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Fear of the dark: Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis

Torinodanza e Festival delle colline torinesi 29 hanno ospitato in una serata condivisa, Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis, l’artista greco capace di sorprendere sempre il pubblico con la sua effervescente immaginazione.

Lapis Lazuli potrebbe incominciare con il classico “c’era una volta” delle favole e come ogni fiaba che si rispetti veniamo precipitati, come Alice, in un mondo delle meraviglie venato di oscurità. Gli attori entrano con le maschere alzate quando le luci di sala sono ancora accese ma improvvisamente, come cantano gli Iron Maiden in Fear of the dark, quando queste cominciano a cambiare si comincia ad avvertire qualcosa di strano e veniamo presi da una piccola ansia. Siamo in un sogno, come in Inception, e come nel film non abbiamo il completo controllo dell’inconscio altrui.

Le maschere a forma di sole dei cinque personaggi sulla scena, si tramutano in mostri. Un lupo mannaro, un demonio, un dottore che pare Jason di Venerdì 13. Queste creature inquietanti sono però anche simpatiche. Ci fanno sorridere per le loro stranezze, con le vocine acute o ringhi bestiali. Sembrano innocue dopotutto. Lo spazio diventa una foresta incantata illuminata da una luna di gommapiuma più simile a una grande focaccia in una teglia che a un astro del cielo. Pochi rami d’albero finto, dei bastoni con dei guanti gonfiati per simulare degli strani uccelli in volo, un poco di fumo, ed ecco lo scenario per la fuga di una fanciulla dal lupo mannaro. Tutto fa pensare a un penny dreadful, uno di quei romanzetti dell’orrore che andavano tanto di moda nell’Inghilterra vittoriana, o a un episodio di Once upon a time.

Ma Euripides Laskaridis non è un artista a cui piace accomodarsi su un binario unico che porti lo spettatore a un finale facilmente intuibile. La foresta si tramuta senza alcuna logica in uno studio psichiatrico dove una bara piena di paglia sostituisce il lettino. Il lupo mannaro non riesce a fare i patti con la sua natura perennemente scissa tra l’umano e il bestiale. Ha bisogno di conforto, ma questo dottore è più interessato a torturarlo e tentarlo con gli uccellini di gomma che inevitabilmente finiscono tra le fauci del lupo spandendo piumette sulla scena. Si cambia ancora, siamo nella casa della fanciulla, insidiata dal lupo mannaro, ma non illudiamoci che tutto sia scontato, sarà il mostro ad aver paura della fanciulla.

Le scene si susseguono così come le atmosfere. Si evoca Melies quando al lupo si porta la luna piena come fosse un torta di compleanno su cui campeggia una candela storta e mal funzionante. Si cita il David Lynch di Twin Peaks, con quel sipario rosso sullo sfondo, la canzone melensa e quelle due maschere che danzano affiancate. Laskaridis come un funambolo fa il giocoliere sulla corda facendo roteare davanti a noi immagini e sensazioni. Ci fa sorridere, ma lasciandoci la certezza che tutta questa bellezza in realtà parli di una natura oscura infissa nel profondo dell’animo nostro. Una natura indigesta che spinge il lupo mannaro a vomitare davanti a noi tutti gli oggetti di scena.

Dietro a quel sipario rosso sul fondo ecco apparire una pietra azzurra. Luminosa, splendente. E il lapislazzuli, magica pietra le cui polveri diventavano il colore azzurro sui manti di Maria nelle sacre icone o nelle pale d’altare. Una pietra preziosa per i gioielli che decoravano orecchini, anelli, e collane, pietra che indicava la purezza dell’anima della donna che li portava. Simbolo di saggezza e verità la pietra si credeva avesse un effetto calmante per la mente e il cuore. È il nume tutelare dello spettacolo, un esorcismo contro le inquiete sensazioni che si agitano dietro i nostri sorrisi.

Ma ecco sulla scena un momento di avanspettacolo. Deformi uomini primitivi con gonnellini di paglia danzano mentre un imbonitore da fiera sul un palchetto improvvisato e tra le luci e le musiche sgozza dei buffi animaletti, un porcellino, una capretta, dal cui corpo non sprizza sangue ma denari finti come monete di cioccolata. É un sacrificio necessario ci rassicura. Ma poi le luci cambiano, da uno scatolone emerge un grande cavalluccio marino e ci avviamo verso il finale. Il lupo mannaro e i suoi amici inquietanti ci invitano a riflettere su quanto è stato evocato: «Surrealismo? Sì! Stravaganza? Sì!». Ma avvertono «It’s a beautiful, beautiful show, in a difficult, difficult life».

Lo spettacolo, per quanto fantasioso, godibile, divertente, inquietante non è la vita. La rappresenta, ci permette di comprenderla, metabolizzarla. Come il sogno è una valvola di scarico, una lavatrice entro cui le immagini diurne vengono miscelate e riproposte con un senso più profondo e più vero.

Euripides Laskaridis ci propone un’arte colta e diretta, commistione perfetta di cultura alta e bassa (sempre che questa distinzione abbia ancora un significato), un nuovo teatro popolare perché rivolto a chiunque, dove non è necessario comprendere, basta farsi coinvolgere e lasciar agire l’inconscio. Le immagini che ci propone rimarranno impresse nel nostro animo agendo come un farmaco a lento rilascio. Euripides Laskaridis si presenta come un novello sciamano, un trickster capace di esorcizzare l’oscurità e tramutarla in luce, un imbroglione promotore della verità. Nelle sue magie, nei suoi trucchetti di scena, fa emergere il sale della vita e ci fa assaporare il potere curativo della fantasia.

In comune di Ambra Senatore, variazione e sorpresa

L’oggetto di riflessione nell’ultima coreografia di Ambra Senatore In Comune, in cartellone a Torinodanza Festival, è la dinamica attraverso cui si costituisce una piccola comunità. Dodici danzatori, tra cui la stessa Senatore, illuminano i piccoli gesti, variati e ripetuti, che costituiscono il nostro vivere in comune. Variazione e ripetizione sono le parole chiave che governano quest’opera.

I danzatori occupano la scena all’entrata del pubblico. Compiono piccolo gesti, come leggere un libro, e mostrano le conseguenze che tali atti singoli riverberano sugli altri. Chi sbircia, chi domanda quale libro si stia leggendo, chi disturba la lettura. È solo il preambolo dell’intricata tessitura da cui emergerà il disegno.

Ambra Senatore è un’artista cui piace l’ironia, la leggerezza e la meraviglia con un leggero tocco di disorientamento, anche di fronte a ciò che più ci spaventa. Il gesto di mangiare un biscotto da un barattolo di vetro, ripetuto più e più volte, si sviluppa in ramificazioni sempre sorprendenti: è offerto e rifiutato, sia da chi prende, sia da chi dona, genera affetto, amicizia, tenerezza, ricordo, ma anche conflitto. Persino una semplice camminata lungo lo spazio, nella ripetizione, coglie sempre lo sguardo impreparato. Succede come nella famosa performance di Nam June Paik con il violino. C’è Paik con in mano un violino davanti a un tavolo. Lo alza sopra la testa e con violenza lo scaglia verso il tavolo, fermandosi un attimo prima di distruggerlo. Questa azione si ripete un numero infinito di volte, tanto che alla fine ci si accoccola nell’iterazione senza aspettarsi più nulla, ed è allora che l’artista spacca il violino, quando l’azione ripetuta all’infinito rende l’esito atteso non più scontato. Lo sappiamo fin dall’inizio che quel violino finirà in pezzi, ma quando avviene ne siamo sorpresi. Sono la tensione e l’aspettativa che vengono dilatate, disattese e poi risolte con violenza. Ambra Senatore usa lo stesso procedimento, ma con maggior gentilezza e grazia.

I danzatori continuano a intrecciare gruppi di gesti tra loro, come dei tessitori di tappeti, par far emergere nuove configurazioni del gruppo. E questo lavorio da piccolo sciame di insetti operosi viene contrappuntato dal racconto della vita animale: di formiche appartenenti alla stessa specie che negli opposti versanti delle Alpi, sviluppano dinamiche differenti di interazione e comportamento, di orche e felini che torturano le proprie prede prima di cibarsene, di fiori e piante che usano colori sgargianti a volte per attirare, altre per respingere, dell’eucalipto che trae pagliuzze d’oro dalla terra attraverso la linfe e le cui foglie morte sono offerte al pubblico. L’infinita trama della natura risulta composta da ripetizione e variazione, e sempre il processo porta meraviglia e tenerezza anche nell’orrore.

Se c’è una cosa che Ambra Senatore ha imparato da Carolyn Carlson, di cui è stata allieva alla Biennale di Venezia, è la gestione dei ritmi e degli insiemi dei danzatori. Sapienti tessiture ritmiche animano l’azione sulla scena, anche quando non si danza, quando semplicemente si propone un gesto comune. È la coreografia che regna sulla danza e sul teatro, perché alcune scene o passaggi sono puramente teatrali. Come il finale, dove i danzatori si prendono per mano e invitano gli spettatori a unirsi con loro in una catena che li unisce fino all’ultima fila. Poi rimangono così, congelati, ciascuno con una differente espressione sul viso, come in un bassorilievo.

In comune è racchiuso in una bellissima poesia della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad recitata e offerta agli spettatori dalla stessa Ambra Senatore, di cui, in conclusione, riportiamo alcuni versi che ben raccontano l’intero spettacolo:

«Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio,

e aveva il volto della mia vecchiaia

E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e di riempire di semi versi il suo ventre infiammato

Sì, la saluterò,

la saluterò di nuovo».

La favola ecologica di Akram Khan: Jungle Book Reimagined

Giunge a Torinodanza, dopo il debutto italiano a Romaeuropa Festival, Jungle Book Reimagined di Akram Khan. Il coreografo bengalese nato a Wimbledon è ormai una stella riconosciuta nel panorama della danza contemporanea e le sue creazioni riescono sempre a stupire e sorprendere per le invenzioni visive e il rigore tecnico unito a una grande resa emotiva.

Jungle Book Reimagined è un reinvenzione del famoso libro di Rudyard Kipling in cui sono contenute le storie di Mowgli, il ragazzo della giungla, e degli animali che lo allevano ed educano alle leggi della natura. Akram Khan e lo scrittore Tariq Jordan rielaborano il materiale originale costruendo un favola contemporanea rivolta ai bambini di oggi e domani o, come li chiama Akram Khan, “i nostri narratori presenti e futuri”. Ne risulta un mito ecologista, volto a costruire una rinnovata percezione della reciproca dipendenza tra l’uomo e l’ambiente naturale. È un invito a abbandonare lo scriteriato sfruttamento del pianeta che sta portando, non solo all’estinzione di numerose specie animali e vegetali, ma a un radicale quanto nefasto cambiamento climatico.

La storia di Mowgli viene dunque riscritta secondo questi criteri rielaborando il materiale proveniente soprattutto dai capitolo primo, secondo e sesto del libro di Kipling. Non siamo più nella giungla indiana, ma in un’Inghilterra sommersa dall’acqua in un mondo devastato da una crisi ecologica. Gli uomini si sono rifugiati sulle montagne e quel che resta della terra è occupato dagli animali fuggiti dagli zoo o dai laboratori di sperimentazione. Mowgli è una bambina, caduta da una zattera mentre fuggiva con i genitori, e che già prima del cataclisma cercava di riscrivere i propri comportamenti nei riguardi della natura. I lupi la trovano sulla spiaggia dopo che le balene l’hanno salvata e la accolgono nel consesso degli animali, sotto la tutela di Bagheera e di Baloo. Le ambientazioni sono post-apocalittiche tra rovine, carrelli di supermercato abbandonati, spazzatura. Gli animali e la natura si stanno riappropriando degli spazi loro negati dall’uomo.

L’episodio del rapimento di Mowgli da parte del Bandar Log, il popolo delle scimmie, rivela che anche da parte degli animali si è creato un dissesto dei rapporti tra le specie. Le scimmie vogliono diventare come l’uomo, desiderano il fuoco per diventare la specie predominante sulla terra. Kaa, il pitone, a cui si rivolgono Baloo e Bagheera per salvare la bambina, nutre un forte risentimento per gli uomini per averlo ingabbiato in una teca, in cui l’apparente libertà è solo un’illusione dovuta alla trasparenza della gabbia. Nuovi equilibri devono essere stabiliti, nuove alleanze tra l’uomo e la natura. È il senso del racconto dell’elefante e dell’intera coreografia di Akram Khan.

Il carattere fortemente ambientalista della favola riscritta è connotato anche dagli inserti di due interventi di Greta Thunberg: il famoso “How dare you?” reiterato nel discorso alle Nazioni Unite e parti del discorso “Blah, blah, blah”.

L’impegno verso l’ambiente si denota anche dall’utilizzo di pochi materiali poveri, su un palco vuoto dove la magia del racconto è sostenuto dai corpi danzanti, dalle essenziali ma efficaci animazioni proiettate in proscenio, e da una suggestiva colonna sonora. Semplicità è la parola d’ordine di questo allestimento, una elementarità che non sminuisce ma esalta la magia della scena. Molto riuscita la figura del pitone Kaa, che prende vita da semplici scatole di cartone di varie grandezze, tenute in mano dai danzatori in ordine decrescente a simulare le spire del serpente, le cui evoluzioni ricordano quelle dei draghi cinesi del capodanno. I suoi occhi ipnotici sono semplici dischi di plastica verde retroilluminati nella scatola di testa. Evocativa anche la scena dell’annegamento del cacciatore nel mare, una semplice tela azzurra di shantung, le cui variazioni di colore, esaltate dalla luce, riproducono, come per magia, i riflessi del mare in una notte di plenilunio.

La danza, seppur rigorosa, è coinvolgente ed emozionante. I personaggi sono ben caratterizzati da un divenir animale che non ricerca la mimesis ma un artificio che si fa natura e diventa un’evocazione burlesca e insieme commovente. L’orso Baloo, per esempio, diventato un ballerino per divertire i bambini dello zoo possiede una forza comica da clown, ma può ricordare al massimo un orso da cartoni animati, così come Bagheera possiede l’eleganza delle movenze di un felino senza mai scadere nella copia. Come sempre nelle danze di Akram Khan si ritrovano le geometrie alla De Keersmaeker sapientemente miscelate con elementi pop, come la break dance, o i riferimenti alla tradizione indiana, soprattutto nelle disposizioni lineari, come nei bassorilievi nei templi indù che raffigurano le danze delle Apsaras. Ne risulta una coreografia dinamica, con frequenti cambi di ritmo, e un’accorta distribuzione dei numeri d’insieme con le parti solistiche o nei duetti. La tecnologia dell’animazione digitale si inserisce e amalgama con eleganza e raffinatezza con la danza dal vivo, formando un tutto unico, un’ennesima chiamata a una nuova alleanza tra il naturale e l’artificiale.

Akram Khan con Jungle Book Reimagined riesce a costruire un favola pop e politicamente impegnata, frutto di un felice connubio tra profondità e leggerezza, capace di integrare più linguaggi artistico-espressivi, sfumando, se non cancellando, i confini tra danza, teatro, animazione digitale. Il pubblico ha compreso pienamente l’operazione applaudendo con calore ed entusiasmo.