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Asja Lācis: ingegnere dell’avanguardia, Arianna nel labirinto

|ENRICO PASTORE

La vita e l’opera di Asja Lācis (1891-1979) benché poco conosciuta, non si può dire sia stata dimenticata. Dal 1968, anno della sua riscoperta, momento chiave per la rinascita delle utopie rivoluzionarie e comunitarie anticapitaliste, si può dire sia iniziata la sua graduale riscoperta. Eppure Asia Lācis è stata vittima di gravi omissioni, soprattutto dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno in primis) che provarono a rimuoverne le tracce soprattutto rispetto all’amicizia e all’influenza di Asja nei confronti di Walter Benjamin, cancellando dediche e la sua firma negli articoli scritti a quattro mani (per esempio Napoli del 1925 apparso sulla Franfürter Zeitung).

Non solo. Il suo nome e la sua opera vennero rimossi, in senso psicologico del termine, proprio con la fine della stagione che va dal 1968 al 1977 ossia con la fine della seconda ondata riformatrice e anticapitalistico. Dalla storia in genere, e da quella del teatro in particolare, si volle dimenticare tutta quella fervente stagione rivoluzionaria e utopistica che si manifestò tra gli anni ’20 e ’30 sull’asse Mosca-Berlino, arteria in gran parte costruita da Asja Lācis. Non è un caso che proprio Walter Benjamin usi questo termine nella dedica in Strada a senso unico: «Questa strada si chiama/ VIA ASJA LĀCIS/dal nome di colei che/DA INGEGNERE/ l’ha aperta dentro l’autore».

Per raccontare l’intera vita di questa donna straordinaria si dovrebbe, per essere ragionevolmente esaurienti, scrivere un libro corposo. In questa sede, breve per necessità, punteremo i riflettori su alcuni tratti fondamentali del suo agire artistico inscindibile dall’aspetto politico e pedagogico, che ne possano ricostruire, almeno parzialmente, le colonne di pensiero filosofico volto a sostenere l’arco del suo fare e pensare teatro.

Asja Lācis appartiene a quelle rare figure d’artista capaci di diventare scintilla da cui si dipartono innumerevoli fuochi, una stella attorno a cui vengono a gravitare miriadi di pianeti, lune e asteroidi a formare un labirintico sistema planetario. Ovunque ella abbia risieduto in vita (e i luoghi da lei frequentati sono legione in un nomadismo artistico continuo e infaticabile), – da Riga, San Pietroburgo e Orel, da Mosca a Berlino a Monaco di Baviera, e poi Capri e Napoli, Odessa, il Kazakistan e Valmiera, solo per citare i più importanti -, in ogni città Asja sia transitata è stata capace di trascinare come un fiume in piena chiunque entrasse nella sua orbita, sia in coloro attirati dal fascino ed entusiasmo da lei emanato sia in coloro che ne provavano antipatia.

Asja Lācis fu un tratto d’unione tra idee e personalità artistiche, promuovendo non solo la ricerca artistica ma il passaggio di conoscenza tra le due realtà teatralmente più fervide e irrequiete dell’epoca: la Germania e l’Unione Sovietica. Asja, allieva dei corsi Bestùzěv a Pietroburgo, (allora quasi gli unici corsi di livello universitario a cui una donna potesse accedere) e a Mosca dello studio teatrale di Fedor Komissaževskij (fratello di Vera, la Duse della Russia zarista), poté frequentare, con curiosità inestinguibile, tutto il meglio che il teatro russo d’avanguardia potesse offrire (soprattutto Mejerchol’d verso cui si professò sempre debitrice). Il suo apprendere non fu esclusivo: frequentò e conobbe i principali poeti e autori, prese parte alle riunioni sindacali dei lavoratori, si occupò di pedagogia prendendosi cura dei cosiddetti Besprisorniki, ossia gli orfani della Prima Guerra Mondiale e della susseguente Guerra Civile.

Tutto questo bagaglio di conoscenze venne travasato in Germania dove conobbe e collaborò con Brecht, Piscator, Fritz Lang, Toller, e infine Walter Benjamin. Non solo promosse l’amicizia tra quest’ultimo e Brecht ma anche quella con Tret’jakov. Favorì inoltre la conoscenza del cinema di Dziga Vertov in Germania tramite il celebre critico Krakauer. E nel suo ritornare in Russia, introdusse e agevolò la conoscenza del teatro rivoluzionario e proletario tedesco negli ambienti artistici sovietici, favorendo anche la venuta dei principali protagonisti (Asja era al fianco di Brecht durante la visita di Mei Lan Fang in URSS, e con Piscator a Odessa). Tradusse le drammaturgie sperimentali russe in Germania e scrisse un libro sul Teatro Proletario tedesco in Unione Sovietica. Asja Lācis è dunque un crocevia, è Arianna, signora del labirinto delle avanguardie artistiche di ispirazione comunista e agit-prop. Forse nel Novecento il solo John Cage condivide con Asja tali capacità attrattive e di congiunzione, questa capacità di infiammare e fecondare.

L’azione artistica di Asja non può e non deve essere scissa dalla visione politica che l’animò tutta la vita, persino nei periodi bui di carcerazione a Riga, o negli anni di confino in Kazakistan (il suo agire artistico fu spesso osteggiato sia dalle SA in Germania, sia dall’ortodossia in Unione Sovietica). Tale ferreo rigore lo apprese in primo luogo nello studio di Fedor Komissaževskij, il quale: «era convinto che il teatro non potesse esistere senza filosofia […] io ero d’accordo con lui sul fatto che l’arte deve essere presa sul serio e non può essere prodotta da persone prive di una visione del mondo». Tale ardore e intensità di pensiero fu alimentato da una volontà incrollabile già presente in giovanissima età quando lasciò la Lettonia: «per Pietroburgo con un fagotto e un rublo in tasca» e frequentò i corsi anche quando rincasando la sera: «sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo».

La sua visione estetico-politica emerge in maniera nitida e cristallina nell’attività che svolse con i ragazzi orfani, i Besprisorniki, azione messa a punto durante il suo primo incarico a Orel nel biennio 1918-1919. Anziché dirigere un teatro e dedicarsi all’attività registica, Asja si accorse che: «per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vivevano schiere di bambini abbandonati: i Besprisorniki». Asja decise di occuparsi di loro e visto che abitava un’antica e spaziosa casa, scenario di Nido di nobili di Turgènev, parlò del suo progetto con il responsabile dell’istruzione popolare Ivan Michail Čurin, il quale, entusiasta, appoggiò il progetto e approntò le necessarie modifiche allo stabile per accogliere i bambini.

Asja si accorse di non poter utilizzare con loro la prassi consueta al lavoro teatrale e decise, senza mezzi termini di cambiare strada e perseguire una metodologia altamente innovativa: «Quando si prova con i bambini un dato testo, si lavora fin dal principio per una meta precisa. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo, che era la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà artistiche e morali. Io volevo che il loro occhio vedesse meglio, che il loro orecchio udisse più finemente, che le loro mani facessero dal materiale informe oggetti utili».

A partire da questo assunto divise il lavoro con gli orfani in più sezioni: pittura, condotta dallo scenografo di Mejerchol’d Šestakòv, musica, educazione tecnica (costruzione di oggetti, costumi, maschere, scene) e infine ritmo, ginnastica, dizione e improvvisazione, al fine di raggiungere una forma artistica condivisa e collettiva.

L’improvvisazione era il centro nevralgico attraverso cui: «le forze latenti si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si sviluppavano si unificavano». Gli educatori non erano maestri ma osservatori, si ritiravano e lasciavano che i bambini stessi facessero naturalmente emergere le proprie attitudini. L’azione educativa si opponeva con decisione al principio capitalistico tendente a sviluppare un particolare talento: «l’educazione borghese stimola gli individui unilateralmente, Per dirla con Brecht: essa vuole “commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, l’apparizione davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando».

Soltanto quando i bambini sentivano la necessità di un incontro con un occhio esterno si favoriva un evento preceduto da una parata pubblica e un’apertura verso un pubblico formato da altri bambini, apertura sempre tendente verso la festa benché venisse stimolato il confronto dialettico tra il pubblico e gli esecutori. Tale confronto non era censorio o valutativo ma volto a una comune crescita, ma soprattutto era un teatro di bambini per bambini in cui l’educazione alla collettività e alla condivisione era il punto focale. Queste le parole di Benjamin in Teatro proletario di bambini: «le rappresentazioni non sono la meta vera propria dell’intenso lavoro collettivo […] Qui le rappresentazioni avvengono di passaggio, si potrebbe dire: per sbaglio, quasi come uno scherzo dei bambini, che interrompono per una volto lo studio per principio mai terminato». Si puntava, per dirla sempre con le parole di Benjamin: «non all’eternità dei prodotti, bensì all’attimo del gesto».

Il testo di Benjamin fu scritto nel 1928 per promuovere il progetto di Asja in Germania. Johannes Becher e Gerhard Eisler le proposero infatti di creare un teatro per bambini alla Karl-Liebknecht-Haus di Berlino. Per l’occasione il filosofo produsse un testo che in prima stesura (oggi perduta), risultò troppo ostico. Fu così che venne riscritto nel titolo oggi conosciuto Programma per un teatro proletario di bambini.

Nel 1927, dopo un periodo di malattia ed esaurimento nervoso, Asja Lācis, insieme a Nadežda Krupskaja, la vedova di Lenin, all’epoca alto funzionario del Narkompros, il Commissariato del popolo per l’istruzione, tornò ad occuparsi dei Besprisorniki. Questa volta creò un cinema per bambini diretto e promosso dai bambini: «Il famigerato mercato delle pulci: Sucharevka. Di giorni i bambini incustoditi del vicinato gironzolavano intorno e imparavano l’arte di commerciare, truffare e di guadagnare denaro; di notte vi istallavano il loro campo. Nelle vicinanze c’era un cinema-teatro molto grande, il Balkan, Era quello che ci voleva. Organizzare un cinema per bambini significava accettare la lotta contro lo “spirito” di Sucharevka».

Benché ci sia ancora molto da raccontare sulla vita di Asja Lācis, l’essenziale della sua visione del mondo è contenuta in questi due aspetti: creare relazioni e scambi di conoscenza, e smobilitare l’ossessione produttivistica e commerciale del capitalismo creando collettivi per bambini in cui l’educazione puntasse verso uno sviluppo completo della persona tramite una forma di insegnamento senza parole, basato sull’osservazione, la gestualità e l’improvvisazione teatrale. Il teatro è visto quindi come uno strumento di prassi filosofica, di pensiero in azione. E se i bambini furono i principali destinatari di questa innovativa metodologia pedagogica, essa fu declinata da Asja per i lavoratori dei Kolchoz, per le compagne detenute nel confino in Kazakistan, per gli operai delle fabbriche.

Asja Lācis volle cambiare il mondo e di certo vi riuscì. Lasciò tracce del suo passaggio in ogni animo, attrasse ed entusiasmò. Il suo caro amico Benjamin scrisse per lei le parole più belle: «lei poteva appunto uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo esser io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni». Peccato poi gli storici si siano preoccupati di nascondere quella miccia, sperando forse che nessuno se ne accorgesse. La miccia è sempre lì, in attesa di occhi pronti a detonare.

Giuseppe Muscarello

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GIUSEPPE MUSCARELLO

Questa settimana per Lo stato delle cose andiamo in Sicilia per incontrare Giuseppe Muscarello. Nel suo caso di si è fatta un’eccezione rispetto al range di età in quanto Giuseppe Muscarello, cinquantenne, riunisce in sé molte caratteristiche difficili da reperire in un’artista che ha deciso di operare nella danza in terra di Sicilia: coreografo, danzatore e direttore del Festival Conformazioni di Palermo. La sua visione sia da artista che da operatore è quindi così particolare da sembrarci necessario fareuna piccola eccezione.

Ricordiamo che Lo stato delle cose è un’indagine volta a conoscere il pensiero di artisti e operatori su alcuni temi fondamentali quali: condizioni basilari per la creazione, produzione, distribuzione, rapporto con il reale e funzioni della scena.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Quando sento la necessità di creare qualcosa da mettere in scena parto sempre da una mia esigenza. Immediatamente dopo però mi pongo il problema di come condividerla, quali sono le vie per la trasmissione e di come far fare allo spettatore l’esperienza, perché quest’ultima credo sia l’unica via possibile. Affinché una creazione scenica sia efficace deve riuscire anche nell’impresa di fidelizzazione del pubblico. Confido molto sul fatto che la danza sia una pratica concreta e che il corpo possa senza dubbio essere un oggetto artistico in grado trasmettere un’esperienza. Se posso sintetizzare su cosa sia la peculiarità della creazione scenica e la sua efficacia direi: il desiderio come motore per creare, darne forma e poi condividerlo. Non pretendere di andare in scena solo perché vogliamo che il pubblico ci restituisca il senso di quello che facciamo.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente? 

Questo è un argomento che mi tocca particolarmente. La mia generazione, parlo dei cinquantenni, è stata abbastanza sfortunata in tal senso, perché non ha avuto le opportunità che hanno ora i giovani, i cosiddetti under 35. Bisogna anche sottolineare come le risorse destinate al contemporaneo siano sproporzionate rispetto a quelle destinate ad altri settori dello spettacolo dal vivo, per non parlare poi dell’enorme somma destinata agli enti lirici, che sicuramente hanno esigenze altre rispetto ad una piccola compagnia ma che comunque nel loro insieme usufruiscono di più del 50% dell’intero FUS. Fatta questa premessa; è vero, gli strumenti produttivi sono cambiati e aumentati ma ho comunque la sensazione che ti venga sempre chiesto tantissimo in cambio di molto poco.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Credo molto nella funzione dei festival come motore dell’innovazione del sistema teatrale e coreografico. Da quattro anni dirigo Conformazioni, un festival di danza contemporanea a Palermo e con altri direttori artistici condivido e promuovo con forza l’idea che i festival italiani dovrebbero essere il fulcro della distribuzione dei lavori. La funzione dei festival dovrebbe essere quella di presentare artisti e opere ai vari programmatori cui è affido il compito di circuitarli capillarmente. Ma per fare ciò andrebbero potenziate le strutture aumentando le risorse economiche e questo sarebbe possibile se le istituzioni, dal ministero, alle regioni, ai comuni, riconoscessero questa centralità distributiva ai festival. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di creare una reale sinergia tra teatri come i nazionali o i tric e i festival, sinergia che potrebbe non solo favorire la distribuzione dei lavori, ma anche aiutarne la distribuzione nei processi di internazionalizzazione.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Trovo che il teatro, la danza, lo spettacolo dal vivo tutto, abbiano esattamente questa funzione, rivendichino con forza la loro irriproducibilità, chiamino lo spettatore alla presenza fisica del qui ed ora. Questa era ed è la loro funzione. Nello spettacolo dal vivo, che non si chiama così a caso, non è ammessa fissità. Questa è la sua forza e la sua debolezza insieme. Uno spettacolo teatrale raramente ci regalerà immagini che si imprimono nell’immaginario collettivo come alcune inquadrature di un film, così come un film non ci potrà dare l’emozione di sapere che quello che stiamo guardando è irripetibile. Ne “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, Walter Benjamin, già nel 1935, poneva la questione di come fosse cambiata la fruizione dell’arte dal momento che poteva essere riprodotta perdendo così la sua unicità (la fotografia, il cinema,ecc). Ecco, io credo che l’arte riproducibile e quella irriproducibile siano semplicemente due facce della moneta, entrambe necessarie.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Io credo che l’arte non possa e non debba essere scollegata dalla realtà. E’ semplicemente impossibile, perché questo accada gli artisti dovrebbero essere persone che non vivono nella realtà. E in particolare come potrebbero artisti che appunto si definiscono “contemporanei” non essere specchio della contemporaneità? Detto ciò, non credo che ci sia un solo modo possibile di confrontarsi con il reale e nemmeno che ci siano strumenti più validi di altri. Credo che ogni artista debba trovare la propria strada che può essere quella di Milo Rau che affronta la realtà nel suo senso più “politico”, utilizzando i mezzi del cinema/documentario o quella di Pina Bausch che si è confrontata con la realtà guardandola da un’angolazione più “personale” e intima, usando come mezzo centrale ovviamente il corpo.