Boris Nikitin, artista svizzero che da anni si occupa nei suoi lavori di investigare la linea sottile tra realtà e illusione, tra i fatti e la loro rappresentazione, porta al Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea (FIT) di Lugano il suo Attempt on Dying, opera che pone l’accento sul concetto di vulnerabilità dichiarata come atto dalla forte valenza rivoluzionaria.
La performance di fatto non è nient’altro che una semplice lettura. Una sedia sul palco, una piccola risma di fogli e Boris Nikitin in jeans e maglietta bianca. Un reading che sottrae ogni possibile tentazione di rappresentazione: la voce neutra e chiara, lo sguardo molto più spesso rivolto ai fogli che al pubblico, quasi nessun gesto. Restano le parole dette come in una conferenza stampa, senza pathos e senza alcun coinvolgimento personale, quasi un bollettino medico.
Ciò che viene detto è un fatto biografico legato alla vita dell’autore e a quella di suo padre. Il racconto mette in relazione il coming out come affermazione di identità sessuale dell’autore con quello del padre affetto da SLA nel dichiarare la propria volontà di eseguire il suicidio assistito. In entrambi i casi si tratta di mostrare pubblicamente una fragilità che immediatamente si trasforma in un atto di coraggio, di forza, di azione politica. Essere pubblicamente deboli, di fronte all’intera comunità di appartenenza, non solo solleva delle questioni fondamentali sui diritti dell’individuo relativi alla sfera d’azione privata e pubblica, ma ribalta il tradizionale concetto di forza. Per Boris Nikitin vi è quasi l’affermazione del principio taoista per cui per essere forti bisogna essere deboli. Non vi è niente di più fragile di una goccia d’acqua ma essa ha il potere di spaccare la roccia più solida.
Il testo presentato ha una forte carica politica e parte dalla propria biografia, dal caso personale, per interrogare la società civile sui temi scottanti che la attraversano. Tale funzione viene delegata alla sola parola credendo forse che ogni altro elemento di rappresentazione avrebbe contaminato le questioni fondamentali poste nel testo.
Questo tipo di performance che riducono all’osso l’evento performativo dal vivo, una scarnificazione pronta ad arrivare fino alla diniego come in questo caso dove il performer per lunghi tratti nega persino lo sguardo allo spettatore, fa sorgere la domanda sul motivo di tale scelta, sul perché si utilizzi la forma scenica e non altri media forse più adeguati a questa forma. Inoltre se si vuole raggiungere un grado di freddezza scientifica, oggettiva, perché scegliere la narrazione autobiografica che inevitabilmente crea una relazione empatica tra ascoltatore e performer?
Sembra in un certo qual modo che sussista anche negli artisti dediti forma scenica nel più ampio significato del termine, il pregiudizio che il teatro abbia a che fare con la finzione mentre la realtà sia la sola depositaria di una verità. Se questo poteva essere realistico fino alla seconda metà del secolo scorso, e pur con molte eccezioni, oggi non più, con l’invasione del virtuale e con i progressi scientifici soprattutto nella fisica e nelle neuroscienze che pongono serie questioni sull’individuazione di una realtà oggettiva chiaramente identificabile. Inoltre l’azione scenica quando non sia una simulazione ma una semplice attività eseguita qui e ora davanti a un pubblico risulta reale quanto ciò che avviene in platea. Oggi è faticoso, se non impossibile e quando non addirittura inutile, distinguere gli ambiti di realtà e affibbiare al teatro il marchio di finzione.
Alzare un muro tra platea e performer, un limite invalicabile composto da fogli di carta che impediscono lo scorrere dello sguardo tra platea e performer pare una negazione di quell’incontro fondante le arti dal vivo. Se quello che conta è solo l’ascolto e non ciò che vedo costituente un linguaggio composito, cambiano i confini e le funzioni della performance? E perché leggere e non semplicemente dire, atto che non presuppone una interpretazione ma resta nel limite della mera enunciazione e presuppone una circolazione di sguardi tra scena e pubblico?
Al netto di queste domande e considerazioni, necessariamente incomplete, data la brevità della forma articolo, pare che Attempt on Dying di Boris Nikitin possegga aspetti interessanti non solo nel contenuto ma anche nella forma scelta: un testo potente che pone questioni fondamentali al vivere civile e, nello stesso tempo, mette in discussione la funzione stessa di rappresentazione. Per essere efficace oggi deve in qualche modo essere negata? Nell’epoca dell’impero delle immagini solo la parola ha veramente il potere di scuotere? E infine: l’unico mezzo per poter raccontare efficacemente la realtà è l’autobiografia? Non è qui importante rispondere a tali questioni, piuttosto diventa fondamentale che tanti artisti di ricerca e molta critica stiano tornando a porle cercando di ridefinire la funzione del teatro nel nostro cntesto storico.