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Il pranzo della domenica di Serena Balivo e Mariano Dammacco

Kantor diceva che il Teatro parla sempre della morte. E non perché si rappresentino delitti, tragedie o pietose morti. Il teatro ci mette in comunione con il senso della nostra finitezza. Dal buio sorgono le immagini e i personaggi che, dopo un flebile soffio di vento, ritornano nell’ombra. Come scriveva Shakespeare siamo tutti attori che si pavoneggiano e si agitano sul palcoscenico per il tempo a noi assegnato, e poi nulla più s’ode. Vita e teatro si rispecchiano. Non è finzione, è menzogna che si fa verità di carne.

La morte ovvero il pranzo della domenica, di Mariano Dammacco, interpretato superbamente da Serena Balivo, ci fa sentire fin da subito la presenza della Signora in nero. Quelle bottiglie sul fondo del tavolino fanno tanto pensare a quelle di Morandi, così ordinarie, vuote, abbandonate. E quando compare lei, con la sigaretta, seduta al tavolo con gli occhi fissi, emerge anche la figura di uno dei giocatori di carte di Cezanne. Su quel tavolo appaiono una selva di nature morte. Tutto in quell’immagine, così semplice e così ordinaria, ci riporta alla stasi della tomba.

La donna seduta, non più giovane, ci racconta del suo pranzo domenicale, appuntamento che non vuole perdere per nulla al mondo. Un pranzo con i genitori ultranovantenni di cui ci viene raccontato con dovizia di particolare tutto il menu. È una stazione di un viaggio verso la morte. I vecchi si stanno preparando al funerale, lo sognano, mentre la figlia cerca di esorcizzare il momento. È raggelante, benché in alcuni momenti il racconto ti obblighi a sorridere.

Quei genitori sono i nostri. Li possiamo riconoscere. Io per esempio non ho potuto non pensare a mia madre, le sue polpette divine, il suo sentirsi in dovere di metterti al corrente di tutte le tragedie di cronaca e della situazione geopolitica mondiale. È noiosa, a volte, ma cerchi di sopportare perché sai che un giorno quei discorsi ti mancheranno. E poi le fissazioni, l’ordine maniacale, il senso del decoro, tutti ci ricorda genitori comuni, condivisibili, e per questo quell’ansia di morte che pervade la scena è così opprimente che se non ci fossero le risate sarebbe insopportabile. L’ipostasi della Jouissance di Lacan, quella terra oltre il confine del piacere, dove il godimento è inestricabilmente connesso con il dolore.

La morte ovvero il pranzo della domenica, rende vivi e concreti i nostri timori. Quella sensazione orribile, riassunta da Serena Balivo nell’immagine dei saluti dalla finestra, che ti attaglia talvolta nel pensare: “forse è l’ultima volta che ci vediamo”. Ridere di queste sensazioni è il più grande risultato del teatro, ribaltare l’angoscia nel suo contrario, vincere la paura della morte confrontandosi con lei faccia a faccia.

Lo spettacolo però non è solo il racconto, è soprattutto il corpo dell’attore. Serena Balivo ha il perfetto controllo delle sue capacità espressive. Riesce a padroneggiare una gestualità vivace, colorita, intensa e difficilissima, in quei movimenti a scatto, come di marionetta, in quei repentini congelamenti dell’azione, non come se ci fosse un ripensamento, ma come se nel frattempo si sia riscritta la programmazione, nelle routine e i loop, come leitmotiv e frasi poetiche, che si stagliano in contrapposizione alla narrazione. Il dosaggio sapiente dei toni e delle espressioni rende il racconto avvincente anche se in fondo si racconta niente di diverso di un semplice pranzo domenicale con il suo arrosto con le patate e pastine con l’amaro e il caffè a chiudere.

Un pranzo che è consueto ma anche arcaico. E non solo perché il legame tra il cibo e i morti sia stretto ancor oggi, ma in quanto il timore di non aver fatto “tutto per bene”, come dice il padre della donna, ci accomuna ai nostri avi. Il non essere ricordati, non aver meritato questa vita agli occhi di chi rimane, forse è paura ancor più forte della morte stessa. E questo pranzo della domenica ce lo ricorda ossessivamente.

Mariano Dammacco e Serena Balivo sono riusciti a creare un lavoro che coniuga la leggerezza della serenità con il panico generato dal timore della perdita. Come spettatori ci si sente dilacerati dal piacere e dall’orrore. Solo il Teatro con la maiuscola, quello evocato da Kantor all’inizio di queste riflessione, può osare tanto. È raro incontrarlo ma quando succede provi la strana sensazione di una gioia mista a inquietudine. Ma questo è il suo compito. Come diceva Artaud il teatro ha il dovere ricordarci che il cielo può caderci in testa ogni minuto.

La morte ovvero il pranzo della domenica

Torino, Cubo Teatro | 17 gennaio 2025

Durata 60′

Uno spettacolo con Serena Balivo
Ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco
Musiche originali Marcello Gori
Consulenza spazio e luci Vincent Longuemare
Oggetti di scena Andrea Bulgarelli / Falegnameria Scheggia
Foto di scena Angelo Maggio
Ufficio stampa Maddalena Peluso
Produzione Compagnia Diaghilev
Con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) e di Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno)

Maguy Marin apre a Torino Palcoscenico Danza

Iniziare il proprio festival con due pezzi d’annata di una grande riformatrice come Maguy Marin può sembrare una scelta azzardata da parte di Paolo Mohovich, direttore di Palcoscenico danza, soprattutto oggi dove ogni cosa che guarda al passato è vista come nostalgica. Tutti sono rivolti verso il futuro, uno qualsiasi, anche se ancora non si è capito quale sia.

Partire dalla memoria sembra invece un ottimo auspicio per la nuova edizione della rassegna torinese. Capire da dove si viene, per comprendere meglio che strada intraprendere, magari per ribellarsi al sentiero posto sotto i nostri piedi, ma consapevoli di quale sentiero ci ha portati fino a qui. Come diceva Benedetto Croce: «la storia è sempre storia contemporanea».

Merito di questa operazione di recupero dai fondali della memoria è da attribuirsi a MM Contemporary Dance Company di Michele Merola che ha deciso di riproporre al pubblico questi piccoli gioielli della danza. Peccato che tra il pubblico ci fosse un’esigua partecipazione di giovani danzatori a cui principalmente sarebbe stato utile uno sguardo profondo nel recente passato.

Duo d’Eden (1986): un uomo e una donna entrano sulla scena. Indossano una tutina color carne. Il costume è anche maschera. I volti sono inquietanti, deformi, con i capelli fulvi e arruffati. Potrebbero richiamare un mondo primitivo, forse innocente, sicuramente più animale, ma anche alludere ai volti dolenti dei progenitori cacciati dall’Eden dipinti da Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze. L’aria si riempie di suoni di pioggia e di tuoni e questo ci spinge ancor di più verso un cammino che vede nel duetto un’eco di immagini. Il tuono ci fa balenare sulla retina un’immagine persistente da La tempesta di Giorgione, quadro misterioso, allusivo delle vicende dell’eden, dove i progenitori sono già stati cacciati. E se il sodato è Adamo, in riposo dal duro lavoro, quella zingara seminuda con il bambinello tra le braccia altro non è che Eva dopo aver partorito con dolore. E la città sullo sfondo è proprio l’Eden da cui ormai sono esclusi.

Duo d’Eden, potrebbe aver quindi un’atmosfera meno serena ed erotica di quanto si è immaginato. I due corpi, così materiali ma anche pieni di grazia, si inseguono ma ricercano spasmodicamente quell’unione ormai persa, quell’essere una sola carne avanti l’incidente della mela. I corpi lottano contro la gravità e la fatica. Si avvinghiano l’un l’altro, ruotano come stelle binarie in perenne rivoluzione una sull’altro.

La grazia perduta viene dalla sprezzatura, quell’attitudine che Baldassare Castiglione diceva aver qualità di far sembrar facile quello che non è. Tutto trama contro di loro. Gli elementi vogliono la loro caduta, non importa se già avvenuta, perché avverrà, non si potrà in eterno battere la fatica. La bellezza di questa danza vive di instabilità, finitezza, precarietà. Forse proprio perché i due progenitori sono caduti nelle sabbie del tempo, nella tempesta segnata da un prima e un dopo il tuono, e solo nel tempo può vivere la bellezza, pienezza destinata a sfiorire. Nell’eternità dell’Eden, al contrario, tutto si equivale nella perfezione.

Grosse fugue (2001) è un confronto con Die Grosse Fuge op. 133 del grande Ludovico Van. Il pezzo, prima di divenire un numero di catalogo a sé stante, sarebbe dovuto essere l’ultimo movimento del quartetto d’archi n.13 in si bemolle maggiore op. 130. Gli esecutori dell’epoca lo trovarono superiori alle loro forze. Tutte quelle dissonanze, i cambi di tonalità, quella ritmica così balzana ma fortemente innovativa era impossibile da eseguirsi. Il maestro ormai sordo e incamminato verso la dissoluzione delle forme classiche, soprattutto della sonata, urlò e protestò ma alla fine riscrisse un finale più sereno e la grande fuga divenne un pezzo autonomo.

Inutile dire che oggi è considerato un capolavoro, così avanti sui suoi tempi da essere considerato dai suoi contemporanei un orrore e un’aberrazione dovuta alla sordità.

Maguy Marin si confronta con il pezzo di Beethoven non solo dal punto di vista linguistico, contrappuntando la musica con la danza, ma infondendovi nuove immagini, una vena ironica, e messaggio politico.

Quattro donne vestite di rosso entrano in scena, come le quattro frasi melodiche che si rincorrono in questa grande fuga. L’ardita composizione spinge al virtuosismo le danzatrici, costrette a rincorrersi, a stare al passo. Sia l’ascolto come la visione anelano a un momento in cui il ritmo conceda almeno un leggero calare. Improvviso ecco giungere un breve attimo di pausa, quel meno mosso e moderato racchiuso da due parentesi costituite da due allegri molto e con brio, le donne quasi si rilassano, rilasciano un sospiro di sollievo che dura troppo poco e ci strappa un piccolo sorriso. Ed ecco nuovamente a intrecciarsi con brio, a correre dietro il tempo. Non possiamo non pensare a questa vita pazza che ci siamo autoimposti, schiavi per volontà, supini al diktat di essere sempre produttivi e performanti prima che il buio cali su di noi.

Ciò che più sorprende in questi due pezzi di Maguy Marin è la loro attualità, il non essere per nulla datati, freschi come uova di giornata. Una danza tecnica, ma capace di liberarsi dal virtuosismo fine a se stesso regalando nuove immagini. Questi due pezzi brevi non si chiudono su se stessi, ma aprono porte e finestre nel palazzo della nostra memoria, facendo irrompere immagini e associazioni. Una danza di corpi coinvolgenti, mai autoreferenziali, corpi liberi perché capaci di andare al di là della tecnica, padroni del tempo, dello spazio e della gravità. Portare nuovamente sulla scena questi due piccoli capolavori di Maguy Marin, è stato un gesto di grande generosità di cui non si può essere che grati.

Torino, Teatro Astra | 21 gennaio 2025

La coscienza di Zeno di Paolo Valerio

La coscienza di Zeno per la regia di Paolo Valerio è di quelle opere teatrali che di norma non vado a vedere. Essenzialmente la ragione risiede nell’essere convinto che il pubblico che assiste agli spettacoli tratti dai libri si possa dividere in due grandi categorie: quelli che hanno letto il libro e vanno a ricercare nostalgicamente le emozioni provate; e quelli che non leggono, e vanno a teatro come se fosse un surrogato della letteratura. Non è quindi il teatro ciò che ne muove l’interesse, ma la letteratura. L’arte teatrale in genere si piega a questa aspirazione e si sostanzia accomodante come una semplice messa in scena in forma ridotta di romanzo condensato modello Reader’s Digest. Ovviamente ci sono delle illustri eccezioni, ma in generale il processo porta a presentare un teatro confortevole e riconoscibile.

Scegliendo di assistere al Teatro Carignano di Torino a La Coscienza di Zeno, ho voluto, come critico, mettermi a confronto con i miei pregiudizi, vedere quello che non voglio vedere, e capire se la realtà può sorprendere. In fondo lo dice anche Zeno Cosini: «la vita non è né bella né brutta, è originale». E comunque, imitando Zeno, devo confessare che a giocare un ruolo non indifferente nel “nobile” atto di combattere i propri pregiudizi, è stato un sentimento nostalgico dettato dall’amore per Trieste, una città in cui trovo amici cari, situata in un angolo straordinario del mondo dove si mischiano territori e culture. Sotto la sua veste severa veneto-asburgica, dove il leone di San Marco si unisce in nozze equivoche con l’aquila bicipite, si trova sempre una certa illuminante follia. Anch’io dunque non ero spinto solo dall’amore del teatro.

La mia confessione non è posta a caso in questo articolo, è parte integrante del processo innescato da Zeno Cosini, interpretato magistralmente da Alessandro Haber. Lui confessa tutti i suoi pensieri più disdicevoli, ma senza prenderli sul serio, con leggerezza, facendoci ridere di lui e di noi stessi. Le sue memorie dovrebbero aiutarlo a guarire e a conoscersi meglio. Di fatto Zeno è già guarito, è stato malato di vita e l’ha sempre saputo.

Il suo monologo interiore ci fa entrare in contatto con le contraddizioni del suo animo, ma soprattutto tra ciò che succede nella sua testa e cosa appare a chi gli sta intorno. Un esempio è il suo desiderio di uccidere Guido perché ha sposato Ada al posto suo. Un pensiero omicida che nasce da gelosia e antipatia e compare improvviso durante un passeggiata. Questo sentimento si scontra con l’opinione di tutti i suoi familiari che lo considerano il più grande amico e l’unico sostegno del cognato. Persino i suoi tradimenti diventano ridicoli, senza malizia, piccole sbadataggini innocue. Ma ricordiamo: sono confessioni, memorie, e come tali falsate. Il racconto è sempre una mistificazione della realtà.

I ricordi di Zeno, per quanto ci facciano sorridere, rappresentano il conflitto tra rappresentazione interiore e ciò che comprendono gli altri delle nostre intenzioni e sentimenti. Un conflitto insanabile che assume tratti tragicomici, come quando sbaglia funerale ma riesce, mentendo, a passare per parente sollecito dei bisogni di Ada. Solo Lei non gli crede perché sa, in fondo, che Zeno ha sopportato Guido per amor suo e non per empatia verso il cognato.

La scenografia rende visibile ciò che si proietta nella mente di Zeno, le immagini della città dal Canal Grande con al fondo la Chiesa di Sant’Antonio Taumaturgo e le cupole della Chiesa Ortodossa, a Piazza Unità, a Piazza della Borsa. Ma anche le foto di famiglia, il mare, la luna. Un occhio, interiore ed esteriore, che guarda questa vita e quelli che l’hanno vissuta con lui.

Paolo Valerio ha creato volutamente una messa in scena metateatrale, La sua coscienza di Zeno vede il confronto tra il Cosini del passato e il Cosini presente, uno Zeno bicipite come l’aquila degli Asburgo. Giovinezza e vecchiaia si guardano, ma quest’ultima è una regista esigente. Mette in scena gli anni che furono e quando l’azione non corrisponde all’intenzione del racconto a posteriori, viene fatta rifare con indicazioni registiche quasi si fosse in prova, finché non diventa convincente. Il gioco della verità a teatro riesce solo se tutti mettono una maschera e iniziano a mentire.

Zeno sembrerebbe malato immaginario, sempre in balia di medici e psichiatri, ma la sua infermità è la vita con le sue contraddizioni, con le sue leggi e regole il più delle volte incomprensibili. Come dice nel bellissimo monologo finale: «Forse la malattia che mi procurava quei misteriosi dolori è semplicemente la vita. Non è una malattia da poco. Tant’è vero che è sempre mortale. Tentare di guarirne, di progredire, è un’illusione».

L’ultimo pensiero prima di calare il sipario è sulla guerra. Quella di allora e quelle di oggi. E quelle odierne ci avvicinano sempre più alla predizione finale di Zeno: «Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e malattie». A schiacciare il bottone per la grande esplosione sarà un uomo più malato degli altri.

La forma delle cose di Neil LaBute

In un giorno qualsiasi del 1917 Marcel Duchamp ruotò di novanta gradi un orinatoio e la storia dell’arte occidentale cambiò radicalmente. John Cage che di Marcel era stato grande amico e degno avversario alla scacchiera, per sottolineare la rivoluzione copernicana nel mondo dell’arte disse: «Supponiamo che non sia un Duchamp. Basta girarlo e lo diventa». Sembrerebbe una motto di spirito, di quelli che piacevano tanto a Freud per la fine arguzia, ma con questa battuta Cage metteva in luce che nell’arte contemporanea la questione estetica era ormai in secondo piano rispetto al gesto e l’intenzione che la manifestava.

Marcel Duchamp infatti diceva dei suoi readymade: «c’è un punto che voglio stabilire molto chiaramente ed è che la scelta di questi readymade non mi fu dettata da qualche diletto estetico. Questa scelta era fondata su una reazione di indifferenza visiva, unita al tempo stesso da un’assenza assoluta di buono o cattivo gusto… di fatto un’anestesia totale».

La forma delle cose di Neil LaBute, messo in scena dal 7 al 19 gennaio al Teatro Gobetti da Marta Cortellazzo Wiel, così come Arte di Yasmina Reza dove tre amici litigano per un quadro bianco, recupera il gusto estetico come fattore divisivo per scatenare la ferocia dei personaggi in scena e metterci di fronte a questioni che estetiche non sono per niente. L’arte sembra essere un pretesto, come potrebbe esserlo la politica, per istigare conflitti insanabili.

Neil LaBute però, al contrario di Reza, non si contenta di usare l’arte come oggetto del contendere. In La forma delle cose l’opera d’arte è il soggetto stesso dell’intera azione. Evelyn (in scena Beatrice Vecchione) è una giovane artista. Sta ancora studiando per un master di specializzazione e, grazie a una borsa di studio, va a risiedere in un piccolo paesino della provincia americana. Nel museo locale viene esposta una scultura raffigurante Dio di un famoso scultore a cui, un comitato cittadino, per questioni di bigotto pudore, ha coperto le pudenda con una foglia di fico in gesso. Evelyn è nel museo per reagire a questa forma di censura disegnando con la vernice spray un “pisello” sulla foglia restituendo il vero al fasullo.

Ancora una volta la questione sembra essere estetica, una reazione contro un novello Braghettone chiamato, come a suo tempo Andrea da Volterra nella Cappella Sistina, a censurare il vero di natura affinché non offendesse il pio e virgineo sguardo dei cardinali, e ora dei casti visitatori del museo. A volte però un’immagine nasconde un’altra immagine, come in Vermeer, Velasquez o Van Dyck, con quegli specchi che riflettono personaggi misteriosi. E così le parole aprono varchi nello spazio-tempo e dal museo appare il giardino dell’Eden. Si perché a fermare Evelyn, entrata con una mela che sgranocchia soddisfatta, a fermarla affinché non vada dove non deve e non vandalizzi la statua di Dio, è Adam (Marcello Spinetta).

Qui Eva non è una costola di Adamo, non è la donna creata affinché sia di compagnia all’uomo. Qui Eva è molto più simile a Lilith, la ribelle. Assume anche i connotati del serpente tentatore. Lei non costringe Adam, lo consiglia, lo esorta a esercitare il suo libero arbitrio fregandosene di cosa pensano gli altri. La novella Eva anche divinità perché Adam è la sua opera d’arte. E qui torniamo a Duchamp che, sempre parlando dei suoi readymade, diceva non avevano niente di unico: «tutti i readymade esistenti oggi non sono degli originali nel senso usuale del termine».

Adam è molto simile a un readymade per Evelyn. Come diceva John Cage per farlo diventare un Duchamp basta solo dargli un’altra prospettiva. Inoltre è già pronto, potremmo chiamarlo un objet trouvè. Non è né bello né brutto, capita come per caso sotto l’occhio dell’artista.

Evelyn nella sua creazione coinvolge inevitabilmente anche le persone vicine a Adam, i suoi più cari amici Jenny (Celeste Gugliandolo) e Philip (Christian di Filippo) creando quello che Duchamp chiamava readymade aumentato. Cambiando Adam, Evelyn modifica inevitabilmente anche i rapporti con loro e di conseguenza le rispettive personalità. La mutazione non è indolore. Anzi violenta, quasi contro natura, perché l’arte, benché possa imitare la Natura, non le somiglia quasi mai, soprattutto se c’è di mezzo l’ego. Cage infatti, artista che più di ogni altro insieme a Carmelo Bene nel secolo scorso ha avversato l’idea di un’arte egoriferita, prendeva a prestito l’invito del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy a non a imitare la natura nelle forme ma nel suo modo di operare.

Evelyn compie il peccato di agire senza amore, per non dire senza compassione. Come una scienziata che sperimenta sulle proprie cavie da laboratorio, modella la sua scultura di carne viva freddamente, calcolando le reazioni e le mosse successive. Lei non fa di se stessa un’opera d’arte come faceva la Baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven (colei che pare inviò il pissoir a Duchamp), ma fa diventare gli altri un’opera d’arte. E mette il risultato sul mercato. La questione alla fine è etica e non estetica. O meglio: l’arte deve agire secondo un’etica? Oppure conta solo il risultato? Sono questioni che il movimento #MeToo ha sollevato per esempio per il caso Jan Fabre. Le risposte sono ovviamente personali.

C’è un altro aspetto da considerare in quest’opera complessa. Per divenire opera d’arte Adam deve lasciarsi manipolare da Evelyn, trasformarsi in creta nelle sue mani. Philip Dick, il grande maestro della fantascienza, scrivendo La svastica sul sole, ci ha fornito un’opera magistrale che racconta del potere della suggestione. L’idea di un mondo in cui avevano vinto i nazisti paradossalmente gli si era presentata leggendo La banalità del male di Hannah Arendt, dove la filosofa spiega il potere di piegare la realtà propria dei regimi totalitari. Questi si affannano come in 1984 a riscrivere la storia cambiando il passato e obbligando i cittadini a credere nel bispensiero che nega e afferma verità contrastanti tra loro.

E di banalità in fondo si tratta anche nel caso di Evelyn e Adam. Le basta suggerire piccole cose per generare un totale cambio di personalità del suo soggetto. Adam in questo è un perfetto readymade: senza particolari qualità viene messo sottosopra e posto su un piedistallo. Quella di Evelyn è un’operazione che ricorda un poco anche Piero Manzoni quando mise il mondo sul piedistallo e per farlo non dovette far altro che rovesciare il piedistallo stesso.

La regia di Maria Cortellazzo Wiel mette in luce tutti gli aspetti emergenti dal testo. Sembra, – e sottolineo sembra -, che si sia sottratta dal manipolare la materia, lasciandola invece affiorare naturalmente dallo sviluppo dei dialoghi. L’azione, al di là della prima scena che avviene in proscenio, si sviluppa in un ambiente chiuso da riquadri di plastica trasparente illuminato da neon, uno spazio che i personaggi non abbandonano mai. Sembra uno di quei box da quarantena dove vengono confinati i contagiati o le cavie da laboratorio. Unici elementi: un pianoforte un paio di sgabelli. Nel finale solo Evelyn esce da questo spazio contenitivo per illustrare al pubblico la sua opera d’arte.

La recitazione è calda e coinvolgente. Non si ha mai l’impressione del fasullo, una sensazione fastidiosissima e spesso presente sui palchi italiani. Gli attori si sono lasciati pervadere dai campi di forza emergenti dai conflitti tra sfera pubblica e sfera privata dei singoli personaggi, e dalla naturale interazione delle varie opinioni e posizioni suscitate dallo sviluppo dell’intreccio drammaturgico.

La difficoltà per l’attore nell’interpretare questo dramma risiede nel sapere di essere ingannato e manipolato da Evelyn e nonostante questa conoscenza essere in grado di rendere credibile e manifesta la fragilità interiore e la spavalderia esteriore. L’arroganza iniziale di Philip, tipica del ragazzo di provincia re del proprio piccolo villaggio, per esempio si trasforma in una dolorosa incertezza per finire nella consapevolezza del tradimento dell’amico via via che la consapevolezza delle proprie insicurezze matura. In questo dosare emozioni e caratteri i quattro attori sono stati all’altezza della difficoltà interpretativa. Unico neo: l’abuso dei toni urlati nei litigi quando, a volte, un sussurro sarebbe risultato più efficace.

LA FORMA DELLE COSE durata 1h 15′

di Neil LaBute
traduzione Masolino D’Amico
con Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione.
regia Marta Cortellazzo Wiel
scene e costumi Anna Varaldo
luci Alessandro Verazzi
suono Filippo Conti
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

Teatro Gobetti – Torino | 14 gennaio 2025

FACCIAMOLA FINITA CON LA CRITICA TEATRALE

Questo scritto inizia con una confessione dolorosa e finisce con una scommessa. E viola fin dal principio la regola non scritta secondo cui è meglio in un articolo non parlare di sé. La questione però è sia personale sia generale e, secondo me, non si poteva affrontare che in questo modo. Portate pazienza e seguitemi.

Ho passato gli ultimi mesi a chiedermi incessantemente se non fosse il caso di finirla con la critica. Questo disagio, o necessità, si faceva giorno dopo giorno più urgente e molesto, pretendendo che smettessi di rimandare la sua risoluzione. E più differivo, più calava il desiderio di seguire festival e spettacoli. Per qualche tempo mi sono nascosto dietro le ricerche per il mio ultimo libro, cercando di convincermi che quella fosse la causa, che non avessi il tempo di scrivere altro, che ero completamente assorbito in un mondo affascinante, lontano e poco conosciuto, ma sapevo che erano misere scuse proprio perché trovavo più ammaliante il passato e non il presente.

La verità è che non avevo e non ho più fiducia nella critica in sé e nei modi in cui viene esercitata. Lasciamo perdere per un momento la spinosa questione dei conflitti di interesse perché sono purtroppo sistemici, anche se, bisogna dirlo, limitano, e di molto, la libertà e sono un vulnus all’autorevolezza della critica in sé. Bisogna però riconoscere che se festival e teatri non contribuissero alle spese della critica, attività dello spirito non più paragonabile a un vero lavoro e per lo più manifestazione di volontariato culturale, la questione sarebbe già risolta da molto tempo.

Una recensione, dobbiamo riconoscerlo, oggi è un atto futile, diretto per lo più al piccolo mondo antico dei teatranti e degli uffici stampa. Il pubblico non le legge o, se lo fa, non ne è minimamente influenzato, perché per la maggior parte escono post eventum, dopo che lo spettacolo di cui si parla si è già spostato in un altro territorio, e questo spesso non per la pigrizia del recensore, ma perché stanno scomparendo le teniture, a parte nei Teatri Nazionali e Tric, unici soggetti ad avere un budget che le permette. Inoltre il pubblico non legge in generale, lo dicono i dati sempre più allarmanti che vengono pubblicati e questo senza considerare il fenomeno di analfabetismo funzionale che tocca il trenta per cento degli adulti, percentuale che secondo l’OCSE, ci pone all’ultimo posto tra i paesi industrializzati.

La recensione è inutile non solo perché si rivolge alla ristretta popolazione di quella riserva indiana chiamata teatro, ma anche in quanto genere malato di aridità. Non vuole generare curiosità, moto d’animo bizzarro e ormai raro, né accendere il desiderio. Si accontenta di informare e spiegare, asetticamente, imparzialmente, senza trasporto. La recensione deve essere scientifica come la diagnosi di un medico.

La recensione poi nasconde un desiderio egoistico: mostrare ai propri lettori e alla concorrenza di essere sul pezzo, di svariare da Nord a Sud nel territorio nazionale, di essere quindi ricercati e autorevoli. Le testate ovviamente sono affette dalla stessa mania di presenzialismo. Ciò che conta sono i numeri e non la qualità di visione e il tempo dedicato allo studio e al dialogo con l’artista. Più che critici ci stiamo tutti trasformando in influencer senza però aver la capacità di influenzare massivamente, anche perché per quanto si voglia passar per inclusivi, di fatto si è altamente elitari, persino all’interno del proprio settore dove circoli e circolini si sentono investiti dalla divinità del ruolo di custodi del sapere. E non sto parlando solo di accademici e giornalisti, ma anche di referendari o non referendari, etc. Chi è fuori da queste categorie è anomalia da ignorare nella convinzione che un tesserino, un lavoro all’Università o l’appartenenza a una giuria siano un certificato di competenza.

Questo è il triste panorama entro cui si segue l’amato teatro. Inoltre si è sempre meno liberi di dire la propria opinione senza incorrere nelle ire di organizzatori, direttori e uffici stampa che si sono sobbarcati la spesa della tua venuta, per non parlare degli artisti risentiti per quello che hai scritto come fosse un’offesa personale e non un parere tecnico e personalissimo volto a essere utile.

E qui si arriva al secondo punto: la forma è anch’essa costrittiva come uno strumento di tortura medievale. Innanzitutto non si deve portar via a chi legge più di cinque o sei minuti. Frasi brevi, sintassi semplice. Si deve cominciare con il come, dove e quando senza tralasciare nessuno e riassumere la trama per includere anche quelli che a teatro vanno per la storiella, possibilmente con qualche riferimento dotto per far vedere di essere competenti ma senza esagerare per non turbare il lettore. Se la trama è mancante si descrivono scene e movimenti riferendoli a fenomeni sociali o artistici del presente, o a immagini pittoriche e/o letterarie. Infine si chiude con qualche commento riassuntivo che, senza giudicare del bene e del male, inquadri lo spettacolo nel suo presente e, per quanto possibile, ne spieghi l’intenzione. La parte del leone la fa la drammaturgia e il testo. Raramente si parla di tecnica dell’attore o di composizione registica o coreografica, giudicando queste questioni troppo specialistiche per il lettore medio, disinteressato, a quanto pare, a comprendere i meccanismi dell’arte di cui, si suppone, sia appassionato.

Un mantra ricorrente è: la critica non deve essere giudicante. Quindi per non sembrar di quelli che tranciano giudizi, si fanno giri di parole e acrobazie per dire senza dire. Ma tutto questo è una grande ipocrisia perché abbondano e crescono tutto l’anno premi e premietti, si esibiscano liste di preferenze e best off, come se questi non fossero giudizi di merito. Soprattutto però è grave il calare un velo di silenzio su quello che non si approva, che è scomodo da raggiungere o, peggio ancora, sconosciuto. Geografia e visibilità vanno a braccetto e qualche volta, talento, resta escluso e negletto.

Tutti questi lacci e laccioli che richiamano alla mente gli affatturamenti di Artaud, sono all’origine del mio disagio, sentimento in conflitto perenne con l’amore verso un’arte a cui ho dedicato più di trent’anni della mia vita. E questo scontro richiama altre emozioni disturbanti: rabbia e frustrazione. Non sorprende quindi che alla fine uno si chieda: ma chi me lo fa fare? E sono sicuro di non essere il solo a vivere questa lotta interiore tra passione e avvilente realtà.

Perciò non resta che decidere: smettere? Continuare a ripetersi: «Finita. È finita. Sta per finire. Sta forse per finire» differendo l’inevitabile come Clov in Finale di Partita? Oppure cercare di recuperare il piacere di andare a teatro e scrivere di e per il teatro?

Il punto è che non voglio rassegnarmi al sistema, a quello che Fisher chiama realismo capitalista, fenomeno capace di inaridire qualsiasi velleità di cambiamento, ma mancando il piacere e il desiderio scema. E non parlo di volgare soddisfazione, ma di ardore, di fiamma d’amore che muove alla conoscenza, alla curiosità, a voler porgersi domande le cui soluzione è altamente improbabile. «Amor mi mosse che mi fa parlare» così dice Beatrice a Virgilio, perché è «Amor che muove il sole e l’altre stelle». Artaud scriveva: «Se noi potessimo amare, amare subito, la scienza sarebbe inutile, ma noi abbiamo disimparato ad amare» e senza questo Amore che è desiderio dell’Alieno da sé, non c’è piacere, ma solo mestiere. Uso la parola Alieno inteso come sconosciuto, straniero, anomalo, come ciò è allo stesso tempo perturbante e affascinante, che attrae e respinge, quello a cui se tu fossi sano di mente non ti avvicineresti perché prudenza e senso comune ti direbbero che è sconveniente ed equivoco. E il desiderio che spinge a immaginare mondi diversi, a richiedere di cambiare pelle, di trasformarsi, mutare, evolversi. È il desiderio di volare che determina la necessità delle ali.

E per provare piacere devo, in primis, recuperare la libertà di trovare una forma, di sperimentare un modo diverso di parlare di danza e di teatro, opere d’arte in movimento. E per farlo desidero essere libero dal dover spiegare alcunché. Philippe Daverio diceva che non c’è niente al mondo di più facile da capire dell’arte: basta guardare. Ma aggiungeva che bisognava: «avere il coraggio di dire perché e di indagare». Questa ricerca deve potersi spingere in ogni direzione, come nel gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dove un’equazione richiamava un frase musicale e questa un poesia da cui si sviluppava un nesso alla vita biologica e così via.

Lessing scriveva: «Guardato isolatamente, un pensiero può essere molto insignificante o davvero avventato; ma può essere reso importante da un pensiero che lo segue e, insieme ad altri pensieri che possono sembrare egualmente assurdi, può rivelarsi un utile anello di congiunzione». È nella catena di immagini che evocano altre immagini, ghirlanda per ognuno diversa, che si ricompone ciò che è frantumato riunendo, come in un puzzle, l’infranto specchio di Dioniso ben sapendo che ogni soluzione è provvisoria come un mandala di sabbia. Vorrei che a un testo critico venisse sottratta ogni illusione di risultato per restituire, qualora se ne fosse capaci, una visione, per quanto precaria, di teatro-mondo.

Per questo desidero lasciarmi trasportare dal flusso delle immagini non più opposta al logos, stabilirmi in quella regione dove, come dice Lessing: «la ragione ritira la sua guardia dalla porta e le idee irrompono alla rinfusa». L’opacità dell’opera d’arte non deve entrare in conflitto con la supposta chiarezza dello scritto. L’arte, soprattutto quella dei corpi, è ambigua ed equivoca proprio perché moltiplica i possibili significanti e così dovrebbe restituirla una recensione. E questo non vuol dire votarsi all’inintelligibile, ma saper suscitare con le proprie emozioni quelle altrui, significa saper evocare immagine da immagine senza pretendere di riferire, educare o, peggio ancora, spiegare qualcosa a qualcuno.

La critica non ha niente a che vedere con l’informazione. È l’opposto complementare dell’arte. Non la rispecchia, non la descrive, non la risolve, la problematizza, la rende un oggetto su cui riflettere e nel farlo stimola a conoscerla, a frequentarla, o osservarla traendone piacere o disgusto, attrazione o repulsione e questo senza descrivere o illustrare il semplice atto d’esecuzione, bensì suscitando le possibili implicazioni che quello strano rito ci propone sempre nuovo e sempre uguale da migliaia di anni.

Finirla con la critica diventa così non un gesto definitivo e personale, ma un atto pubblico. Provare a cambiare i modi attraverso cui raccontare un’opera d’arte di teatro, con la certezza quasi matematica di fallire nell’intento, ma tentare infischiandosene delle regole e delle leggi non scritte. Visto che la critica non è un lavoro, ma una passione che si esercita nella volontà, che sia per lo meno divertente, gioiosa, libera di cercare strade impervie e stimolanti. Per combattere l’avvilimento non resta che ritrovare il desiderio spasmodicamente, senza compromessi, senza curarsi delle conseguenze, dei pareri, dei giudizi, dei consigli perché tanto, come cantavano i CCCP: “verranno al contrattacco, ma intanto adesso…”

Lo specchio di Dioniso: Carmelo Bene secondo Clemente Tafuri

Durante l’edizione 2024 di Testimonianze, ricerca, azioni, il festival di Teatro Akropolis in quel di Genova, è stato proiettato l’ultimo traguardo del viaggio di Clemente Tafuri nella parte maledetta del teatro. Un lungo pellegrinaggio alle radici dell’arte scenica che ha illuminato le figure di Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini, e ora in quest’ultima stazione dedicata a Carmelo Bene, ci conduce in una terra nebbiosa, mitica e ancestrale, dove mirabili miraggi prendono corpo dal fumo che nasconde gli scogli pericolosi che ci attendono dietro e al di là della meraviglia.

Carmelo Bene si rifrange in infiniti specchi, e viene riflesso dal suo teatro. Come Rinaldo e Armida, dove la maga si specchia nella propria immagine e il guerriero cristiano, ormai dimentico dei suoi eroismi, viene riflesso dall’occhio della donna. Ma chi regge lo specchio? “ella del vetro a sé fa specchio, ed egli / gli occhi di lei sereni a sé fa spegli” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 7-8). Parrebbe che sia Rinaldo, sottomesso ad Armida, ma in una stampa del 1628 è la stessa Armida a reggere lo specchio mentre i due amanti sono avvinti in un intreccio di corpi e di sguardi. L’importante è che entrambi “mirano in vari oggetti un solo oggetto” (Gerusalemme Liberata XVI, 20, 6).

Nel mondo barocco, così vicino al quel Sud del Sud dei santi che tanto amava Carmelo Bene, lo specchio è metafora ricchissima della realtà scissa in immagine. Pensiamo agli specchi di Velasquez e di Vermeer: chi riflettono? Personaggi immaginari o noi pubblico attirati, come Alice nella tana del Bianconiglio, da questo precipitare di immagini riflesse. E non è di questo che si parla se si allude al teatro e non allo spettacolo?

Infatti lo specchio pertiene al dio della scena, al fanciullo Dioniso, prima che venisse fatto a pezzi dai Titani. Come racconta Carlo Sini, la storia dello specchio di Dioniso, ha molteplici significati. Il Dio-fanciullo, unico e indiviso, si specchia nel molteplice e, ammaliato dalle immagini, resta indifeso, vittima dei Titani, simboli dei desideri e degli appetiti, che lo sbranano in mille pezzi. L’uno si frantuma nel molteplice, Vi è una ulteriore accezione, più nascosta, che riguarda il mistero della conoscenza: lo specchio è il mondo racchiuso in un immagine, lo specchio è lo strumento che permette allo sguardo di vedere, ma soprattutto di ricordare. Lo dice Carmelo in uno stralcio di intervista: la conoscenza è sempre un rammentare.

Carlo Sini però ci parla di un terzo e più profondo significato: Dioniso vede nello specchio i Titani, vede le spade sguainate, e non si sottrae all’atto violento. Si lascia smembrare, perché solo nel frangersi in mille pezzi come uno specchio, può tornare unito. E questo atto di sacrificio è comune a Carmelo Bene, ben colto da Clemente Tafuri. Carmelo si è lasciato fare a pezzi dalle proprie immagini, si è abbandonato alla frammentazione nei tanti Amleto, Pinocchio, Otello, Lorenzaccio, etc. E questo farsi a pezzi, questo scomparire nel molteplice abbandonando l’ego, era sacrificio necessario per far apparire il teatro, arte che, vien più volte ricordato agli smemorati contemporanei, non ha mai a che fare con la letteratura e la storia, perché queste fanno famiglia con la rappresentazione e non con la conoscenza.

Per essere come Dioniso nello specchio, bisogna abbandonarsi, farsi ammaliare e perdersi come Rinaldo, dimenticare la propria identità. Bisogna insomma “complicarsi la vita” per usare le parole di Carmelo. Bisogna vaneggiare per non rappresentare. Bisogna dire senza riferire. Un mantico e maniaco delirare che “restituisca l’aria al suo vento insensato”. Questo per Carmelo Bene era il teatro.

E quanto è necessario oggi ricordare le sue parole, oggi dove tutto è racconto, dove si è obbligati a riferire schiavizzati dall’essere comprensibili a tutti i costi, invece di scegliere d’essere evocativi. Il significato è protagonista e non la selva dei significanti. Bisogna raccontare per filo e per segno, essere didascalici, spiegare tutto bene, quando non ci sarebbe nulla da spiegare. E tutto questo perché ci siamo dimenticati di cosa sia il teatro secondo Carmelo Bene: un non luogo in cui, a volte, si dà il miracolo dell’apparizione. Un non luogo che non ha tempo né spazio, come lo specchio di Dioniso.

Alla fine degli anni ’80, in una lunga intervista con Richard Kostellanetz, John Cage raccontò queste storielle Zen: Quando giunse il momento di scegliere il sesto patriarca del buddismo Zen, il quinto patriarca organizzò una gara di poesia in cui ognuno avrebbe dovuto esprimere la propria comprensione dell’illuminazione.
Il monaco più anziano nel monastero disse: “La mente è come uno specchio. Raccoglie polvere e il problema è rimuoverla”. C’era un giovane in cucina, Hui-Neng, che non sapeva né leggere né scrivere, ma al quale fu letta tale poesia e disse: “Oh, potrei scrivere una poesia migliore di questa, ma non so scrivere”. Allora gli domandarono di dirla e lui lo fece. La scrissero e diceva: “Dov’è lo specchio? Dov’è la polvere?”. Fu così che diventò il sesto patriarca. Qualche secolo più avanti in Giappone c’era un monaco che faceva sempre il bagno. Un giovane studente gli chiese: “Se non c’è polvere, perché fai sempre il bagno?” E l’anziano monaco rispose: “È solo un tuffo, nessun perché.” Carmelo Bene, avrebbe risposto, è la mia vanità.

Ovviamente qualcuno potrebbe dire, leggendo queste mie righe, che non ho parlato molto del film. La verità è che, come ogni forma di grande teatro o grande arte, non c’è racconto che possa restituirlo. Carmelo Bene diceva: non si dovrebbe dare un attore che riferisce e, chi scrive, lo pensa del critico. Se posso darti lettore solo il riassunto di ciò che ho visto ti farei perdere tempo. Per usare le parole di Carmelo Bene: “lo spettatore dovrebbe non poter mai riuscire a raccontare quel che ha udito”. Se ho fatto bene il mio lavoro, lettore, ti ho fatto venir voglia di vedere questo strano specchio di Dioniso.

Per questo ho parlato di specchi di cui il film è ennesima immagine, uno specchio esso stesso, dove possiamo vedere un mondo e un teatro di cui tutti ci siamo dimenticati.

La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro: Carmelo Bene – Durata 54’circa

Regia: Clemente Tafuri | Con: Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi | Fotografia e montaggio: Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi | Riprese e audio: Luca Donatiello, Alessandro Romi | Produzione: Teatro AkropolisAkropolisLibri

Anna Ghiaccio di Rita Frongia: del sublime e del tremendo

Danae Festival, in coproduzione con Drama Teatro di Modena, ha ospitato a Zona K a Milano la prima nazionale di Anna Ghiaccio di Rita Frongia. La regista-drammaturga sarda è nuovamente ospite della rassegna milanese dopo aver presentato l’anno scorso il dittico Etoile.

Anna Ghiaccio ha molto in comune con quei pezzi brevi. Etoile presentava un interessante filone di ricerca drammaturgica: l’indagine su una drammaturgia non solo condivisa con l’interprete (Stefano Vercelli in un caso, Teri Weigel nel secondo), ma su una scrittura che si fa corpo manifestandolo come testo fisico.

Anna Ghiaccio, interpretata da Isadora Angelini, direttrice e fondatrice insieme a Luca Serrani del Teatro Patalò, produce una nuova variante scenica di quella ricerca. Se infatti Etoile si concentrava sulla danza in cui curiosamente un attore si affidava totalmente al gesto rinunciando alla parola e una danzatrice che, al contrario, cercava di far emergere il verbo dal movimento, in Anna Ghiaccio la protagonista diventa la voce.

Non fraintendetemi: il corpo è sempre il principale compositore della partitura drammaturgica, ma in questo pezzo è la voce che disegna le melodie, i toni, le dinamiche, le emozioni di un percorso narrativo. Il testo si costruisce infatti su un abile intreccio di note canzoni d’amore da Amandoti dei CCCP, a Ma che freddo fa di Nada, a La costruzione di un amore di Mia Martini (e altre). Non si tratta del bel canto, di uno sfoggio della voce, ma di trarre dall’espressione vocale tutte le gradazioni di dolore, vuoto, abbandono, frustrazione, tradimento, cinismo in grado di dare a questa madre che ha perso un figlio uno spessore e una consistenza emotiva che conduca lo spettatore nella terra ghiacciata in cui l’umano è soppresso o, quanto meno, congelato. La domanda che affligge Rita Frongia si rende concreta ed evidente attraverso la voce che si fa carne di Isadora Angelini: cosa è accaduto alla nostra capacità di essere umani?

Anna ghiaccio ha perso un figlio. Non lo dice subito. Parla di amore perso, di una vita consacrata a questo sentimento che a un certo punto entra in crisi. La protagonista ha così deciso di abitare un deserto gelido. Anna presenta la sua maschera: spietata e algida di donna che ora preferisce la farfalle inchiodate in un album, le coccinelle private delle loro ali, i cani senza corde vocali, i gattini dentro un sacco di plastica. È una posa, lo si capisce. Nel farci ridere delle sue ciniche follie, Anna ci convince sempre più che il suo amore è vivo e dolente. Ma che tipo di amore, e per chi, è ancora tutto da capire.

Gradualmente veniamo a scoprire che si tratta del figlio. Un figlio dotato in ogni arte ma che ha rifiutato i suoi talenti. Li ha abbandonati e, così facendo ha frustrato le aspettative di una madre orgogliosa e vanitosa. Resta un’ultima impresa. Scalare insieme il massiccio del Kukuràke senza ossigeno. E qui capita la disgrazia. Non ci sono testimoni se non Anna e noi dobbiamo capire cosa è accaduto dal suo racconto. Si insinua il dubbio che lei abbia parte in questo incidente, ma forse le cose sono un poco più allegoriche. Il figlio che si dissolve nella neve forse ha semplicemente abbandonato sua madre e i suoi desideri di gloria. Forse ha cercato la sua strada. Certo da quel momento Anna si è trasformata in una regina di ghiaccio, abitante solitaria delle nevi.

Il finale, uno dei più difficili che abbia visto per un attore, ci lascia con le nostre domande e con un certo disagio nell’animo. Anna ghiaccio si dissolve nel buio, svanisce come il figlio davanti ai nostri occhi con un’espressione nel viso e nel corpo di tale desolazione, vuoto, dolore da rimanere folgorati. Il viso è come spezzato, infranto, gli occhi immobili congelati in una accorata richiesta d’aiuto e di senso, il corpo desolato, abbandonato. Sembra non esserci consolazione per Anna, e forse anche per noi che abbiamo abbandonato ogni sentimento ed empatia verso l’altro. Si rimane così per qualche istante, un tempo lunghissimo seppur breve, a condividere quelle sensazioni terribili, per poi tornare come sempre a noi stessi, alle nostre scuse e alle storie che ci siamo inventati per sopravvivere alle nostre miserie.

In quest’ultima immagine vi è tutta la sublime bellezza di questo spettacolo. Sublime nel senso che ci fa prendere contatto con il tremendo. Come nella tragedia attica. E sublime anche perché ci ha fatto testimoni di una grande prova d’attrice, della sapienza antica del teatro che con la danza del corpo e della voce ci rende manifesta la nostra intima natura e, da ultimo, ci fa ridere nel pianto. Dal teatro non si può chiedere di meglio.

Fear of the dark: Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis

Torinodanza e Festival delle colline torinesi 29 hanno ospitato in una serata condivisa, Lapis Lazuli di Euripides Laskaridis, l’artista greco capace di sorprendere sempre il pubblico con la sua effervescente immaginazione.

Lapis Lazuli potrebbe incominciare con il classico “c’era una volta” delle favole e come ogni fiaba che si rispetti veniamo precipitati, come Alice, in un mondo delle meraviglie venato di oscurità. Gli attori entrano con le maschere alzate quando le luci di sala sono ancora accese ma improvvisamente, come cantano gli Iron Maiden in Fear of the dark, quando queste cominciano a cambiare si comincia ad avvertire qualcosa di strano e veniamo presi da una piccola ansia. Siamo in un sogno, come in Inception, e come nel film non abbiamo il completo controllo dell’inconscio altrui.

Le maschere a forma di sole dei cinque personaggi sulla scena, si tramutano in mostri. Un lupo mannaro, un demonio, un dottore che pare Jason di Venerdì 13. Queste creature inquietanti sono però anche simpatiche. Ci fanno sorridere per le loro stranezze, con le vocine acute o ringhi bestiali. Sembrano innocue dopotutto. Lo spazio diventa una foresta incantata illuminata da una luna di gommapiuma più simile a una grande focaccia in una teglia che a un astro del cielo. Pochi rami d’albero finto, dei bastoni con dei guanti gonfiati per simulare degli strani uccelli in volo, un poco di fumo, ed ecco lo scenario per la fuga di una fanciulla dal lupo mannaro. Tutto fa pensare a un penny dreadful, uno di quei romanzetti dell’orrore che andavano tanto di moda nell’Inghilterra vittoriana, o a un episodio di Once upon a time.

Ma Euripides Laskaridis non è un artista a cui piace accomodarsi su un binario unico che porti lo spettatore a un finale facilmente intuibile. La foresta si tramuta senza alcuna logica in uno studio psichiatrico dove una bara piena di paglia sostituisce il lettino. Il lupo mannaro non riesce a fare i patti con la sua natura perennemente scissa tra l’umano e il bestiale. Ha bisogno di conforto, ma questo dottore è più interessato a torturarlo e tentarlo con gli uccellini di gomma che inevitabilmente finiscono tra le fauci del lupo spandendo piumette sulla scena. Si cambia ancora, siamo nella casa della fanciulla, insidiata dal lupo mannaro, ma non illudiamoci che tutto sia scontato, sarà il mostro ad aver paura della fanciulla.

Le scene si susseguono così come le atmosfere. Si evoca Melies quando al lupo si porta la luna piena come fosse un torta di compleanno su cui campeggia una candela storta e mal funzionante. Si cita il David Lynch di Twin Peaks, con quel sipario rosso sullo sfondo, la canzone melensa e quelle due maschere che danzano affiancate. Laskaridis come un funambolo fa il giocoliere sulla corda facendo roteare davanti a noi immagini e sensazioni. Ci fa sorridere, ma lasciandoci la certezza che tutta questa bellezza in realtà parli di una natura oscura infissa nel profondo dell’animo nostro. Una natura indigesta che spinge il lupo mannaro a vomitare davanti a noi tutti gli oggetti di scena.

Dietro a quel sipario rosso sul fondo ecco apparire una pietra azzurra. Luminosa, splendente. E il lapislazzuli, magica pietra le cui polveri diventavano il colore azzurro sui manti di Maria nelle sacre icone o nelle pale d’altare. Una pietra preziosa per i gioielli che decoravano orecchini, anelli, e collane, pietra che indicava la purezza dell’anima della donna che li portava. Simbolo di saggezza e verità la pietra si credeva avesse un effetto calmante per la mente e il cuore. È il nume tutelare dello spettacolo, un esorcismo contro le inquiete sensazioni che si agitano dietro i nostri sorrisi.

Ma ecco sulla scena un momento di avanspettacolo. Deformi uomini primitivi con gonnellini di paglia danzano mentre un imbonitore da fiera sul un palchetto improvvisato e tra le luci e le musiche sgozza dei buffi animaletti, un porcellino, una capretta, dal cui corpo non sprizza sangue ma denari finti come monete di cioccolata. É un sacrificio necessario ci rassicura. Ma poi le luci cambiano, da uno scatolone emerge un grande cavalluccio marino e ci avviamo verso il finale. Il lupo mannaro e i suoi amici inquietanti ci invitano a riflettere su quanto è stato evocato: «Surrealismo? Sì! Stravaganza? Sì!». Ma avvertono «It’s a beautiful, beautiful show, in a difficult, difficult life».

Lo spettacolo, per quanto fantasioso, godibile, divertente, inquietante non è la vita. La rappresenta, ci permette di comprenderla, metabolizzarla. Come il sogno è una valvola di scarico, una lavatrice entro cui le immagini diurne vengono miscelate e riproposte con un senso più profondo e più vero.

Euripides Laskaridis ci propone un’arte colta e diretta, commistione perfetta di cultura alta e bassa (sempre che questa distinzione abbia ancora un significato), un nuovo teatro popolare perché rivolto a chiunque, dove non è necessario comprendere, basta farsi coinvolgere e lasciar agire l’inconscio. Le immagini che ci propone rimarranno impresse nel nostro animo agendo come un farmaco a lento rilascio. Euripides Laskaridis si presenta come un novello sciamano, un trickster capace di esorcizzare l’oscurità e tramutarla in luce, un imbroglione promotore della verità. Nelle sue magie, nei suoi trucchetti di scena, fa emergere il sale della vita e ci fa assaporare il potere curativo della fantasia.

Salomè balla da sola: madalena reversa al Festival delle colline torinesi 29

C’è stato un tempo in cui Salomè era un personaggio pericoloso. Da quando Oscar Wilde nel 1891 pubblicò il testo, sul corpo della principessa di Giudea si addensarono fosche nubi e rosee speranze. Per il mondo maschile si incarnavano nella sua figura tutte le ansie nei confronti della nascente Nuova Donna, ben lontana dallo stereotipo dell’angelo del focolare, una donna disobbediente, di prorompente sensualità, capace con la sua danza lasciva di far crollare i regni. Huysmann la definiva “dea dell’immortale isteria”. Per le donne, quelle che agognavano maggiori diritti, rappresentava invece la capacità di autodeterminarsi e la libertà nei costumi sessuali. La ballerina o l’attrice che impersonava Salomè sulla scena si trovava al centro di questo acceso dibattito, simbolo di minaccia alla stabilità sociale per gli uomini, paladina di libertà per le donne, soprattutto per le suffragiste. Intorno a Salomè si costruirono o vennero distrutte intere carriere.

La prima a doverla impersonare fu la divina Sarah Bernhardt, all’età di cinquant’anni, ma le prove vennero interrotte a causa del processo a Oscar Wilde che fu la prima vittima del caso Salomè. Interi brani del testo vennero letti durante il procedimento penale per dimostrare la perversione dello scrittore che fu per questo condannato a due anni di detenzione e rovinato nella reputazione. Non si riprenderà mai dall’esperienza del carcere e morì in povertà pochi anni dopo. La sua carriera fu stroncata e la principessa di Giudea bandita dalle scene inglesi fino al 1932.

Fuori dai confini inglesi invece il successo di Salomè crebbe a vista d’occhio. Non vi fu diva, danzatrice o attrice, che non si provò nella parte. Scoppiò quella che fu chiamata Salomania. La prima fu Loïe Fuller nel 1895 in una versione castigata nel costume e riabilitante nelle intenzioni. Salomè era una vittima del desiderio di Erode. Scalpore fece Ida Rubinstein che a Pietroburgo danzò quasi nuda, così come Aida Walker che nel 1908 fu la prima danzatrice afroamericana a interpretare il ruolo sconvolgendo lo stereotipo che un personaggio di razza bianca non potesse essere assunto da un’artista di colore. Salomè sbarcò perfino in Giappone nel 1914 dove Sada Yacco e Sumako Matsui ne proposero due versioni contrastanti. Sada fece una versione elegante ma molto criticata. Il pubblico non gradì il costume poco sensuale che velava l’intero corpo, ma soprattutto rimproverò alla diva la sua età. Non si poteva interpretare una giovane principessa all’età di quarantacinque anni. E pensare che la Bernhardt avrebbe dovuto recitare la parte a cinquanta. Sumako invece mostrò molto del suo corpo formoso e incontrò il plauso di pubblico e critica.

Chi pagò il prezzo più alto fu Maud Allan, la cui Vision of Salomè, scandalizzò tutta Londra, non solo perché era quasi svestita ma perché osò danzare a piedi nudi, un vero tabù sessuale dell’epoca. Ma ciò che fece infuriare i partiti di estrema destra fu l’intenzione di mettere in scena il testo di Wilde e scatenarono contro di lei una campagna diffamatoria che portò nel 1918 al clamoroso processo Perberton-Billings, dal nome del deputato che accusò la Allan di alto tradimento. La tesi di Pemberton-Billings, quanto mai fantasiosa, era che la Allan diffondesse idee perverse volte a indebolire lo spirito della gioventù e il fronte interno britannico. Il fatto poi che la Allan fosse lesbica era motivo di ulteriore riprovazione. Ancora una volta venne letta in tribunale la Salomè di Wilde e ancora una volta la sentenza puniva l’artista. La carriera della Allan fu distrutta.

Mata Hari, che non interpretò mai Salomè sulle scene nonostante avesse scritto accorate lettere a Strauss per ottenere la parte, essendo ballerina e sospetta spia, incarnò Salomè nella vita come colei che seduceva gli uomini e minava la stabilità dello stato in tempo di guerra, e venne per questo fucilata. Niente dagli atti processuali dimostra che fosse altro che un’avventuriera improvvida e sconsiderata alla ricerca di denaro per scappare con il suo giovane amante, ma nonostante questo passò alla storia come la spia per antonomasia.

Questo lungo preambolo non è uno sfoggio di conoscenza ma la necessaria premessa a una riflessione sulla Salomè seconda creazione di madalena reversa (gruppo costituito da Maria Alterno e Richard Pareschi). Fin dal foyer della Lavanderia a vapore si diffonde una fitta nebbia. Si fatica a mettere a fuoco persone e cose. Quando calano le luci la nebbia si inspessisce e vediamo Salomè (in scena Gloria Dorliguzzo) muoversi solitaria sul palco, fiocamente illuminata come sotto un lampione in una strada buia d’autunno torinese. Uno schermo ci rimanda alcune frase e domande che riguardano l’assenza degli dei, la loro morte nel nostro presente. Madalena reversa riflettono infatti sullo Spirito del nostro Tempo. Un tempo buio, dove è difficile scorgere figure significanti nella nebbia.

La Salomè che danza fatica a mantenere l’equilibrio, cammina incerta, si muove a scatti, come una sonnambula (sempre Huysmann scriveva: «pari a una sonnambula […] eletta fra tutte le catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli»). Salomè, benché privata della capacità seduttiva e della sensualità animalesca, rimane una creatura della notte. Non è più menade o sacerdotessa della luna, non possiede l’irriverenza spiritosa che le conferisce Laforgue, non sembra nemmeno una strega. Pare più un essere sofferente, sperduto nella foschia, alla ricerca di un occhio che la possa guardare e restituirle il potere di far tremare i polsi e battere il cuore.

Salomè balla da sola, non c’è Erode e il suo desiderio, a meno che non si supponga sia pubblico o il grande monolite sullo sfondo. Non c’è un capitano Narraboth che possa cadere preda della sua malia. Non c’è nemmeno un Giovanni da decollare. La solitaria danzatrice balla in un mondo sonoro elettronico e postindustriale vuoto di presenze umane e spirituali. È come se avesse perso il suo potere di mettere in discussione lo status quo e ne sia diventata piuttosto l’immagine. I madalena reversa scrivono infatti che Salomè: «si fa specchio, superficie liquida da percepire attraverso l’aura che produce».

Povera Salomè! Non più oggetto di strali e invettive, non più simbolo di liberazione e disobbedienza, non più simbolo di sensualità prorompente e pericolosa, ma solo della decadenza dei tempo. Un essere sperduto nel buio nebbioso in cerca di sé e degli altri una creatura di cui provare pietà e compassione. Salomè pare un mito che abbia perso tutto il suo smalto, come gli antichi dei di American Gods di Neil Gaiman. Di lei dicono nel programma di sala che: «si insinua nell’autoreferenzialità e nell’egotismo, nel materialismo del desiderio, nell’ultraviolenza e nel nichilismo estremo che abitano il nostro Presente». Eppure è ancora forte oggi, nel nostro tempo, il pregiudizio della donna che seduce i politici e destabilizza l’ordine sociale. Lo vediamo negli scandaletti quotidiani dove il politico maschio di turno cade preda di una donna senza scrupoli che lo accalappia con la sua sensualità. Mai che sia il maschio il seduttore, quello che mette in crisi le istituzioni con i suoi comportamenti sconsiderati. Salomè avrebbe ancora molto da dire oggi. Potrebbe ancora gridare al mondo la sua disobbedienza a quel re che la desidera quando non dovrebbe, a quei poeti che hanno visto in lei solo una sentina di vizi, a coloro che giudicano il suo desiderio come immorale. Salomè dovrebbe ritrovare fiducia in se stessa, rifiutarsi di essere simbolo delle idee degli altri e uscire dalla nebbia in tutto il suo splendore.

I Cenci di Piccola Compagnia della Magnolia: l’eterno ritorno della crudeltà

Quando nel maggio del 1935 Artaud dichiarava in un articolo su la Bête Noir che «I Cenci non sono ancora il Teatro della Crudeltà, ma lo preparano» sottovalutava o forse faceva finta di ignorare, la prima rappresentazione della tragedia dei Cenci. Parliamo del processo all’intera famiglia Cenci sopravvissuta a Francesco, padre dal cuore di tenebra, e culminata con l’esecuzione pubblica l’11 settembre 1599. Il processo e il martirio di Beatrice e dei suoi familiari furono un immondo teatro messo in scena dal papato, che ignorò le richieste di aiuto più volte inoltrate a Sua Santità Clemente VIII, e poi negò grazia e comprensione per incamerare dal fattaccio di cronaca le larghe ricchezze e i feudi dei Cenci. L’esito di quella tragedia funesta era atteso e previsto in ogni passo, e non restava che dirigere il giudizio verso un esito favorevole al soglio di Pietro. Beatrice, la matrigna Lucrezia, insieme ai fratelli, non avevano via di scampo, come nella tragedia attica, dove l’eroe nulla può contro il destino sancito dalle Moire. A quell’ennesimo oltraggio al corpo e all’anima di Beatrice Cenci, figlia violentata, abusata e divenuta parricida per sfuggire al suo destino di vittima, assistettero Caravaggio e la piccola Artemisia Gentileschi, a sua volta violata e vilipesa, da Agostino Tassi. Artemisia, al contrario di Beatrice, ottenne parziale giustizia, per quanto se ne potesse ottenere al tempo, e decollato fu il Tassi, anche se in effige, nella sua Giuditta e Oloferne del 1612.

Piccola Compagnia della Magnolia non solo mette a confronto quel crudele teatro dell’orrore familiare con il Teatro della Crudeltà artaudiano e con le numerose fonti letterarie dagli atti del processo a Stendhal e Shelley ma, con il sottotitolo Rinascimento contemporaneo, anche con il nostro presente. Ancor oggi il corpo di Beatrice è, in figura, il campo di battaglia dove spadroneggia lo spirito tirannico della volontà di dominio del padre. Ancor oggi il corpo è la merce venduta e sfruttata dal potere politico ed economico.

Cenci è un’opera crudele e non perché faccia aleggiare tra le scene lo spirito di Antonin Artaud, più volte evocato dal matto Antonino interpretato ottimamente da Davide Giglio, ma perché rappresenta la sempiterna circolarità della violenza familiare che unisce il presente con quel non troppo lontano passato.

Artaud è sempre presente in tutta l’opera: nei suoni, nelle maschere del carnevale romano che richiamano le marionette previste nella prima rappresentazione alle Folies Wagram, nella violenza onnipresente ma mai concretizzata come un fulmine pronto a scaricarsi sulla terra e solo percepibile nell’aria densa di quegli ambienti polverosi e rossastri come una vecchia fotografia.

La riscrittura di Giorgia Cerruti, in scena nella parte della matrigna Lucrezia, è sapiente nel creare un mosaico delle fonti. E questo fin dal principio dove le parole di Stendhal ci accompagnano in una passeggiata romana da Villa Pamphili, fino al Gianicolo e che termina sulla tomba di Beatrice nella Chiesa di San Pietro in Montorio. La noia esistenziale di Camus, quella che porta Meursault, ne Lo Straniero, a uccidere “per colpa del sole” e quella del romanzo omonimo di Moravia danno corpo alle ansie nefaste e distruttive del conte Cenci, interpretato da un inconsueto ma magistrale Francesco Pennacchia, le parole di Virginie Despentes voce alle paure di Beatrice, interpretata dall’ottima Francesca Ziggiotti, attrice capace di prestarle un’anima viva, toccante, persino delicata nella tempesta di sentimenti che la attanagliano.

Cenci è una prova d’attore estremamente complessa. Bisogna saper far emergere le intricate e, a volte, inspiegabili motivazioni che spingono questa famiglia alla distruzione, e tutto questo senza indulgere nei toni forti, marcati, ricorrendo alla delicatezza, persino alla forza del sussurro. Nello stesso tempo occorre far intuire allo spettatore le mire rapaci del papato che volutamente ignora le richieste di aiuto di Beatrice e Giacomo. In ogni attimo si respira un’atmosfera claustrofobica, pregna di delitto commesso, subito, ideato, nascosto, sperato. Come in Macbeth si corre verso il baratro dall’inizio alla fine. Si precipita nel vuoto accelerando fino allo schianto. Bisogna aver grandi capaci interpretative, di controllo del corpo, della voce e delle energie, per non farsi prendere dalla frenesia, dall’urlo, dalla smania di muoversi. La pausa e il silenzio sembrano innaturali e per questo sono di maggior impatto, perché aumentano la forza dello scontro. Come in una tempesta, più le nubi diventano scure e pesanti di pioggia, più i venti paiono trattenere il respiro, maggiore è la furia che si scatenerà.

Cenci è divisa idealmente in due atti. Il primo di poco più di un’ora ci mostra una giornata in casa Cenci. La ferocia del padre generata dalla noia e dall’onnipotenza garantitagli dal ruolo e dall’ordinamento sociale, la pavida voluta inconsapevolezza della moglie Lucrezia, l’impotente volontà di ribellione e di protezione di Beatrice, il cinico tradimento di Orsino che rigetta l’amore per la ricchezza e il potere. E poi c’è il matto Antonino, una presenza inquietante, quella della follia sapiente, che nei suo vaneggiamento arriva a proferire le parole del vero Antonin Artaud quello che invoca la fine del giudizio di Dio e concretizza la maledizione di un pensiero che guarda sempre in alto in cerca di approvazione. Il secondo atto è invece molto veloce. Poco più di un quarto d’ora in cui si ripercorre il processo, il supplizio e l’esecuzione di Beatrice e degli altri congiurati dai documenti processuali. I due atti rappresentano la parte privata e pubblica di questa tragedia familiare. Ciò che avviene nelle mura della fortezza di Petrella e ciò che si mette in scena per l’occhio del pubblico, che emotivamente parteggiava per la povera Beatrice. Sono i due aspetti della manifestazione della violenza del potere.

Cenci di Piccola Compagnia della Magnolia è un’opera da vedere assolutamente. E non solo perché un’ottima prova d’attore e una regia curata nei minimi particolari, dal disegno sonoro, ai tagli di luce che, come nei dipinti di Caravaggio, fanno emergere la luce dall’oscurità, ai costumi curati ed essenziali da Serena Trevisi Marceddu. Cenci ci ricorda come il teatro possa essere un farmaco. Al contrario dell’esibizione quotidiana dell’orrore che riempie ormai ogni minuto della nostra giornata, l’arte della scena ci mette a confronto con la natura stessa della violenza, facendoci riflettere sulle possibili alternative. Non è spettacolo di cui sadicamente godere, ma pensiero in azione, un pensiero in grado forse di farci vergognare e costringerci a cambiare.

Cenci. Rinascimento contemporaneo | Festival delle colline torinesi 29

Visto al Teatro Gobetti di Torino il 17 ottobre 2024