprimiamo – entra in gioco inevitabilmente nel processo di comunicazione e, nello specifico, entra in gioco nel processo di creazione: credo che il rapporto con il reale (e il suo mutarsi in varie forme) sia uno dei principali motivi per il quale ci occupiamo di teatro.
Relazionarsi al reale secondo me non significa per forza optare per un teatro di narrazione o di prosa, significa cercare connessioni col presente attraverso forme che sappiano entrare in un rapporto di comunicazione, significa restituire ‘volume’ ai pensieri, al testo, cercando ciò che si nasconde dentro la parola scritta o dentro un gesto, una musica, per intercettarne le possibili e fantasiose traiettorie. Ho assistito a molti spettacoli che hanno ‘raccontato’ il reale e che sono stati al contempo in grado di suscitare potenti emozioni, di parlare a tutti, di trasfigurarsi in altre forme, di viaggiare attraverso il tempo.
Reale-immaginazione, significato-simbolo, contenuto-forma sono binomi che, secondo me, possono tranquillamente viaggiare per mano, ed anzi, è proprio dalla ricerca di un possibile rapporto di simbiosi-opposizione-scambio tra questi elementi, che traggo l’impulso per il mio lavoro di creazione.
Ci sono molte cose sulle quali sarebbe utile riflettere ma – soprattutto a fronte di questo periodo storico così faticoso e duro per tutti noi – vorrei riportare una citazione di un grande fisico italiano, Guido Tonelli, che ci illumina la strada, scrivendo:
“L’immaginazione è l’arma più potente che l’umanità sia mai stata in grado di sviluppare, dall’immaginazione è nata anche la scienza. Arte, scienza e filosofia sono ancora oggi discipline fondamentali, quelle che danno consistenza al nostro essere umani. Questa visione unitaria del mondo, che nasce nel nostro passato più remoto, è tuttora lo strumento più adatto per affrontare le sfide del futuro”.
Lo strumento più adatto, per affrontare le sfide del futuro…
Sabato 1 dicembre al Tangram di Torino è andato in scena Studio per Minotauro di Silvia Battaglio nell’ambito della rassegna Maldipalco. Il lavoro ha già attraversato un periodo di residenza presso Officine Caos/Stalker Teatro dove è stata presentata una prima restituzione il 24 novembre.
Silvia Battaglio è artista che impiega sulla scena il corpo come principale strumento di espressione e in cui pochi semplici elementi scenici, precisi nell’essere sempre segno e mai tappezzeria o decoro, costruiscono una narrazione fatta per immagini e suoni, un montaggio delle attrazioni in cui il materiale letterario non è che uno dei materiali con cui si costruisce la drammaturgia. Non vi è dunque dipendenza dalla fonte letteraria ma riscrittura e reinvenzione.
Il Minotauro che appare in scena è un pugile, un ragazzino che si allena ad affrontare il nemico che il fato ha predisposto per lui. Asterione è Toro scatenato che fende l’aria con ganci e jab per scaricare e sfogare il suo desiderio d’amore, la sua solitudine estrema che pur d’essere estinta si accontenta anche di un nemico.
Asterione è figlio delle stelle e di re, non solo frutto mostruoso di illecita passione. Questa sua doppia unicità lo separa dal consesso umano non le porte del labirinto che sono sempre aperte. Egli se vuole può uscire, chi vuole entrare non è impedito, eppure la diversità può ciò che nessun cancello, serratura o chiavistello potrebbe. Il Minotauro non ha che la sorella Arianna con cui parlare ma la signora del labirinto risulta ambigua nel suo essere alleata e strumento di morte. Voce benevola e premurosa, quasi madonnina votiva è anche colei che conduce il nemico. Il suo aiutar Teseo non è forse anche e soprattutto atto d’amore perché conduce al fratello l’unico compagno che mai potrà avere? Quella morte che giunge per mano sua non è atto di pietà nel liberare il Minotauro da una vita ingiusta e agra?
Arianna, come Teseo, è anche strumento nelle mani del volere del fato, degli dei, dei re, in una parola del potere. Arianna non può che aiutare Teseo perché così è stato scritto, e quest’ultimo non può che essere burattino nella mani di chi lo vuole assassino. Il giovane ateniese è un pupo governato da fili, guidato Arianna e dal fato tessuto per lui dalle Moire, senza volontà se non quella di altri, nient’altro che povera marionetta eterodiretta.
Asterione è l’unico personaggio in questo dramma che gode di una certa autonomia, libertà che esercita però nei limiti e nei confini imposti. Il labirinto è la sua casa e il suo mondo l’unico che può vivere. Ciò che è all’esterno del suo palazzo immenso non può accogliere la sua unicità. L’eccezione è infatti un intoppo al fluido scorrere del consueto e va eliminata o esiliata. Al Minotauro non resta che correre tra le pietre del suo palazzo, inventarsi giochi con amici immaginari, guardare la vita degli altri dalla finestra e attendere che il suo destino si compia. Quando il fatidico momento giunge Teseo stupisce: “Lo crederesti Arianna? Il Minotauro non s’è quasi difeso”.
Silvia Battaglio ci racconta un ragazzo-toro molto più umano dei suoi persecutori, adolescente bisognoso d’amore, escluso per peccati altrui e perché gli altri hanno decretato per lui una vita di segregazione. Per narrare la sua figura Silvia Battaglio decide di non riferirsi alla tradizione mitologica ma di affidarsi solamente a materiali letterari novecenteschi: Borges la stanza di Asterione, Cortázar I re, DürrenmattIl Minotauro. Come si diceva all’inizio dell’articolo questi stralci testuali si integrano con i pochi e significativi oggetti: il filo rosso che governa e ingabbia il pupo/Teseo, le pietre del labirinto, la finestra volta la platea che guarda il mondo dei giusti e dei sani, quelli che si sentono in diritto di escludere il povero Asterione, figlio di re e delle stelle.
Silvia Battaglio ci restituisce un Minotauro tenero e solo, voglioso d’amore perché privo d’amore, pronto ad accogliere persino il suo assassino pur di udire una voce non sua e toccare un corpo altro da sé.
Uno studio questo su Il Minotauro molto maturo, con elementi drammaturgici precisi e un ottimo utilizzo del corpo per esprimere ciò che le parole non dicono. Risulta fragile e appiattito solo il personaggio Teseo, troppo racchiuso in un’immagine grottesca e marionettistica. Certo è vero che neanche i miti antichi sono stati teneri con la sua figura di giovane eroe più temerario che coraggioso, traditore e inaffidabile, ma renderlo solo un elemento comico lo livella e comprime forse troppo. Se si trovassero delle sfumature che gli conferiscano una profondità il Minotauro di Silvia Battaglio potrebbe assumere una forma ancor più intima e umana.
Silvia Battaglio è una Lolita adulta e bambina. È lo sguardo di oggi a quello di ieri e, come due immagini trasparenti, il tempo passato e quello presente si sfocano, travalicano, si sovraincidono.
Quanto della donna di oggi è la bambina di ieri? E quanto della bambina passata era già donna anzitempo, controvoglia, forzatamente costretta a indossare i panni dell’adulta? L’innocenza strappata porta a galla una vittima che sa trasformarsi in carnefice, la debolezza violata cangia in dispotica capacità di sedurre e il signor Humbert, lupo cattivo pronto a mangiare Cappuccetto Rosso è a sua volta intrappolato nelle malie di quella sensualità scatenata e prematura.
Ma chi è Humbert? A chi si rivolge la Lolita sulla scena? Humbert è nascosto tra il pubblico, nell’occhio di chi guarda e brama e rinnova il mito di Ade e Persefone, il vecchio dio dei morti che rapisce la fanciulla Kore per farne la sua sposa. Kore diventa essere ibrido, tra la vita e la morte, perpetuamente divisa a segnare il tempo delle stagioni.
Ma Kore è anche la pupilla che in sé riflette l’occhio del rapitore, come la scena riflette l’occhio del pubblico convenuto e nascosto nell’ombra della platea.
Silvia Battaglio è Lolita, in un giardino ricoperto di mele cadute, il frutto proibito del peccato, il frutto avvelenato di ogni favola. Violata e violenta, infantile e crudelmente adulta, vittima e carnefice, Cappuccetto Rosso che sbrana il lupo cattivo dopo esser stata a sua volta mangiata. L’azione perversa e imperdonabile del male sta nella corruzione dell’innocenza incapace di conservare se stessa. Come in Addiction di Abel Ferrara se il male entra in noi ci corrode e rende complici: per sempre vampiri, complici e vittime insieme.
Silvia Battaglio, in questa sua Lolita, primo capitolo della Trilogia dell’identità, intaglia nella carne e nel sangue una figura di donna/bambina in perenne ricerca di un sé che sfugge alla presa dopo l’azione di Humbert, ma disegna anche un carnefice incapace di vivere il proprio tempo e la propria età, invidioso di una gioventù e una purezza che non sarà più mai e la insozza con le proprie brame perverse.
Silvia Battaglio costruisce una drammaturgia intensa, fondendo le fonti letterarie (Nabokov, Pia Pera e Perrault) in una riscrittura agile, intensa e perversamente potente che si fonde con un’azione scenica in cui la corporeità è predominante. Coreografia di gesti che rende superflua al questione attore danzatore o performer. Il corpo scenico è tutto e niente. Utilizza i mezzi che abbisogna per essere efficace.
Questa Lolita di Silvia Battaglio, opera che apre il sipario su temi che vogliamo seppellire sotto il tappeto della civiltà, additando il mostro nel peccatore scoperto in flagrante dimenticando che l’orrore si annida nell’animo di tutti, ricorda qualora ce ne fossimo dimenticati che la funzione della scena è parlare al mondo del mondo, sollevare i veli, scuotere l’artificiale sicurezza del vivere civile. Il teatro quando si esprime con la sua vera forza non rassicura per niente: è uno sguardo lucido sulla durezza del vivere, sulla vita bella e crudele.
Lolita di Silvia Battaglio è in scena nel bellissimo spazio del Caffé Müller ancora stasera 3 febbraio.
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