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Anna Ghiaccio di Rita Frongia: del sublime e del tremendo

Danae Festival, in coproduzione con Drama Teatro di Modena, ha ospitato a Zona K a Milano la prima nazionale di Anna Ghiaccio di Rita Frongia. La regista-drammaturga sarda è nuovamente ospite della rassegna milanese dopo aver presentato l’anno scorso il dittico Etoile.

Anna Ghiaccio ha molto in comune con quei pezzi brevi. Etoile presentava un interessante filone di ricerca drammaturgica: l’indagine su una drammaturgia non solo condivisa con l’interprete (Stefano Vercelli in un caso, Teri Weigel nel secondo), ma su una scrittura che si fa corpo manifestandolo come testo fisico.

Anna Ghiaccio, interpretata da Isadora Angelini, direttrice e fondatrice insieme a Luca Serrani del Teatro Patalò, produce una nuova variante scenica di quella ricerca. Se infatti Etoile si concentrava sulla danza in cui curiosamente un attore si affidava totalmente al gesto rinunciando alla parola e una danzatrice che, al contrario, cercava di far emergere il verbo dal movimento, in Anna Ghiaccio la protagonista diventa la voce.

Non fraintendetemi: il corpo è sempre il principale compositore della partitura drammaturgica, ma in questo pezzo è la voce che disegna le melodie, i toni, le dinamiche, le emozioni di un percorso narrativo. Il testo si costruisce infatti su un abile intreccio di note canzoni d’amore da Amandoti dei CCCP, a Ma che freddo fa di Nada, a La costruzione di un amore di Mia Martini (e altre). Non si tratta del bel canto, di uno sfoggio della voce, ma di trarre dall’espressione vocale tutte le gradazioni di dolore, vuoto, abbandono, frustrazione, tradimento, cinismo in grado di dare a questa madre che ha perso un figlio uno spessore e una consistenza emotiva che conduca lo spettatore nella terra ghiacciata in cui l’umano è soppresso o, quanto meno, congelato. La domanda che affligge Rita Frongia si rende concreta ed evidente attraverso la voce che si fa carne di Isadora Angelini: cosa è accaduto alla nostra capacità di essere umani?

Anna ghiaccio ha perso un figlio. Non lo dice subito. Parla di amore perso, di una vita consacrata a questo sentimento che a un certo punto entra in crisi. La protagonista ha così deciso di abitare un deserto gelido. Anna presenta la sua maschera: spietata e algida di donna che ora preferisce la farfalle inchiodate in un album, le coccinelle private delle loro ali, i cani senza corde vocali, i gattini dentro un sacco di plastica. È una posa, lo si capisce. Nel farci ridere delle sue ciniche follie, Anna ci convince sempre più che il suo amore è vivo e dolente. Ma che tipo di amore, e per chi, è ancora tutto da capire.

Gradualmente veniamo a scoprire che si tratta del figlio. Un figlio dotato in ogni arte ma che ha rifiutato i suoi talenti. Li ha abbandonati e, così facendo ha frustrato le aspettative di una madre orgogliosa e vanitosa. Resta un’ultima impresa. Scalare insieme il massiccio del Kukuràke senza ossigeno. E qui capita la disgrazia. Non ci sono testimoni se non Anna e noi dobbiamo capire cosa è accaduto dal suo racconto. Si insinua il dubbio che lei abbia parte in questo incidente, ma forse le cose sono un poco più allegoriche. Il figlio che si dissolve nella neve forse ha semplicemente abbandonato sua madre e i suoi desideri di gloria. Forse ha cercato la sua strada. Certo da quel momento Anna si è trasformata in una regina di ghiaccio, abitante solitaria delle nevi.

Il finale, uno dei più difficili che abbia visto per un attore, ci lascia con le nostre domande e con un certo disagio nell’animo. Anna ghiaccio si dissolve nel buio, svanisce come il figlio davanti ai nostri occhi con un’espressione nel viso e nel corpo di tale desolazione, vuoto, dolore da rimanere folgorati. Il viso è come spezzato, infranto, gli occhi immobili congelati in una accorata richiesta d’aiuto e di senso, il corpo desolato, abbandonato. Sembra non esserci consolazione per Anna, e forse anche per noi che abbiamo abbandonato ogni sentimento ed empatia verso l’altro. Si rimane così per qualche istante, un tempo lunghissimo seppur breve, a condividere quelle sensazioni terribili, per poi tornare come sempre a noi stessi, alle nostre scuse e alle storie che ci siamo inventati per sopravvivere alle nostre miserie.

In quest’ultima immagine vi è tutta la sublime bellezza di questo spettacolo. Sublime nel senso che ci fa prendere contatto con il tremendo. Come nella tragedia attica. E sublime anche perché ci ha fatto testimoni di una grande prova d’attrice, della sapienza antica del teatro che con la danza del corpo e della voce ci rende manifesta la nostra intima natura e, da ultimo, ci fa ridere nel pianto. Dal teatro non si può chiedere di meglio.

Improvvisazione

LA BELLEZZA FUGGEVOLE DEI FIORI DI CILIEGIO: L’ARTE DELL’IMPROVVISAZIONE A TEMPI DI REAZIONE

Nel Comunedi Porcari (Lucca) a Spam, sede operativa della Compagnia Aldes guidata da Roberto Castello, si è tenuta dal 5 al 9 dicembre una rassegna dedicata all’arte dell’improvvisazione dal titolo Tempidi reazione. Nell’arco di cinque serate si sono alternati sul palcoscenico filosofi, danzatori, musicisti,attori, pensatori della scena contemporanea al fine di confrontarsi sul significato, la funzione e le pratiche di un’arte trasversale quanto fragile, capace di attraversare tutti i linguaggi e morire nell’istante in cui si compie : senza lasciare quasi traccia del suo passaggio.

EnricoCastellani, Andrea Cosentino, Eugenio Sanna, Julyen Hamilton, Tristan Honsinger, Teri Weigel, Giselda Ranieri, Paola Bianchi, Stefano Questorio, Alessandra Moretti, Mariano Nieddu, John De Leo, Romano Gasparotti, Alessandro Bertinetto, Charlotte Zerbey, Alessandro Certini, Edoardo Ricci si sono avvicendati, offrendo al pubblico i loro differenti approcci alla difficile arte dell’improvvisazione, ciascuno con il suo modo per andar al di là dei modi, condividendo con l’occhio che guarda non solo le loro riflessioni, ma i processi creativi e il rischio a essi connessi.

Improvvisare è termine a cui nel linguaggio corrente si accostano significati con accezioni vagamente negative: raffazzonare, abborracciare, preparare lì per lì. Concetti che rimandano all’imprecisione, alla mancanza di progetto, all’impreparazione. Nel pensiero occidentale come si sostanzia a partire dell’Umanesimo, l’opera d’arte è infatti frutto del genio dell’artista che pensa l’opera e attraverso lo sforzo della propria volontà e manualità rende manifesta l’idea nelle forme. L’opera d’arte è quindi stampo del pensiero che la precede e la determina. L’improvvisazione, al contrario, non ha niente che le preesista, sorge tempestiva nell’attimo in cui si forma e come il fiore di ciliegio scompare in un’istante.

Per questo suo breve batter d’ali è considerata pratica minore, più strumento creativo propedeutico all’opera pensata e concepita, che forma d’arte di rango elevato. Più uno sfizio affine al divertissement. Eppure l’improvvisazione porta con sé questioni di primariaimportanza per le arti dal vivo che nello spazio breve di unariflessione cercheremo solo di delineare.

Innanzituttouna diversa concezione del tempo. Se l’opera è frutto di unprogetto, di un disegno che mano a mano che procede si sostanzia e sistruttura fino a giungere un compimento che dà corpo a uno o più significati previsti, nell’arte dell’improvvisazione si vive nell’istante e in quello che i greci chiamavano Kairos, il tempo dell’opportunità. È un cogliere l’attimo, un adattarsi tempestivo alle circostanze, una modalità che non accetta il ritardo e rifiuta l’esitazione. Un vivere la contingenza del momento con tutta la propria presenza, svincolati dal concatenamento di passato e futuro, dove il primo si risemantizza a ogni istante successivo e il secondo semplicemente non esiste. Kairos prende dunque il posto di Chronos, il tempo dell’opera per eccellenza. Siamo dunque in un altro mondo.

Vi è poi un secondo aspetto da tenere presente: l’improvvisazione è quell’arte che inventa le regole e le norme del suo farsi nell’istante in cui si compie. Non ha canoni a cui ci si possa aggrappare e nessun piano di battaglia può in alcun modo essere atteso. Nessuna forma preventivamente studiata vedrà mai la luce in un’improvvisazione perché suonerebbe falsa come le monete di cioccolata. Nemmeno può essere in qualche modo insegnata. Tutt’al più il maestro può condurci a un atteggiamento propedeutico, uno stato mentale e fisico fecondo che concili l’atto improvviso e imprevisto. Può dunque accompagnarci sulla soglia, ma entrare nel flusso creativo istantaneo è affare del performer, frutto di allenamento personale e di un’attenta coltivazione, risultato di uno specifico contegno differente per ciascuno.

Corollario conseguente: ogni performer vive l’atto di improvvisazione in maniera completamente diversa, sostanzia il momento con uno stile e sapore unico, e questo personalissimo approccio conduce a una totale mancanza di regole cui aggrapparsi, e quelle poche norme che ciascuno a suo modo adotta, posso tranquillamente venire disattese durante l’esecuzione. L’improvvisazione è atto anarchico per eccellenza in cui, per dirla alla Thoreau, il governo che governa meglio è quello che governa meno. L’atto di improvvisare contiene in sé dunque delle istanze politiche ed etiche precise.

Terzo elemento da considerare è che nell’improvvisazione non conta tanto il risultato quanto la qualità del processo esecutivo. L’esser presenti all’istante, il saper vivere il carpe diem che sostanzia questo specifico atto creativo, è l’unica misura che certifica la peculiarità e il pregio di un processo artistico improvvisato. Il risultato inteso come opera coerente esteticamente valida, composizione chiusa nel senso difinita, può non sostanziarsi. L’incompletezza, il fallimento, la caduta persino lo schianto sono delle possibilità accettabili e possibili. Fanno parte della natura stessa dell’improvvisazione. Ci si gioca se stessi completamente, e si può perdere. Nel cadere però si acquista esperienza, un bagaglio da rimettere in gioco altentativo successivo.

Ultima questione da considerare è la non ripetibilità dell’atto performativo improvvisato. Tutto si svolge nel qui e ora. Si tratta di una generazione spontanea che vive in un baleno e poi scompare senza lasciar traccia se non nell’animo di chi c’era. Documentarla è quasi impossibile. Il video e la testimonianza, scritta o orale che sia, sono parziali. Il primo manca del sapore dell’istante della presenza, la seconda è sempre personalissima, frutto di un punto di vista, di un orientamento e di una conoscenza acquisita nel tempo. Lo stesso performer non sempre sa esattamente cosa ha fatto, e manca spesso delle parole per descrivere quanto provato nel flusso creativo istantaneo.

La coscienza del performer è infatti sempre scissa, come divisa tra l’essere teso come filo sull’abisso del momento fuggente e occhio che guarda se stesso. Abbandono e volontà a braccetto, una volontà però scevra di progetto, che nega l’io e le sue voglie, che pronta si adatta alla circostanza e lieta si contraddice per provare strade diverse. Una lotta continua tra il noto e l’inatteso, tra ciò che si sa e ciò che si scopre, tra l’abitudine e la casualità. Non è dunque creazione ex nihilo, ma composizione che si sostanzia con elementi frutto di un bagaglio tecnico che si integrano con naturalezza con ciò che si forma hic et nunc.

Detto questo va ribadito che l’arte dell’improvvisazione non è qualcosa di caotico, frutto di un lasciarsi andare alla deriva, ma un gioco sottile, un affare che non ammette dilettantismi, in cui i pochi elementi scelti alla base vengono sottoposti a variazione, metamorfosi, proteiforme trasformazione, giocosa contraddizione, e questi fattori o piccole norme di base si integrano e ricombinano con ciò che si trova per strada. È come un volo in cui si deve esser pronti a cogliere il vento e i suoi repentini cambi di direzione. Un sottrarsi per fare emergere, cavalcando l’onda accettando il rischio di venir sommersi. Non vi è dunque nessuna emersione dell’io e delle sue miserie, nessuna clinica, ma un togliersi di mezzo per essere tutt’uno con il tempo, lo spazio, l’oggetto, i compagni di viaggio. Non si pensa perché pensando non si fa. Si tratta piuttosto un fare pensante.

Con queste premesse diventa dunque difficile testimoniare quanto avvenuto in scena a Spam nelle serate di Tempi di reazione. L’esuberanza di Eugenio Sanna che si scontra con l’inventività di Andrea Cosentino o con la timida rigidità di Enrico Castellani, la profonda immersione di Paola Bianchi, oppure i dialoghi sottili tra John De Leo, Stefano Questorio e Giselda Ranieri. Non è quasi possibile, per lo meno chi scrive dichiara apertamente la sua incapacità di rendere a parole ciò che è apparso vivo e in un istante svanito. È possibile solo riportare le parole di un antico poeta giapponese nel Kokinshû:   volteggiando i fiori di ciliegio scompaiono e   non c’è uomo che non li rimpiangerà.

ph@Claudio di Paolo