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In comune di Ambra Senatore, variazione e sorpresa

L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i piccoli gesti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.

I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.

Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona, genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza. Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.

Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:

«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,

e aveva il volto della mia vecchiaia

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato

Sì, la saluterò,

la saluterò di nuovo».

La favola ecologica di Akram Khan: Jungle Book Reimagined

Giunge a Torinodanza, dopo il debutto italiano a Romaeuropa Festival, Jungle Book Reimagined di Akram Khan. Il coreografo bengalese nato a Wimbledon è ormai una stella riconosciuta nel panorama della danza contemporanea e le sue creazioni riescono sempre a stupire e sorprendere per le invenzioni visive e il rigore tecnico unito a una grande resa emotiva.

Jungle Book Reimagined è un reinvenzione del famoso libro di Rudyard Kipling in cui sono contenute le storie di Mowgli, il ragazzo della giungla, e degli animali che lo allevano ed educano alle leggi della natura. Akram Khan e lo scrittore Tariq Jordan rielaborano il materiale originale costruendo un favola contemporanea rivolta ai bambini di oggi e domani o, come li chiama Akram Khan, “i nostri narratori presenti e futuri”. Ne risulta un mito ecologista, volto a costruire una rinnovata percezione della reciproca dipendenza tra l’uomo e l’ambiente naturale. È un invito a abbandonare lo scriteriato sfruttamento del pianeta che sta portando, non solo all’estinzione di numerose specie animali e vegetali, ma a un radicale quanto nefasto cambiamento climatico.

La storia di Mowgli viene dunque riscritta secondo questi criteri rielaborando il materiale proveniente soprattutto dai capitolo primo, secondo e sesto del libro di Kipling. Non siamo più nella giungla indiana, ma in un’Inghilterra sommersa dall’acqua in un mondo devastato da una crisi ecologica. Gli uomini si sono rifugiati sulle montagne e quel che resta della terra è occupato dagli animali fuggiti dagli zoo o dai laboratori di sperimentazione. Mowgli è una bambina, caduta da una zattera mentre fuggiva con i genitori, e che già prima del cataclisma cercava di riscrivere i propri comportamenti nei riguardi della natura. I lupi la trovano sulla spiaggia dopo che le balene l’hanno salvata e la accolgono nel consesso degli animali, sotto la tutela di Bagheera e di Baloo. Le ambientazioni sono post-apocalittiche tra rovine, carrelli di supermercato abbandonati, spazzatura. Gli animali e la natura si stanno riappropriando degli spazi loro negati dall’uomo.

L’episodio del rapimento di Mowgli da parte del Bandar Log, il popolo delle scimmie, rivela che anche da parte degli animali si è creato un dissesto dei rapporti tra le specie. Le scimmie vogliono diventare come l’uomo, desiderano il fuoco per diventare la specie predominante sulla terra. Kaa, il pitone, a cui si rivolgono Baloo e Bagheera per salvare la bambina, nutre un forte risentimento per gli uomini per averlo ingabbiato in una teca, in cui l’apparente libertà è solo un’illusione dovuta alla trasparenza della gabbia. Nuovi equilibri devono essere stabiliti, nuove alleanze tra l’uomo e la natura. È il senso del racconto dell’elefante e dell’intera coreografia di Akram Khan.

Il carattere fortemente ambientalista della favola riscritta è connotato anche dagli inserti di due interventi di Greta Thunberg: il famoso “How dare you?” reiterato nel discorso alle Nazioni Unite e parti del discorso “Blah, blah, blah”.

L’impegno verso l’ambiente si denota anche dall’utilizzo di pochi materiali poveri, su un palco vuoto dove la magia del racconto è sostenuto dai corpi danzanti, dalle essenziali ma efficaci animazioni proiettate in proscenio, e da una suggestiva colonna sonora. Semplicità è la parola d’ordine di questo allestimento, una elementarità che non sminuisce ma esalta la magia della scena. Molto riuscita la figura del pitone Kaa, che prende vita da semplici scatole di cartone di varie grandezze, tenute in mano dai danzatori in ordine decrescente a simulare le spire del serpente, le cui evoluzioni ricordano quelle dei draghi cinesi del capodanno. I suoi occhi ipnotici sono semplici dischi di plastica verde retroilluminati nella scatola di testa. Evocativa anche la scena dell’annegamento del cacciatore nel mare, una semplice tela azzurra di shantung, le cui variazioni di colore, esaltate dalla luce, riproducono, come per magia, i riflessi del mare in una notte di plenilunio.

La danza, seppur rigorosa, è coinvolgente ed emozionante. I personaggi sono ben caratterizzati da un divenir animale che non ricerca la mimesis ma un artificio che si fa natura e diventa un’evocazione burlesca e insieme commovente. L’orso Baloo, per esempio, diventato un ballerino per divertire i bambini dello zoo possiede una forza comica da clown, ma può ricordare al massimo un orso da cartoni animati, così come Bagheera possiede l’eleganza delle movenze di un felino senza mai scadere nella copia. Come sempre nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. Ne risulta una coreografia dinamica, con frequenti cambi di ritmo, e un’accorta distribuzione dei numeri d’insieme con le parti solistiche o nei duetti. La tecnologia dell’animazione digitale si inserisce e amalgama con eleganza e raffinatezza con la danza dal vivo, formando un tutto unico, un’ennesima chiamata a una nuova alleanza tra il naturale e l’artificiale.

Akram Khan con Jungle Book Reimagined riesce a costruire un favola pop e politicamente impegnata, frutto di un felice connubio tra profondità e leggerezza, capace di integrare più linguaggi artistico-espressivi, sfumando, se non cancellando, i confini tra danza, teatro, animazione digitale. Il pubblico ha compreso pienamente l’operazione applaudendo con calore ed entusiasmo.