Archivio mensile:Ottobre 2022

Charlie Chaplin The Circus

Il palcoscenico squassato dai falò del circo

|ENRICO PASTORE

Il 21 giugno 1919 Anatolij Lunačarskij introduce il circo nei programmi del Narkompros, Commissariato del Popolo per l’istruzione. La sua è un’intelligente presa d’atto di un’epidemia in corso da molto tempo e che dilaga per tutta l’Europa teatrale.

Se vogliamo cercare un paziente zero potremmo fare il nome di Marinetti con cauta sicurezza, anche se il mondo circense affascinava da tempo. Pensiamo a I pagliacci di Leoncavallo, al Pierrot Lunaire di Schönberg, ai simbolisti (Blok su tutti), Chagall e Picasso. I cubofuturisti russi si appellavano però all’autorità di “nonnino Marinetti” citando i suoi manifesti: il primo del 1909, e poi il Teatro di Varietà del 1913 e il Teatro Futurista sintetico del 1915.

Quello che affascinava nel credo marinettiano era l’appello alla fisicofollia, alle sorprese del Teatro di varietà, gli acrobatismi, l’abolizione della distanza tra palco e platea e, soprattutto, nessuna analisi psicologica del personaggio e del testo.

I cubofuturisti russi si presentavano già alla vista come una sorta di circo clownesco: Majakovskij vestito di giallo e rosso, Chlebnikov lacero e sbrindellato con una federa piena di manoscritti da portarsi appresso, la Larionova e David Burliuk si dipingevano la faccia di astratti geroglifici. Non mancavano le strane bombette, gli sgargianti panciotti, le gorgiere secentesche. Il mondo artistico che stava nascendo, lo faceva in maschera e in allegria colpendo i preconcetti e le sicurezze dei benpensanti. Punin senza mezzi termini dichiara: «non c’è stato ancora un movimento letterario così virtualmente ricco di clownismo, come quello futurista»

Tra Majakovskij e il circo fu amore a prima vista Arrivò persino a recitare i suoi versi in groppa a un elefante. Amò non solo quello classico con i pagliacci, i forzuti, gli acrobati e i freaks, ma quello popolare russo, gli spettacoli da fiera popolare, i cantastorie, la maschera manesca e truffaldina di Petruška (per inciso il balletto di Stravinskij danzato da Nijinskij su coreografia di Fokine è del 1910). Troviamo riferimenti a quel mondo dei tendoni e di fiere nei versi, negli scritti, nelle conferenze e soprattutto negli spettacoli di cui scrisse i testi, ma anche di quelli di cui si interessò di regia e messinscena. Il poeta Igor Il’inskij scrisse: «Le “feeries” del baraccone di Lentovskij, al quale deve molto anche la tecnica scenica del teatro d’Arte, gli spettacoli delle fiere russe coi “petruški”, i pagliacci, i diavoli che sprofondano sotto terra: tutte queste forme teatrali autenticamente popolari entrarono in modo organico nella concezione drammatica di Majakovskij».

Di certo Mistero buffo fu quello che più di ogni altro era intriso di tutti questi elementi, esaltati poi dalla regia biomeccanica di Mejerchol’d il quale, oltre a designare l’attore come “clown analitico”. aveva sostituito Blok con Majakovskij come spirito guida dopo aver lanciato il suo Ottobre Teatrale. Con Mejerchol’d si passa dal circo al baraccone ossia un misto tra esperimenti moderni e tradizione popolare. L’idea politica non era semplificare o abbassare il livello culturale, come si direbbe oggi, ma quello di fornire delle basi popolari ai nuovi linguaggi avanguardisti per l’incontro con il nuovo pubblico operaio della nascente Unione Sovietica.

Lo stesso intento politico animava anche Brecht quando desumeva le sue modalità sceniche dall’operetta. dal cabaret o dal music-hall: usare il pop o, meglio, intriderlo di sperimentalismo per incontrare lo spettatore come a un incontro di pugilato attraverso trovate, meraviglie, gioiose arlecchinate e pasquinate. È nota la collaborazione di Majakovskij con il famoso clown Lazarenko, i cui sketch erano un misto di clownerie e bollente satira politica.

Il circo si inserì in quasi ogni ricerca artistica del primo periodo sovietico, non vi era artista che non provò a confrontarsi con il genere, usandolo e inserendolo nelle proprie trovate registiche o addirittura per promuovere nuove teorie. Pensiamo al saggio sul Montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (che non dimentichiamo era allievo di Mejerchol’d): « fare un buono spettacolo (dal punto di vista formale) significa costruire un buon programma di music-hall e di circo, muovendo dalle situazioni della commedia su cui ci si fonda».

I clown li troviamo anche al Mastfor nato nel 1920 per opera di Foregger e Mass (dove collaborò assiduamente Ejzenštejn), al Teatro di Commedia Popolare di Radlov, sempre venuto alla luce nel 1920 e dove collaborarono due importati artisti circensi come l’augusto Georges Dal’vari e l’acrobata e fantasista Aleksandrov, e infine il FEKS di Kozinkov e Trauberg. Lo scopo di tutti costoro era come diceva Arenenko sminuzzare il teatro in frantumi.

Quale tipo di clown avevano in mente a quell’epoca? Il primo passo era infatti costruire un nuovo tipo di maschera che rappresentasse l’epoca nascente, l’industria, la velocità, l’afferemarsi del potere delle masse. Il riferimento fu subito al cinema, a Charlie Chaplin in primissima battuta (The circus del 1928 fu per altro uno dei suoi film più apprezzati), ma anche Buster Keaton per la sua impassibile e granitica capacità di affrontare qualsiasi periglio.

Altro influsso importante venne decisamente dalla pittura, dal suprematismo soprattutto. Figure geometriche, cubi e coni, divennero costumi, così come giocosi arabeschi divennero trucchi sul viso. E da ultimo, come detto, il mondo della rivista, del music-hall e del cabaret. A Mosca e Pietroburgo a quell’epoca, e soprattutto, immediatamente prima lo scoppio della rivoluzione, imperversavano le pazzie notturne e i matrimoni artistici impossibili e impensabili. A Mosca a dar vita a Il pipistrello, animato dai più accesi sostenitori del naturalismo, gli attori del Teatro d’Arte. Partecipava di buon grado persino Stanislavskij, il quale aveva sempre avuto una passione smodata per le mascherate e gli scherzi. A Pietroburgo invece troviamo La casa degli Intermezzi, tana del mondo della Mejercholdia, e Il cane Randagio dove si riunivano i poeti da Majakovskij, alla Achmatova. da Mandel’stàm a Marina Cvetava.

È superfluo ricordare come nei cabaret da Parigi a Zurigo, da Roma a Pietroburgo sia nata molta della grande arte dell’inizio del Novecento da Dada a Petrolini, dal Futurismo al grande teatro di Bertold Brecht. Oggi forse si è un poco supponenti rispetto ai generi minori, ai luoghi di rappresentazione popolari, magari equivoci. Eppure si deve ricordare che al centro non nasce nulla, è al confine che accadono le cose.

Il nostro presente richiama spesso l’ibridazione tra le arti, persino nei bandi e leggi di finanziamento, eppure il melting pot, benché non manchi è decisamente sterile, manierista e manca di quella gioia di sperimentazione di quell’epoca lontana. Il circo contemporaneo, almeno in Italia, si limita per la gran parte a costruire drammaturgie per accostamento di numeri di abilità tenuti insieme da una labile storia. Per trovare esperimenti interessanti volti a innovare il linguaggio anche attraverso un orizzonte politico, bisogna varcare le Alpi e dirigersi in Francia, in Inghilterra, in Belgio.

Ancora una volta bisogna rimarcare una mancanza di organicità nella ricerca e l’uso di parole come multidisciplinarietà come vuoti mantra, senza una visione che spinga l’operare verso direzioni inusuali, impreviste, impensate.

Raccogliamo invece l’invito di quel ricco e fervido passato dove le arti tutte convergevano in ricerche comuni. Quali feconde possibilità potrebbero nascere dallo scambio e connubio di tecniche circensi, teatrali e coreutiche. Si parla tanto di sharing training ma questo avviene solo all’interno di un’arte, la danza. Si potrebbe allargare il progetto, aprirlo e favorire dialoghi tra arti diverse.

Quali e quanti benefici invece per l’arte circense se drammaturghi, registi e coreografi mettessero a disposizione le proprie tecniche e idee al servizio di un’arte tanto antica e colma di tradizione?

Per mettere in opera una ricerca davvero fruttuosa occorre innanzitutto che Ministero e Siae, alla faccia dell’invito alla multidisciplinarietà, permettano seriamente l’incrocio e l’ibridazione invece di congelare gli ambiti e le domande ai singoli generi separati. In seconda battuta serve il tempo, materiale primario, i luoghi di sperimentazioni da frequentarsi assiduamente e non per brevi e sporadiche residenze, e soprattutto di idee e pensieri subordinati al tempo da dedicare allo studio e all’affinamento di tecniche inusitate. Il passato in questo è una grande miniera. Un luogo dove attingere modalità, utopie, pratiche, stilemi, non per copiare ma per derivare e spillare linfa vitale per nutrire il presente e costruire un futuro. Occorre conoscere per innovare, usare un sapere non scolastico ma eretico, dissacrante, audace. È necessario scovare le possibilità offerte dalle nuove culture popolari, senza schizzinoseria o alterigia, e solo così sarà possibile ricostruire un nuovo rapporto con il pubblico e una diversa funzione in un modo crepuscolare e in una società in perenne cambiamento. Soprattutto bisogna ritrovare la gioia nonostante le difficoltà, la contentezza e la festosità dissacranti nei riguardi di riti stantii e polverosi.

Mejerchol'd le cocu magnifique

Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire

|Enrico Pastore

Giano, dio delle soglie e degli inizi. Il suo sguardo è rivolto al passato e al futuro, il corpo assiso sulla linea di confine tra due stati in perenne ridefinizione. Passato e futuro. Inchiavardati nel presente, frontiera mobile e incostante.

La storia è sorella dell’antico dio. Guarda indietro per comprendere l’oggi e proiettarsi verso uno dei tanti possibili domani. Volgersi verso gli eventi nascosti dietro le mobili cortine del tempo non è un’operazione nostalgica alla ricerca di una perduta età dell’oro, ma lavoro di illuminotecnica, un portare luce e visione, laddove la polvere del tempo si è posata e la memoria non aiuta.

È anche e soprattutto lavoro da minatore, una ricerca minuziosa delle vene auree, dei percorsi nascosti nelle faglie del tempo, di solide fondamenta su cui poggiare la costruzione di un domani diverso, auspicabilmente migliore.

Ciò è ancora più necessario per il teatro, arte effimera più d’ogni altra, di cui quasi tutto scompare, anche se oggi vi sono molti più strumenti di conservazione e documentazione rispetto al passato anche recente. È essenziale oggi più che mai, in un momento in cui tutto congiura per appiattirci in un perpetuo istante presente, in cui gli eventi passano veloci sotto i nostri oggi per sparire nel giro di pochi giorni.

Ma vi è anche un’altra ragione per volgersi verso tempi lontani: l’arte scenica è un bagaglio di conoscenze e tecniche tramandate di generazione in generazione, per lo più oralmente dal corpo del maestro a quello dell’allievo, e visivamente nella costruzione di un modo di vedere e far vedere. Senza questo passaggio non vi è futuro. Per dirla alla Carmelo Bene: non si può variare il canone, senza conoscere il canone. Senza quella che chiamiamo tradizione non vi è mutare d’orizzonti, anzi il rischio è quello di perdersi in un labirinto ritornando continuamente su passi e percorsi già ampiamente battuti.

Per questo l’operazione storica non è nostalgica ma audace propensione verso il non ancora. In questo mondo crepuscolare dove nuove forze si agitano sotto la coltre cercando di eruttare dal sottosuolo è importante volgersi verso luoghi e tempi da cui si possono trarre strumenti di evoluzione, non per analogia, perché nella storia la comparazione è nefasta, ma per simpatia di stimoli, per evitare gli errori, per ispirarsi a compiere imprese anche quanto tutto sembra indicare il contrario.

Volgiamo dunque lo sguardo all’indietro per ricercare alcuni fili giunti fino a questo problematico oggi e proviamo a riflettere se alcuni si possono riportare alla luce, se altri debbano essere definitivamente tagliati, se altri invece debbano essere ricollegati.

Ogni storico ha però un punto di vista che, per quanto provi a celarlo o a eluderlo, è presente e ineludibile. Le scelte su dove puntare lo sguardo è dettata dalle proprie riflessioni e dai propri ragionamenti. Umilmente bisogna tentare di far sì che il proprio sbirciare in un preciso e determinato istante possa incontrare e coinvolgere altri occhi.

Scostiamo dunque il sipario del tempo e dirigiamoci verso la Russia in un tempo storico estremamente fluido, tra il 1910 e il 1925, un periodo in cui le zolle tettoniche della storia si scontrarono e conflagrarono con tale violenza per cui tutto venne a cambiare. La società, l’economia, ogni regola del vivere fu messa a soqquadro: riforme sociali, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione d’Ottobre, guerra civile, epidemia di Spagnola, crisi economica, sogno e costruzione di uno stato socialista, tradimento di tutte le più fulgide speranze legate a un pensiero di libertà ed eguaglianza. In questo immenso rivolgimento il teatro fu protagonista e non comparsa. In tale irruente e travolgente rivoluzione artistica e culturale gli ingegni migliori andarono a cercare ogni strumento possibile, in ogni tempo storico e in ogni latitudine, per edificare un nuovo teatro che rispecchiasse una società giovane, magmatica, in via di definizione, anelante nuovi e inauditi orizzonti.

In questo ribollire caotico il primo filo rosso da portare fino a noi è qualcosa di cui poco si parla, come se fosse un tabù, anche se Milo Rau, lo ha inserito come elemento primario nel suo manifesto di Gent: ossia la ricerca di un rapporto fruttuoso, costruttivo, non conflittuale tra tradizione e innovazione. Vediamo dunque, per sommi capi, di riportare all’attenzione ciò che successe allora, quali impensati risultati si siano ottenuti e quali riflessioni ciò possa suscitare oggi.

Potremmo iniziare con uno scherzo: in quel torno di tempo Amleto era alter ego, maschera e travestimento di molti grandi uomini di teatro. Al di là dei progetti messi in opera o rimasti nel limbo dei sogni del cassetto (Stanislavskij invitò Craig per l’allestimento di Amleto al Teatro D’Arte, Vachtangov e Mejerchol’d desiderarono ardentemente confrontarsi con il principe di Danimarca senza mai riuscirci), il dubbio e l’oscillazione tra sperimentalismo e naturalismo fu il punto in cui si affisse il pendolo su cui l’innovazione russa di quel tempo si incardinò. Vachtangov più di tutti incarnò questo amletico e perpetuo dubitare passando da un campo all’altro con il pensiero però rivolto a quello appena abbandonato

Due le visioni, quella più legata a Stanislavskij, Suleržickij, Nemiròvič-Dančenko volta a ricreare, attraverso una quarta parete, un’illusione di realtà-specchio (con tutti i dovuti distinguo perché, come detto, la strada non fu senza svolte spericolate e brusche frenate per nessuno) e l’altra sull’asse Mejerchol’d (comunque figliol prodigo di Stanislavskij), Tairov, Ejzenštejn, Radlov, Ochlòpkov tendente maggiormente al manifestare tutto l’artificio della rappresentazione. Entrambe si confrontarono con quella che per convenzione possiamo chiamare tradizione: ossia le tecniche e le competenze dell’arte scenica tramandate dalla storia e dalle generazioni precedenti.

Entrambi i percorsi furono tortuosi, lo ripetiamo. Nel periodo preso in esame si innestarono influssi simbolisti, espressionisti, cubofuturisti e costruttivisti a complicare il quadro.

In questo dipinto se Mejerchol’d più di ogni altro attinse per le proprie diavolerie biomeccaniche a quello che Kryžickij chiamava il Baraccone, ossia al complesso delle invenzioni dei saltimbanchi, circensi, cantastorie popolari e repertori da fiera, varietà e rivista, non trascurò, (e nemmeno gli altri), il confronto con ogni possibile anfratto della storia del teatro per attingere tecniche e possibilità creative per rinnovare il teatro inventandone uno alieno alle formule trite dell’accademismo. Per Tairov il corpo dell’attore era uno strumento pronto a rispondere: «alla più lieve pressione» e cimentarsi in ogni possibile genere teatrale fosse pure un mistero medievale o un’operetta.

Persino Stanislavkij recuperò il mondo della pantomima per il suo Moliere e giocò con le leziosità comiche del Seicento francese, così come Mejerchol’d recuperò il mondo della Commedia dell’arte, della Pantomima classica, e le modalità rappresentative del Siglo de Oro. Il Dottor Dappertutto (così era chiamato) non disdegnò lo studio e le tecniche del Nō, del Kabuki e dell’Opera di Pechino, quest’ultima ammirata grazie alla tournée di Mei Lan Fang in Unione Sovietica.

L’invenzione del nuovo passò per il recupero e lo studio dell’antico di qualsiasi provenienza esso fosse purché permettesse un ampliamento dei mezzi espressivi dei registi e degli attori. Non si deve pensare però a dei calchi documentari o a un nostalgico ripristino di tecniche e modalità cadute nel dimenticatoio. Tutto questo esplosivo bagaglio di bottega teatrale fu innestato e ibridato con ciò che di meglio la tecnica dell’epoca potesse offrire dall’illuminotecnica, alla scenografia, alla nascente e sperimentale cinematografia. Non è un caso che Ejzenštejn, aiuto regista di Mejerchol’d ne La morte di Terelkin, teorizzò a partire dai melting pot del maestro, il noto manifesto sul Montaggio delle attrazioni.

Dove fiorì un’interessante evoluzione del DNA teatrale grazie alla tradizione fu la riscoperta del teatro fuori dai luoghi convenzionali: dagli sfondamenti in platea, alle piazze, alle fabbriche, fino al gasometro di Ejzenštejn con Maschere antigas di Tret’jakòv, il teatro russo del primo periodo sovietico, non disdegnò sperimentare nuove relazioni con il pubblico recuperando modalità antiche. Persino nelle nude astrazioni tubolari costruttiviste possiamo intravedere la simultaneità dei luoghi deputati medievali o l’Hashigakari (il ponte) del Nō.

Charlie Chaplin conviveva con il Siglo de Oro, e Dziga Vertov sperimentava proiezioni su tre schermi in spettacoli dove furoreggiava la clownerie, la pantomima o le scoppiettanti invenzioni del varietà. Passato e futuro si confrontavano nel presente effimero della scena, e lo studio storico e filologico nutrivano l’invenzione. Come scriveva Ripellino: «anche nelle regie in cui più si avverte la “follia” futuristica, le tradizioni del teatro ritornano con l’ellissi perpetua di un boomerang».

Oggi, contrariamente, nel rapporto tra ricerca e tradizione, ci si trova in uno stallo manicheo: o l’una o l’altra. Inoltre nella questione mettono le dita il Ministero e le banche intimando l’innovazione (ma finanziando ciò che è certo e sicuro) con parole vuote e senza senso come multidisciplinarietà o multimedialità che, come abbiamo visto, son presenti nel linguaggio della ricerca da secoli.

Ciò che in verità manca oggi rispetto a ieri sono principalmente tre cose: il tempo di studio (il malfermo sistema economico della nascente URSS, ma anche l’epoca zarista, permetteva di dedicarsi completamente alla propria arte senza distrazioni burocratiche); la connessione delle generazioni tra loro, congiunzione che permetteva il passaggio delle conoscenze e delle riflessioni, un passaggio di mano da maestro a apprendista necessario ma per vari motivi affievolito se non inaridito del tutto tra gli anni ’90 e 2000; infine la curiosità necessaria è, quando presente, impedita o, meglio, intorpidita da un sistema produttivo che premia il successo garantito e non l’esperimento rischioso. Ciò che risulta vincente non si cambia e così vediamo registi o compagini di talento replicare le formule perché funzionano e garantiscono quindi l’afflusso dei finanziamenti, dalle date di giro e delle commissioni.

Come si può notare non parlo di denaro. Per due ragioni: in primo luogo sono imparagonabili le condizioni economiche tra oggi e allora; in seconda battuta i soldi non fanno le idee.

La questione del confronto e dell’utilizzo della tradizione nello sperimentalismo invece mi pare molto pressante e attuale. Tutto sulla carta oggi punta verso l’innovazione ma non si concedono né tempi né modi per uno studio serio sui linguaggi. Inoltre la formazione si è decisamente impoverita rispetto a quanto accadeva nel periodo storico preso in esame. Se non si conosce il passato come si può innovare il codice? Se dalla memoria sono scomparsi anche gli anni più recenti, e parlo degli ultimi decenni del secolo scorso, non si può formulare un pensiero realmente innovativo (in una commissione di valutazione di percorsi di residenza mi sono sentire chiedere: ma chi è Kantor?).

Un esempio su tutti: molto ritorno del teatro in natura ricorda esperimenti e modalità degli anni ’70 (per esempio il Teatro delle Sorgenti di Grotowski) come alcune modalità delle comunità teatrali dell’inizio del Novecento (per esempio Monte Verità). Questi eventi e chi li animava avevano un orizzonte preciso, politico e artistico. Oggi invece sembra in massima parte (ci sono ovviamente ottime eccezioni) un ricalco o un ripiego o, peggio ancora, una moda. Inoltre manca un riferimento reale a tali esperienze, un dialogo a distanza, una riflessione sugli errori e i successi così da muoversi in avanti o per lo meno di lato.

Infine benché si parli tanto di ricerca risulta confuso cosa effettivamente si stia cercando. Un teatro nuovo? Una nuova forma di relazione? Un linguaggio riformato? Non è chiaro. Difficile trovare delle linee di evoluzione e di pensiero. Anche durante la forzata pausa Covid di tutto si è parlato tranne che di funzioni della scena o di come riformulare l’azione artistico-politica.

Il confronto con la tradizione, con il canone, è dunque fondamentale per non cadere in luoghi comuni e riproposizioni inconsapevoli. Come diceva Duchamp il compito di un artista oggi (si era gli inizi degli anni ’50) è uno solo: studiare, studiare, studiare. Il dovere più difficile di tutti. Confrontarsi come Giano con il passato e il futuro vivendo sulla soglia del presente, senza precludersi alcuna strada e incamerando, come nel sogno biomeccanico di Mejerchol’d, la maggior parte di tecniche possibili al fine di dare all’attore un bagaglio pesante ma preziosissimo di possibilità espressive. Un teatro nuovo può nascere solo dalle proprie ceneri, conoscere il fuoco che le ha prodotte è indispensabile per generare il nuovo.