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Asja Lācis: ingegnere dell’avanguardia, Arianna nel labirinto

|ENRICO PASTORE

La vita e l’opera di Asja Lācis (1891-1979) benché poco conosciuta, non si può dire sia stata dimenticata. Dal 1968, anno della sua riscoperta, momento chiave per la rinascita delle utopie rivoluzionarie e comunitarie anticapitaliste, si può dire sia iniziata la sua graduale riscoperta. Eppure Asia Lācis è stata vittima di gravi omissioni, soprattutto dagli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno in primis) che provarono a rimuoverne le tracce soprattutto rispetto all’amicizia e all’influenza di Asja nei confronti di Walter Benjamin, cancellando dediche e la sua firma negli articoli scritti a quattro mani (per esempio Napoli del 1925 apparso sulla Franfürter Zeitung).

Non solo. Il suo nome e la sua opera vennero rimossi, in senso psicologico del termine, proprio con la fine della stagione che va dal 1968 al 1977 ossia con la fine della seconda ondata riformatrice e anticapitalistico. Dalla storia in genere, e da quella del teatro in particolare, si volle dimenticare tutta quella fervente stagione rivoluzionaria e utopistica che si manifestò tra gli anni ’20 e ’30 sull’asse Mosca-Berlino, arteria in gran parte costruita da Asja Lācis. Non è un caso che proprio Walter Benjamin usi questo termine nella dedica in Strada a senso unico: «Questa strada si chiama/ VIA ASJA LĀCIS/dal nome di colei che/DA INGEGNERE/ l’ha aperta dentro l’autore».

Per raccontare l’intera vita di questa donna straordinaria si dovrebbe, per essere ragionevolmente esaurienti, scrivere un libro corposo. In questa sede, breve per necessità, punteremo i riflettori su alcuni tratti fondamentali del suo agire artistico inscindibile dall’aspetto politico e pedagogico, che ne possano ricostruire, almeno parzialmente, le colonne di pensiero filosofico volto a sostenere l’arco del suo fare e pensare teatro.

Asja Lācis appartiene a quelle rare figure d’artista capaci di diventare scintilla da cui si dipartono innumerevoli fuochi, una stella attorno a cui vengono a gravitare miriadi di pianeti, lune e asteroidi a formare un labirintico sistema planetario. Ovunque ella abbia risieduto in vita (e i luoghi da lei frequentati sono legione in un nomadismo artistico continuo e infaticabile), – da Riga, San Pietroburgo e Orel, da Mosca a Berlino a Monaco di Baviera, e poi Capri e Napoli, Odessa, il Kazakistan e Valmiera, solo per citare i più importanti -, in ogni città Asja sia transitata è stata capace di trascinare come un fiume in piena chiunque entrasse nella sua orbita, sia in coloro attirati dal fascino ed entusiasmo da lei emanato sia in coloro che ne provavano antipatia.

Asja Lācis fu un tratto d’unione tra idee e personalità artistiche, promuovendo non solo la ricerca artistica ma il passaggio di conoscenza tra le due realtà teatralmente più fervide e irrequiete dell’epoca: la Germania e l’Unione Sovietica. Asja, allieva dei corsi Bestùzěv a Pietroburgo, (allora quasi gli unici corsi di livello universitario a cui una donna potesse accedere) e a Mosca dello studio teatrale di Fedor Komissaževskij (fratello di Vera, la Duse della Russia zarista), poté frequentare, con curiosità inestinguibile, tutto il meglio che il teatro russo d’avanguardia potesse offrire (soprattutto Mejerchol’d verso cui si professò sempre debitrice). Il suo apprendere non fu esclusivo: frequentò e conobbe i principali poeti e autori, prese parte alle riunioni sindacali dei lavoratori, si occupò di pedagogia prendendosi cura dei cosiddetti Besprisorniki, ossia gli orfani della Prima Guerra Mondiale e della susseguente Guerra Civile.

Tutto questo bagaglio di conoscenze venne travasato in Germania dove conobbe e collaborò con Brecht, Piscator, Fritz Lang, Toller, e infine Walter Benjamin. Non solo promosse l’amicizia tra quest’ultimo e Brecht ma anche quella con Tret’jakov. Favorì inoltre la conoscenza del cinema di Dziga Vertov in Germania tramite il celebre critico Krakauer. E nel suo ritornare in Russia, introdusse e agevolò la conoscenza del teatro rivoluzionario e proletario tedesco negli ambienti artistici sovietici, favorendo anche la venuta dei principali protagonisti (Asja era al fianco di Brecht durante la visita di Mei Lan Fang in URSS, e con Piscator a Odessa). Tradusse le drammaturgie sperimentali russe in Germania e scrisse un libro sul Teatro Proletario tedesco in Unione Sovietica. Asja Lācis è dunque un crocevia, è Arianna, signora del labirinto delle avanguardie artistiche di ispirazione comunista e agit-prop. Forse nel Novecento il solo John Cage condivide con Asja tali capacità attrattive e di congiunzione, questa capacità di infiammare e fecondare.

L’azione artistica di Asja non può e non deve essere scissa dalla visione politica che l’animò tutta la vita, persino nei periodi bui di carcerazione a Riga, o negli anni di confino in Kazakistan (il suo agire artistico fu spesso osteggiato sia dalle SA in Germania, sia dall’ortodossia in Unione Sovietica). Tale ferreo rigore lo apprese in primo luogo nello studio di Fedor Komissaževskij, il quale: «era convinto che il teatro non potesse esistere senza filosofia […] io ero d’accordo con lui sul fatto che l’arte deve essere presa sul serio e non può essere prodotta da persone prive di una visione del mondo». Tale ardore e intensità di pensiero fu alimentato da una volontà incrollabile già presente in giovanissima età quando lasciò la Lettonia: «per Pietroburgo con un fagotto e un rublo in tasca» e frequentò i corsi anche quando rincasando la sera: «sentivo le palle di fucile fischiarmi sul capo».

La sua visione estetico-politica emerge in maniera nitida e cristallina nell’attività che svolse con i ragazzi orfani, i Besprisorniki, azione messa a punto durante il suo primo incarico a Orel nel biennio 1918-1919. Anziché dirigere un teatro e dedicarsi all’attività registica, Asja si accorse che: «per le strade di Orel, nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle cantine, nelle case distrutte vivevano schiere di bambini abbandonati: i Besprisorniki». Asja decise di occuparsi di loro e visto che abitava un’antica e spaziosa casa, scenario di Nido di nobili di Turgènev, parlò del suo progetto con il responsabile dell’istruzione popolare Ivan Michail Čurin, il quale, entusiasta, appoggiò il progetto e approntò le necessarie modifiche allo stabile per accogliere i bambini.

Asja si accorse di non poter utilizzare con loro la prassi consueta al lavoro teatrale e decise, senza mezzi termini di cambiare strada e perseguire una metodologia altamente innovativa: «Quando si prova con i bambini un dato testo, si lavora fin dal principio per una meta precisa. Per questa strada non avrei potuto raggiungere il mio scopo, che era la loro educazione estetica, lo sviluppo delle loro facoltà artistiche e morali. Io volevo che il loro occhio vedesse meglio, che il loro orecchio udisse più finemente, che le loro mani facessero dal materiale informe oggetti utili».

A partire da questo assunto divise il lavoro con gli orfani in più sezioni: pittura, condotta dallo scenografo di Mejerchol’d Šestakòv, musica, educazione tecnica (costruzione di oggetti, costumi, maschere, scene) e infine ritmo, ginnastica, dizione e improvvisazione, al fine di raggiungere una forma artistica condivisa e collettiva.

L’improvvisazione era il centro nevralgico attraverso cui: «le forze latenti si liberavano attraverso il processo di lavoro e le capacità che si sviluppavano si unificavano». Gli educatori non erano maestri ma osservatori, si ritiravano e lasciavano che i bambini stessi facessero naturalmente emergere le proprie attitudini. L’azione educativa si opponeva con decisione al principio capitalistico tendente a sviluppare un particolare talento: «l’educazione borghese stimola gli individui unilateralmente, Per dirla con Brecht: essa vuole “commercializzare” l’individuo e le sue facoltà. La società borghese pretende dai suoi membri che producano merci il più rapidamente possibile, e questo principio si palesa nell’educazione dei bambini in tutti i suoi aspetti. Se, per esempio, questi bambini giocano al teatro, hanno sempre il risultato davanti agli occhi: la rappresentazione, l’apparizione davanti al pubblico. Così va perduta la gioia del produrre giocando».

Soltanto quando i bambini sentivano la necessità di un incontro con un occhio esterno si favoriva un evento preceduto da una parata pubblica e un’apertura verso un pubblico formato da altri bambini, apertura sempre tendente verso la festa benché venisse stimolato il confronto dialettico tra il pubblico e gli esecutori. Tale confronto non era censorio o valutativo ma volto a una comune crescita, ma soprattutto era un teatro di bambini per bambini in cui l’educazione alla collettività e alla condivisione era il punto focale. Queste le parole di Benjamin in Teatro proletario di bambini: «le rappresentazioni non sono la meta vera propria dell’intenso lavoro collettivo […] Qui le rappresentazioni avvengono di passaggio, si potrebbe dire: per sbaglio, quasi come uno scherzo dei bambini, che interrompono per una volto lo studio per principio mai terminato». Si puntava, per dirla sempre con le parole di Benjamin: «non all’eternità dei prodotti, bensì all’attimo del gesto».

Il testo di Benjamin fu scritto nel 1928 per promuovere il progetto di Asja in Germania. Johannes Becher e Gerhard Eisler le proposero infatti di creare un teatro per bambini alla Karl-Liebknecht-Haus di Berlino. Per l’occasione il filosofo produsse un testo che in prima stesura (oggi perduta), risultò troppo ostico. Fu così che venne riscritto nel titolo oggi conosciuto Programma per un teatro proletario di bambini.

Nel 1927, dopo un periodo di malattia ed esaurimento nervoso, Asja Lācis, insieme a Nadežda Krupskaja, la vedova di Lenin, all’epoca alto funzionario del Narkompros, il Commissariato del popolo per l’istruzione, tornò ad occuparsi dei Besprisorniki. Questa volta creò un cinema per bambini diretto e promosso dai bambini: «Il famigerato mercato delle pulci: Sucharevka. Di giorni i bambini incustoditi del vicinato gironzolavano intorno e imparavano l’arte di commerciare, truffare e di guadagnare denaro; di notte vi istallavano il loro campo. Nelle vicinanze c’era un cinema-teatro molto grande, il Balkan, Era quello che ci voleva. Organizzare un cinema per bambini significava accettare la lotta contro lo “spirito” di Sucharevka».

Benché ci sia ancora molto da raccontare sulla vita di Asja Lācis, l’essenziale della sua visione del mondo è contenuta in questi due aspetti: creare relazioni e scambi di conoscenza, e smobilitare l’ossessione produttivistica e commerciale del capitalismo creando collettivi per bambini in cui l’educazione puntasse verso uno sviluppo completo della persona tramite una forma di insegnamento senza parole, basato sull’osservazione, la gestualità e l’improvvisazione teatrale. Il teatro è visto quindi come uno strumento di prassi filosofica, di pensiero in azione. E se i bambini furono i principali destinatari di questa innovativa metodologia pedagogica, essa fu declinata da Asja per i lavoratori dei Kolchoz, per le compagne detenute nel confino in Kazakistan, per gli operai delle fabbriche.

Asja Lācis volle cambiare il mondo e di certo vi riuscì. Lasciò tracce del suo passaggio in ogni animo, attrasse ed entusiasmò. Il suo caro amico Benjamin scrisse per lei le parole più belle: «lei poteva appunto uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo esser io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni». Peccato poi gli storici si siano preoccupati di nascondere quella miccia, sperando forse che nessuno se ne accorgesse. La miccia è sempre lì, in attesa di occhi pronti a detonare.

Teatro e resistenza

TEATRO E RESISTENZA NEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO NAZISTI

Un fenomeno che ancora lascia sconcertati, a volte increduli, nonostante l’abbondanza di documenti e testimonianze, è la presenza di teatro e musica, non solo nei ghetti, ma nei campi di transito, di concentramento e di sterminio nazisti.

Sembra impossibile e incompatibile il fare teatro, o danza, o musica in luoghi dove tutto era preda della morte e del male e sembrava essere in assoluto contrasto con i prodotti dello spirito. Eppure le arti sceniche furono presenti a Buchenwald, Auschwitz, Sachsenhausen, Ravensbruck, Dachau, Vittel, Malines, ma soprattutto Westerbork e Theresienstadt, solo per citare gli esempi più conosciuti e clamorosi.

La cultura ebbe un ruolo non marginale nella storia della Shoah, una parte molto complessa, piena di luci e ombre, e che mette a dura prova lo storico e la sua capacità di far parlare gli eventi lontani senza colorarli troppo delle proprie convinzioni e dell’inevitabile retorica che accompagna fenomeni così estremi.

L’azione degli artisti nei campi di sterminio e nei ghetti nazisti appartiene di fatto a quella che Primo Levi chiamava Zona Grigia, un luogo in cui il giudizio morale andava sospeso. Ecco le parole contenute ne I sommersi e i salvati: «É una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due capi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, e alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudizio».

Per capire il perché l’arte della scena si sia trovata ad abitare questa ambigua zona basti l’atteggiamento dei nazisti: prima vietarono le attività culturali, poi cercarono di sfruttarle a proprio vantaggio a fini propagandistici, minando così l’efficacia anche degli atti più candidamente resistenti. E questo avvenne a Theresienstadt come in Olanda dove le notizie delle attività artistiche del campo di Westerbork, vennero diffuse a mezzo stampa per stanare gli Ebrei ancora nascosti, facendo credere loro che i campi, se si faceva teatro e cabaret, erano in fondo inoffensivi.

Il caso più clamoroso di cosa potesse la propaganda nazista è la storia del ghetto di Theresienstadt dove un’intera città divenne un palcoscenico perverso al fine di ingannare la Croce Rossa Internazionale e per tale fine venne sfruttata e strumentalizzata l’incredibile vita culturale che fiorì nel ghetto in maniera spontanea come atto di resistenza sia politica che spirituale.

Kurt Gerron e Marlene Dietricht

Ancora più esplicito è l’episodio del il film noto con il titolo Il Fuhrer regala una città agli Ebrei (Der Führer Schenkt Den Juden Eine Stadt), e di cui rimangono pochi frammenti ma molto significativi. Il film le cui riprese iniziarono nell’agosto del 1944 a Theresienstadt dopo la fatidica visita della Croce Rossa e girato da Kurt Gerron, attore ebreo allora di grande notorietà per aver recitato ne L’opera da tre soldi di Brecht e ne L’Angelo azzurro con Marlene Dietricht, ritrae la vita nel ghetto come un alternarsi di attività ludico ricreative dopo una giornata di sereno lavoro. Quello che sorprende alla visione è l’efficacia propagandistica soprattutto se si considera il contesto: alla fine dell’estate del 1944 la guerra per i tedeschi è già ampiamente compromessa e le città del Reich vengono regolarmente bombardate dagli alleati, il film ritrae invece i prigionieri ebrei a teatro o a tifare per una partita di calcio. Solo un occhio molto attento e con una conoscenza documentale può distinguere le anomalie della messinscena: le persone sedute al caffè senza alcuna bevanda al tavoli, i volti scavati e terrorizzati, i sorrisi tirati e forzati, la tensione dei corpi.

Gerrongirò quel film nella consapevolezza dell’utilizzo propagandistico e soprattutto della propria forzata complicità con i propri carnefici? Probabilmente sì ma sul piatto della bilancia c’era la promessa, non mantenuta, dell’esenzione per sé e la propria famiglia dai famigerati e temuti trasporti verso est. Gerron fu portato a Auschwitz, dove morì insieme a un’intera generazione di artisti, nell’ultimo trasporto in partenza da Theresienstadt il 16 ottobre 1944.

Brundibar di Hans Krasa aTheresienstadt

La domanda che si pone per Kurt Gerron va posta per tutti coloro la cui arte fu sfruttata dal nazionalsocialismo per coprire o perpetrare i propri crimini, una domanda scomoda a cui è impossibile rispondere. Scrive Primo Levi:«Un ordine infero, quale era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole». L’arte non fu esente da questo processo, in alcuni casi la compromissione fu evidente, ma per la maggior parte fu soprattutto un atto di resistenza e di ribellione al nazismo, un proporsi come luogo in cui lo spirito potesse opporsi alla violenza, un territorio in cui la comunità oppressa potesse cantare il proprio dolore o ritrovare per un breve istante il sorriso, ma anche un luogo in cui gridare in faccia ai propri carnefici la propria rivolta e indignazione. É il caso del cabaret di Karel Švenk, degli spettacoli del duo Jiří Spitz e Josef Lustig che si ispiravano al teatro di Voskovec e Werich, del Brundibar di Hans Krása, operina per bambini che a Theresienstadt fu replicata decine di volte e diede forza e speranza ai numerosi bambini del ghetto, e di Der Kaiser von Atlantis di Viktor Ullmann e Petr Kien, i quali pagarono con la vita il coraggio di opporre al mito nazista di una nuova Atlantide ariana, il rinnovato crollo in una notte e un giorno di un impero corrotto e violento, arrogante al punto da voler porre la morte al proprio servizio.

Fare teatro, danza o musica, era quindi un affare serio e pericoloso, in cui si metteva in gioco la vita e la sopravvivenza, correndo il rischio di far il gioco dei Tedeschi. Il momento di maggior tensione e scontro tra collaborazione e resistenza avveniva nell’incontro tra opera e pubblico. Nelle platee, persino laddove le attività artistiche erano considerate proibite, non era infatti infrequente che vittime e carnefici partecipassero insieme alla visione o all’ascolto. In quell’istante recitare i versi di Shakespeare o Moliere era pericoloso come stare al fronte. Recitare o eseguire un semplice numero comico da rivista era questione di vita o di morte, non solo quando ci si esponeva eroicamente ma anche nei casi in cui si cercava di compiacere. Possiamo anche solo immaginare cosa ci fosse in gioco? A Theresienstadt spesso stare sotto i riflettori di un teatro significava l’illusione di una sorta di immunità dai trasporti o semplicemente una mezza razione in più di pane in un luogo dove si mangiava meno che ad Auschwitz. Ma nello stesso tempo suonare del jazz, arte degenerata per il nazionalsocialismo, nel gazebo al centro della piazza centrale era una sfida aperta alle SS. Anche le omissioni furono significative: in nessun campo i musicisti ebrei suonarono una sola nota di Wagner!

L’opera d’arte dal vivo diventava un campo di battaglia metafisico in cui forze opposte si scontravano, e la performance non era solo uno spettacolo. Era un atto necessario e richiesto, voluto non solo dall’artista ma soprattutto dal pubblico sebbene per ragioni diverse: ricerca della normalità, resistenza all’oppressore, recupero della dignità, manifestazione ed esercizio di potere, aspirazione alla salvezza. Qualsiasi fosse il motivo che portava artisti e pubblico, vittime e carnefici, per mezzo del teatro, o dell’opera, o della musica a incontrarsi per pochi momenti in mezzo a una delle peggiori tempeste della storia, non era certo un vuoto rito o un insulso passatempo. Era una necessità di dire e ascoltare, non solo quindi dell’artista, ma di tutta la comunità. Era essenziale per tutti riunirsi in un luogo dove solo tramite lo specifico teatrale ci si ritrovava e si poteva rielaborare e metabolizzare la realtà. Solo tramite la maschera si poteva svelare l’impostura, solo tramite la maschera si poteva sopportare l’insopportabile.

Nel giorno della memoria, sempre più svuotato di senso perché memoria senza azione è solo celebrazione di un pallido anniversario, mi sembra giusto ricordare l’attività artistica dei tanti attori, musicisti e cantanti spariti nelle camere a gas o morti di stenti nei campi di concentramento nazisti, ricordare la loro azione e cercare di trarre un insegnamento o un’ispirazione per i tristi giorni che stiamo vivendo nei quali il teatro stenta e ritrovare una funzione e un pubblico al di là dei divieti. E magari porsi delle domande: come mai oggi il pubblico non sembra avvertire la necessità di ritrovarsi nella platea di un teatro? Perché tale esigenza sembra sia solo degli artisti? E perché invece in momenti più crudi, nei campi e nei ghetti nazisti come nella Sarajevo assediata, invece era essenziale per la gente andare a teatro, anche se farlo significava rischiare ben più che un ricovero per covid o una multa? Cosa non ritroviamo più in un atto che ha quasi sempre avuto nella sua storia un ruolo altamente significativo e provocatorio tanto che il potere politico o religioso ha tenuto sempre in sospetto il teatro?

Bozzetto di scena di Petr Kien per Der Kaiser von Atlantis di Viktor Ullmann

Tali quesiti forse andrebbero posti in tempi come quelli presenti dove l’arte teatrale, senza troppo soffrirne né ribellarsi, si è lasciata confinare nel regno freddo e distanziato del nuovo dio digitale, dove tutto ha gloria e sparisce nel giro di un istante al prezzo di qualche like. La presenza permette il valore politico nello scatenare le tensioni tra platea e palcoscenico, certo laddove il teatro è ancora in grado di farlo. Nel vuoto digitale l’atto politico si svuota, si osserva distrattamente dal divano mentre si scorre Facebook o si risponde a un messaggino. In sala invece per il tempo della rappresentazione si è presenti e assorbiti in un mondo che si fa carne e con la carne si confronta. Se la rappresentazione diventa solo vuoto e lontano simulacro non può farsi carico di quelle forze che ha saputo evocare per secoli.

Il regime nazista era un grande fautore della tecnologia. Goebbels credeva fermamente nell’utilizzo dei nuovi media per la propaganda. Oggi come allora il capitalismo ci spinge a sfruttare le nuove tecnologie digitali, quelle stesse che mettono in crisi la democrazia, la credibilità del reale e l’efficacia e il ruolo della cultura. Scrive Umberto Galimberti in Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica: «L’esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio per l’irrazionalità che scaturisce dalla perfetta razionalità di un’organizzazione, per la quale “sterminare” aveva il semplice significato di “lavorare”, può essere assunto come quell’evento che segna l’atto di nascita dell’età della tecnica».

Come abbiamo fatto ad asservirci così frettolosamente al nuovo dio digitale sacrificando l’essenziale del ritrovo vis a vis? Come mai oggi solo pochi hanno provato a reagire assumendosi il rischio di sperimentare ancora una volta lo specifico della propria arte nata per incontrare sullo stesso terreno il pubblico con cui vuole confrontarsi? Il teatro è veramente tramontato a spettacolino? E il virus è riuscito laddove persino la violenza insensata e assoluta del nazismo aveva fallito? Sono domande scomode che attendono se non una risposta almeno un acceso dibattito prima della riapertura dei teatri per non rischiare di trovarsi con le platee deserte senza capire il perché. E allora in questo giorno della memoria, ricordiamo gli attori, danzatori, musicisti che sui palchi improvvisati e precari dei ghetti e dei campi nazisti, resero alta testimonianza della forza di un’arte che può sì far ridere e piangere ma anche tirare schiaffi al potere che vuole sottometterla

Breve bibliografia sul teatro nella Shoah

L. Distaso – R. Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín. Un’indagine storica ed estetica 1933-1945, Mimesis, Milano, 2014;

J. Karas, Musica a Terezín 1942-1945, Il Melangolo, Genova, 2011;

H. Lewis, Il tempo di parlare. Sopravvivere nel lager a passo di danza. Diario di una ballerina ebrea, Torino, Einaudi, 1992;

A. Ottai, Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti, Quodlibet, Macerata, 2016;

Ch. G. Opfermann, The Art of Darkness, University Trace Press, Houston, 2002;

E. Pastore, Der Kaiser von Atlantis, Miraggi Edizioni, Torino, 2019;

R. Rovit – A. Goldfarb, Theatrical Performance during the Holocaust. Texts, documents, memories. The John Hopkins University Press, 1999;

C. Schumacher, edited by, Staging the Holocaust. The Shoah in drama and performance, edited By Claude Schumacher, Cambridge University Press, 1998;