Archivio mensile:Ottobre 2023

Come gli uccelli de Il Mulino di Amleto

Il 10 ottobre 2023, anteprima del Festival delle Colline Torinesi, ha debuttato nella sua prima italiana Come gli uccelli, la nuova creazione de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi da un testo di Wajdi Mouawad. Prima di inoltrarsi nell’analisi di questo complesso lavoro teatrale è necessaria una piccola premessa. Quanto si esplora in questo pezzo non è frutto della visione dello spettacolo al suo debutto, ma dell’intensa frequentazione delle prove dai suoi inizi nella sede della compagnia a San Pietro in Vincoli a Torino fino alla generale tenuta al Teatro Astra il 7 ottobre. Chi scrive non ha dunque visto l’esito, ma il processo creativo che ha portato alla forma finale. È stato un enorme privilegio poter seguire da vicino i primi passi, i tentennamenti, i prudenti approcci a un testo complesso e difficile, passare attraverso le fasi di comprensione delle singole scene, ammirare le metodologie adottate per arrivare alla creazione, e infine osservare la crescita fino alla forma finale, da non considerarsi mai conclusa in un arte fluida come il teatro.

Vi parlerò quindi di questo viaggio a partire dal testo di Wajdi Mouawad, di cui dovrò dire senza rivelare, per non togliere il gusto della scoperta di un’opera costruita su un mistero che deve essere svelato solo agli occhi di chi guarda e non di chi legge.

Come gli uccelli è una dramma in quattro atti che si configura come un tragedia contemporanea dove al fato degli dei si sostituisce la correlazione quantistica. Come due particelle mantengono il loro legame anche a distanze siderali al di là del tempo e del principio di realtà, così i personaggi sono costretti a incontrarsi e vivere le loro storie per un vincolo conseguito fin dal Big Bang, e per quanto possano opporsi niente potrà impedire che si incontrino. Ma le forze della fisica collidono con quelle della storia e così il conflitto israelo-palestinese, in questi giorni tornato alla ribalta per la sua cruenta e irrisolvibile tragicità, spezza quei legami e riporta le particelle umane allo stato di solitudine.

Come gli uccelli presuppone e sviluppa due modelli. Il primo è Antigone (ma sullo sfondo vi è anche l’intera Orestea e il tema del perdono) nel rappresentare l’antagonismo tra una legge antica, come quella del sangue, e una nuova legge che Eitan e Wajida provano a scrivere. Il secondo è Romeo e Giulietta, nella narrazione delle vicende di Ethan, ebreo, e Wajida, araba statunitense, uniti dall’amore e divisi non da faide familiari ma da un muro, non solo fisico ma storico e sociale, che scinde due popoli in guerra per la stessa terra. Il loro rapporto è ostacolato molto prima del loro venire al mondo, fin dalla guerra del 1967, quella Guerra dei sei giorni cui quella di oggi tanto somiglia, fin dalla strage di Sabra e Shatila del 1982. Il testo si sviluppa come un film di Nolan, scorrendo avanti e indietro nel tempo, e muovendosi furiosamente nello spazio. É un testo complesso, non solo per lo sviluppo temporale e spaziale, ma nell’uso di diverse lingue (l’ebraico, l’arabo, il tedesco e l’italiano) e per la durata (nell’originale messa in scena di Mouawad si superarono le quattro ore).

Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto hanno accolto la sfida e la ricchezza di quest’opera e si sono immersi fin dal settembre dello scorso anno, in un processo di scavo per trarre una propria drammaturgia e una personalissima e originale opera teatrale che non è una messa in scena ma una riformulazione del materiale originario.

Nelle prove si sono indagati i presupposti, i sottotesti, le premesse non esplicitate per giungere a dar vita sulla scena a personaggi consistenti, profondi e continuamente lacerati nei propri sentimenti dagli eventi storici e dalle identità imposte dalla società.

Tale processo si è distillato con l’uso di diversi strumenti, dalle improvvisazioni, agli Etudes, ossia studi fisici sugli antecedenti e le motivazioni nascoste, alla discussione a tavolino. Ma il primo scopo era costruire un sentire comune al gruppo di attori, un rispondere agli stimoli come in una partita di tennis, tenendo viva la pallina che passa da un campo all’altro. E a questo si è giunti attraverso l’uso di una serie di esercizi e giochi volti a scardinare o bypassare il pensiero razionale per giungere a una risposta istintiva sostenuta dalla saggezza del corpo.

Facciamo un semplice esempio: la scena iniziale nella biblioteca a New York, che vede l’incontro straordinario, e apparentemente casuale, tra Eitan e Wajida grazie a un fatidico libro, è transitata attraverso varie fasi e stati d’animo: la letteralità fin nell’espressione diretta delle didascalie, la dilatazione inclusiva di un prima non detto dal testo ma necessario per la creazione di un contesto, infine asciugandosi fino a giungere all’osso, all’essenziale, scartando il superfluo, l’ovvio, il teatrale, fino a una fisicità che parla oltre le parole. Il materiale testuale è stato quindi gonfiato e poi scarnificato senza pietà, con la precisione del cacciatore che eviscera la preda con grande rispetto. Il pubblico non si è trovato di fronte a una messa in scena ma a una vera e propria opera autonoma in cui il teatro esprime il proprio linguaggio al di là e attraverso il testo letterario.

Tutti i materiali impiegati tendono a questa essenzialità, dove non vi è un elemento che sottolinei l’altro, ma tutti si rafforzano congiungendo in coro armonico segnali diversi. La scenografia si configura in pochi, semplici elementi: il muro enorme, di una matericità alla Anselm Kiefer, il letto d’ospedale, i tavoli della biblioteca, una poltrona, delle valigie. Questi oggetti parlano una propria lingua insieme agli attori, assumono diverse funzioni, diventano luoghi diversi. Il muro per esempio non solo divide, ma crea gli spazi, determina le luci, si fa schermo per le proiezioni, diventa un calendario.

Il suono sussurra i luoghi e i tempi, parla delle stragi e degli atti di guerra, racconta gli spazi degli incontri, diventa preghiera e scatena il dolore, il tutto senza parole al di là delle parole, rispondendo in contrappunto al gesto, alla scena, al racconto. Le proiezioni non sono solo lo strumento per palesare il sottotitolo, ma configurano fisicamente la distanza dei linguaggi e delle scritture, e creano spazi non fisici, aprono finestre su altri mondi.

Tale lavoro di trasfigurazione alchemica delle parole in atto fisico che implica più linguaggi agenti in sinfonico accordo, ha avuto bisogno di tempo, un elemento essenziale alla creazione a cui Lorenzi si sta dedicando da molti anni. A partire dai vari cantieri Ibsen, sottotitolati Art needs time, Marco Lorenzi e la sua compagnia hanno cercato di guadagnare tempo per il processo artistico. Un atto politico in opposizione a un sistema produttivo sempre più frenetico che spinge alla creazione in soli diciotto giorni di prove. Per gli uccelli è stato preparato tra quest’anno e l’anno passato con più di sessanta giorni di prove. Una conquista dovuta anche alla disponibilità e lungimiranza dei vari produttori e che ha dato i suoi frutti. Si spera che questo non sia un caso sporadico ma finalmente diventi la norma per sostenere gli artisti e la qualità del loro lavoro.

Concludo ringraziando Marco Lorenzi e tutta la compagnia de Il Mulino di Amleto per avermi accolto per molti giorni durante un processo così delicato. Accedere alla loro bottega in questi ultimi anni mi ha fatto comprendere molti aspetti del loro approccio, non voglio chiamarlo metodo perché in teatro ogni metodo smentisce se stesso nella pratica. È stato un privilegio assistere alla nascita di un’opera tanto complessa e profonda e attraversare con loro il Mar Rosso, un segnale forte di fiducia e stima che apre degli spazi profondi alla critica per andare oltre la recensione dell’opera e la visione della creazione finale. Una conversazione che si instaura fin da prima del processo per sospendersi un attimo prima del debutto, per continuare oltre, insieme, nel prosieguo di un dialogo franco volto alla crescita di entrambi al di là dei giudizi.

COME GLI UCCELLI durata 3h con intervallo di 15′

Visto durante le prove dai primi di settembre alla generale del 7 ottobre 2023
di Wajdi Mouawad / consulente storico Natalie Zemon Davis / traduzione Monica Capuani del testo originale “Tous des oiseaux” / adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi / regia Marco Lorenzi / con Aleksandar Cvjetković, Elio D’Alessandro, Said Esserairi, Lucrezia Forni, Irene Ivaldi, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Federico Palumeri, Rebecca Rossetti / assistente alla regia Lorenzo De Iacovo / dramaturg Monica Capuani / scenografia e costumi Gregorio Zurla / disegno luci Umberto Camponeschi / disegno sonoro Massimiliano Bressan / vocal coach e composizioni originali Elio D’Alessandro / esecuzione al pianoforte de La marcia del tempo e Valzer per chi non crede nella magia Gianluca Angelillo / video Full of Beans – Edoardo Palma & Emanuele Forte / consulente lingua ebraica Sarah Kaminski / consulente lingua tedesca Elisabeth Eberl / un progetto de Il Mulino di Amleto / produzione A.M.A. Factory, TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale e Teatro Nazionale di Genova / in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale e Festival delle Colline Torinesi / con il sostegno di ART-WAVES e Fondazione Compagnia di San Paolo.

La favola ecologica di Akram Khan: Jungle Book Reimagined

Giunge a Torinodanza, dopo il debutto italiano a Romaeuropa Festival, Jungle Book Reimagined di Akram Khan. Il coreografo bengalese nato a Wimbledon è ormai una stella riconosciuta nel panorama della danza contemporanea e le sue creazioni riescono sempre a stupire e sorprendere per le invenzioni visive e il rigore tecnico unito a una grande resa emotiva.

Jungle Book Reimagined è un reinvenzione del famoso libro di Rudyard Kipling in cui sono contenute le storie di Mowgli, il ragazzo della giungla, e degli animali che lo allevano ed educano alle leggi della natura. Akram Khan e lo scrittore Tariq Jordan rielaborano il materiale originale costruendo un favola contemporanea rivolta ai bambini di oggi e domani o, come li chiama Akram Khan, “i nostri narratori presenti e futuri”. Ne risulta un mito ecologista, volto a costruire una rinnovata percezione della reciproca dipendenza tra l’uomo e l’ambiente naturale. È un invito a abbandonare lo scriteriato sfruttamento del pianeta che sta portando, non solo all’estinzione di numerose specie animali e vegetali, ma a un radicale quanto nefasto cambiamento climatico.

La storia di Mowgli viene dunque riscritta secondo questi criteri rielaborando il materiale proveniente soprattutto dai capitolo primo, secondo e sesto del libro di Kipling. Non siamo più nella giungla indiana, ma in un’Inghilterra sommersa dall’acqua in un mondo devastato da una crisi ecologica. Gli uomini si sono rifugiati sulle montagne e quel che resta della terra è occupato dagli animali fuggiti dagli zoo o dai laboratori di sperimentazione. Mowgli è una bambina, caduta da una zattera mentre fuggiva con i genitori, e che già prima del cataclisma cercava di riscrivere i propri comportamenti nei riguardi della natura. I lupi la trovano sulla spiaggia dopo che le balene l’hanno salvata e la accolgono nel consesso degli animali, sotto la tutela di Bagheera e di Baloo. Le ambientazioni sono post-apocalittiche tra rovine, carrelli di supermercato abbandonati, spazzatura. Gli animali e la natura si stanno riappropriando degli spazi loro negati dall’uomo.

L’episodio del rapimento di Mowgli da parte del Bandar Log, il popolo delle scimmie, rivela che anche da parte degli animali si è creato un dissesto dei rapporti tra le specie. Le scimmie vogliono diventare come l’uomo, desiderano il fuoco per diventare la specie predominante sulla terra. Kaa, il pitone, a cui si rivolgono Baloo e Bagheera per salvare la bambina, nutre un forte risentimento per gli uomini per averlo ingabbiato in una teca, in cui l’apparente libertà è solo un’illusione dovuta alla trasparenza della gabbia. Nuovi equilibri devono essere stabiliti, nuove alleanze tra l’uomo e la natura. È il senso del racconto dell’elefante e dell’intera coreografia di Akram Khan.

Il carattere fortemente ambientalista della favola riscritta è connotato anche dagli inserti di due interventi di Greta Thunberg: il famoso “How dare you?” reiterato nel discorso alle Nazioni Unite e parti del discorso “Blah, blah, blah”.

L’impegno verso l’ambiente si denota anche dall’utilizzo di pochi materiali poveri, su un palco vuoto dove la magia del racconto è sostenuto dai corpi danzanti, dalle essenziali ma efficaci animazioni proiettate in proscenio, e da una suggestiva colonna sonora. Semplicità è la parola d’ordine di questo allestimento, una elementarità che non sminuisce ma esalta la magia della scena. Molto riuscita la figura del pitone Kaa, che prende vita da semplici scatole di cartone di varie grandezze, tenute in mano dai danzatori in ordine decrescente a simulare le spire del serpente, le cui evoluzioni ricordano quelle dei draghi cinesi del capodanno. I suoi occhi ipnotici sono semplici dischi di plastica verde retroilluminati nella scatola di testa. Evocativa anche la scena dell’annegamento del cacciatore nel mare, una semplice tela azzurra di shantung, le cui variazioni di colore, esaltate dalla luce, riproducono, come per magia, i riflessi del mare in una notte di plenilunio.

La danza, seppur rigorosa, è coinvolgente ed emozionante. I personaggi sono ben caratterizzati da un divenir animale che non ricerca la mimesis ma un artificio che si fa natura e diventa un’evocazione burlesca e insieme commovente. L’orso Baloo, per esempio, diventato un ballerino per divertire i bambini dello zoo possiede una forza comica da clown, ma può ricordare al massimo un orso da cartoni animati, così come Bagheera possiede l’eleganza delle movenze di un felino senza mai scadere nella copia. Come sempre nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. Ne risulta una coreografia dinamica, con frequenti cambi di ritmo, e un’accorta distribuzione dei numeri d’insieme con le parti solistiche o nei duetti. La tecnologia dell’animazione digitale si inserisce e amalgama con eleganza e raffinatezza con la danza dal vivo, formando un tutto unico, un’ennesima chiamata a una nuova alleanza tra il naturale e l’artificiale.

Akram Khan con Jungle Book Reimagined riesce a costruire un favola pop e politicamente impegnata, frutto di un felice connubio tra profondità e leggerezza, capace di integrare più linguaggi artistico-espressivi, sfumando, se non cancellando, i confini tra danza, teatro, animazione digitale. Il pubblico ha compreso pienamente l’operazione applaudendo con calore ed entusiasmo.