Dall’11 al 23 dicembre al Teatro Gobetti di Torino è andata in scena La scortecata di Emma Dante, decima favola della prima giornata de Lo cunto de li cunti, overo lo trattenemiento de peccerille di Giambattista Basile.
Il cunto racconta di due vecchie sorelle, Carolina e Rusinella, che vivono isolate nella loro catapecchia. Un giorno il re sentendo cantare una delle due si innamora della voce credendola appartenere a una bella giovane. Celate dietro la porta e porgendo al regale spasimante solo un dito mignolo dalla serratura, che rendono morbido e vellutato succhiandoselo per ore, riescono a ottenere un incontro con il sovrano purché al buio. Durante la notte d’amore il re accende un lume, si accorge dell’inganno e getta l’orrida amante dalla finestra. Quest’ultima riesce ad aggrapparsi al ramo di un albero e una fata intenerita dalla sua sorte la tramuta in una dolce e giovane fanciulla che il re alla fine sposa. L’altra sorella, rosa dall’invidia, si fa scorticare dal barbiere affinché cresca una pelle giovane una volta rimossa quella vecchia e grinzosa.
Emma Dante mette in scena questo racconto operando alcune semplici scelte: conserva la lingua originale, il napoletano secentesco con qualche modernizzazione; fa impersonare le due megere dai bravissimi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, mantenendo la tradizione dell’epoca in cui la recitazione era appannaggio dei soli uomini; utilizza pochi elementi scenici disegnando una scena essenziale seppur altamente evocativa; e infine opera una piccola ma sostanziale modifica al finale che getta sulla favola una luce ancor più fosca.
Sul palcoscenico solo due seggiole, una porta, e un castello in miniatura inquadrati da un ring di luci che dall’alto delimitano il campo d’azione. Sulle sedioline sono assisi i due attori con brutti vestitini e calze di nylon spesse da nonna. Non fingono di essere donne, non vi è mimesi, ma solo l’impiego di alcuni segni che identificano il loro personaggio. La fisicità impiegata è maschile, rude. Non si vuol far credere ma far immaginare e nello stesso tempo significare la violenza nascosta dietro la fiaba: la crudele miseria, l’abbandono, ma soprattutto l’invidia e la cieca vanità che conducono allo scorticamento finale.
I due attori non danno corpo solo alle due tristi sorelle ma anche al re e alla fata. Si trasformano durante la rappresentazione, fanno apparire attraverso dettagli posturali, un cambio di voce, l’emersione di un nuovo personaggio.
La recitazione sfrutta nel racconto tutti gli elementi provenienti dal teatro tradizionale napoletano e dalla commedia dell’arte. Un teatro fisico di sapore mejercholdiano che attinge ai registri del comico popolare e quindi alle smargiassate, alle volgarità, alle allusioni sessuali, ma anche alle iperboli, le esagerazioni e ai trucchi propri di quel teatro che fa apparire interi mondi con la sola potenza della parola e del gesto. La lingua, il napoletano, nobile anche quando parlata da carrettieri, quasi nata per la rappresentazione, evoca un’atmosfera sempre sospesa tra la sconcezza e il sogno, tra un riso che medica e il ghigno che ferisce.
Il finale ci rivela una essenziale modifica che illumina il cunto di Basile con luce inedita: non vi è nessun re e nessuna fata. Tutto era illusione e sogno, una finzione per riempire un vuoto. Resta solo la violenza insita in ogni rappresentazione, quel sangue e quell’orrore evocato dal teatro fin dalle sue origini tragiche negli assolati anfiteatri di Grecia, quel sangue che i katarmoi spargevano sugli spalti prima che gli attori entrassero in scena. Il teatro possiede un’anima violenta, scortica la realtà, solleva il velo che la civiltà cala sul mondo per rendercelo accettabile e meno cruento. Il teatro nascondendosi dietro la maschera della rappresentazione rivela la natura intima della vita, quella violenza dell’essere al mondo che fingiamo non sia ma permea ogni nostra azione. L’unica cosa vera è dunque quel coltello pronto a spillare sangue, oggetto rituale, bisturi terribile ma necessario a guarirci da quella cataratta che ci impedisce di cogliere il vero volto della vita.
Poco importa quale sia la vera morale della favola, quella crudeltà propria del femminile di infliggere crudeli torture al proprio corpo per vanità o come dice la stessa Emma Dante: “il maledetto vizio delle femmine di apparire belle le riduce a li eccessi che, per indorare la cornice della fronte, guastano il quadro della faccia”. La scortecatata parla anche del teatro, della sua natura ormai sempre più nascosta, della sua abilità di far emergere con la finzione la vera anima del mondo.