Archivio mensile:Novembre 2019

Leonardo Lidi

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A LEONARDO LIDI

Con questa a Leonardo Lidi iniziamo un ciclo di interviste volte a indagare lo stato della ricerca teatrale italiana in questo ultimo torno di tempo. Cinque domande su temi importanti quali creazione, produzione, distribuzione, funzioni della scena e rapporto con il reale poste a registi, coreografi, operatori, direttori di festival tra i venticinque e i quarantacinque anni. Lo scopo è di raccogliere le idee e i pensieri di chi oggi è protagonista della giovane ricerca scenica e cogliere dalle risposte alcune linee guida sugli strumenti necessari per un vero rinnovamento e le possibili coordinate verso la scoperta di nuovi paradigmi e funzioni per il teatro inteso nel suo senso più ampio del termine.

Leonardo Lidi è un giovane regista che nonostante la sua giovane età ha già dato prova di maturità espressiva in produzioni importanti come Gli spettri di Ibsen alla Biennale Teatro 2018 e il recente Lo zoo di vetro di Tennessee Williams al Lac di Lugano,

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Non partire dall’efficacia di una scena per crearne una. Le conseguenze le tengo in fondo, non me ne occupo prima del tempo e chiedo all’attore di fare altrettanto. Ciò nonostante tengo sempre a mente, in ogni fase del lavoro, l’incontro con l’occhio esterno. Dalla riscrittura alla scelta del cast lo spettatore è sempre presente – il desiderio di farlo partecipare la considero una priorità. Ogni incontro interpersonale può essere faticoso, ogni relazione può essere fallimentare, allo stesso tempo se entri in una sala affollata dove nessuno ti presta attenzione e chiedi a gran voce un attimo di silenzio (e di spegnere i cellulari) nell’istante in cui tutti si voltano per ascoltarti non puoi permetterti di fare scena muta, o ancora peggio, di dire delle banalità. Quindi devi prepararti. Studiare meticolosamente la dedica di un pensiero. Nel mio caso scelgo di farlo tramite i grandi autori del passato, non avendo una capacità di scrittura abbastanza alta mi affido a testi pre-esistenti. La peculiarità è far guidare la macchina all’autore; io cerco di essere un buon copilota, mi informo sulle caratteristiche di chi ha in mano il volante e consulto la mappa metodicamente per studiare la nuova viabilità e come sono state lavorate le strade per arrivare a destinazione senza cappottarci.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Mi dispiace ma non mi sono mai occupato di produzione, mi sono formato come attore e ho troppo rispetto per le figure professionali per dare una risposta a questo quesito. Formare delle figure professionali all’altezza del contesto europeo, dunque, può essere il primo passaggio. Qualcuno da ascoltare. Se devo riportare la mia esperienza rispetto alle produzioni io non posso che essere grato al sistema teatrale italiano: senza nessun tipo di conoscenza nel settore, dopo un diploma stiracchiato in agraria, sono entrato nella scuola del Teatro Stabile di Torino e dopo tre anni di alta formazione mi hanno dato l’opportunità di testare le mie capacità registiche in due produzioni all’età di ventisei e ventisette anni. La Biennale di Venezia diretta da Antonio Latella è stata un’altra grossa possibilità, e non solo per i vincitori. Altre produzioni importanti mi hanno notato e mi hanno chiesto una collaborazione (ultimo Carmelo Rifici con il Lac di Lugano coprodotto da TPE e Carcano) quindi se guardo al mio percorso posso dire che le cose possono funzionare. Non per questo voglio bendarmi gli occhi, so che la strada non è sempre fortunata. Bisogna stare attenti alle ambiguità produttive. A chi ti chiede tanto in cambio di niente. Io non ho mai chiesto ad un attore professionista di lavorare gratuitamente ad un mio progetto e non ho mai accettato di lavorare gratuitamente con la speranza di una visibilità. Ho preso una fregatura una volta a Piacenza, e decisi di non ripetere l’esperienza per rispetto alla mia persona.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione spesso non esiste e i primi a farne le spese sono gli attori che provano tanto e replicano poco, questo è un dato di fatto da non pochi anni, un dato che va preso in considerazione in sede di contrattazione e ringrazio le associazioni che lavorano per i diritti del lavoratore con forza e determinazione. Anche qui io non ho soluzioni felici da poter donare. Per quanto riguarda la mancanza di dialogo non è un problema solamente teatrale, il dialogo – purtroppo – è una cosa che spesso va conquistata. Ma anche in questa direzione mi pare ci sia movimento, non è tutto immobile, ci sono situazioni che il dialogo lo creano e bisogna riconoscerle a discapito dei cialtroni. Una priorità, che si può indirettamente legare alla distribuzione, è quella di prendersi cura degli attori. Il primo punto da discutere è il bilancio studenti/attori professionisti. Non si può continuamente fomentare una macchina di disoccupazione a cuor leggero. La carta d’identità non può essere una condanna e chi si affaccia al mestiere deve avere un periodo di palcoscenico per poter sperimentare la propria nuova professione. Se posso prendermi cura di dieci persone devo formare dieci persone, e la crescita individuale deve tornare ad essere considerata come un potenziale e non come un problema da gestire. Ma la domanda è troppa, alle scuole di teatro bussano oceani di ragazzi e anche qui non c’è un sistema brutto e cattivo che vuole il male di qualcuno, ci sono solo tanti interrogativi che spesso vengono posticipati per troppo tempo. Ma io ho fiducia. Ho fiducia soprattutto perché negli ultimi anni una squadra di “nuovi” Direttori Artistici si è palesata e lavorano duramente e costantemente con passione. Ho un dialogo fitto con molti di loro e non posso che riconoscerne il valore. Chi prende decisioni è sempre in una situazione delicata, si è facilmente attaccabili, ma ho la percezione che si sta formando una squadra all’altezza delle aspettative.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Questo è il punto. L’opportunità che abbiamo. Ci si guarda in faccia praticamente solo a teatro ormai, anche a tavola o per strada si preferisce lo smartphone. Nel tempo che ci è concesso sarebbe un peccato perdersi e non considerare quel tempo prezioso, dobbiamo lavorare pensando all’esterno, dobbiamo integrare lo spettatore, oggi più di ieri. Ogni volta che lo spettatore entra in teatro, che sia la prima o la millesima volta, la nostra ambizione deve essere quella di stare assieme a lui. Anche nel litigio. Ma nella costruzione e non nella distruzione E parlo di ambizione perché è difficilissimo. Il tempo di attenzione e concentrazione si riduce ogni giorno, siamo intorno al minuto e mezzo, e allora come si può coinvolgere una persona per più di quaranta minuti e chiedergli anche di pagare per questo sequestro di persona autoinflitto? Non proponendogli un aperitivo in platea e non con una copia di quello che può comodamente vedersi dal divano di casa sua ma confidando nella persona. Proponendo, con coraggio, una qualità alternativa a quella dettata dalla consuetudine. L’altra verità, quell’artificio sincero che solo l’arte permette.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La scena contemporanea non ha una direzione unica e questo è un bene, si passa nel marasma dei testi scritti per necessità alle esperienze personali raccontate in prima persona. A me piace questa non linearità. Mi piace essere sorpreso dalle modalità differenti di consegna. Senza troppe distinzioni. In un teatro competitivo c’è Shakespeare e c’è Bogosian, devono coesistere per potermi intercettare nei vari momenti della mia vita. Io mi sono avvicinato al teatro con Horovitz e Mamet ma adesso se posso scegliere cerco Euripide. Perché ho attuato un processo di crescita e ho il palato più preparato, ma se non fosse stato per le letture più immediate sarei rimasto fuori dalla sala. Mi piace che il teatro sia contaminato da tutto ciò che sta attorno ad esso ma non mi piace quando la contaminazione sostituisce il teatro. Quello che non accade nel tempo presente non lo considero d’interesse  teatrale, se piazzo il video di due attori che parlavano al bar la settimana scorsa e lo metto sul palcoscenico sto alzando bandiera bianca. Non capisco la fascinazione che ultimamente abbiamo intorno a questa ricerca. O meglio, la capisco ma non la condivido. Cerchiamo disperatamente qualcuno che ci suggerisca un’idea geniale per trovare il modo di comunicare, dimenticandoci che quell’idea è già in noi e che ci distingue dal resto degli esseri. La parola.

pastorale Daniele Ninarello

UNO SPONTANEO SBOCCIARE: Pastorale DI DANIELE NINARELLO

Lo scorso 16 novembre ha debuttato alla Lavanderia a Vapore di Collegno Pastorale di Daniele Ninarello presentato in forma di studio nella recente scorsa edizione della NID Platform di Reggio Emilia.

È possibile descrivere quest’ultima creazione di Ninarello solo per approssimazione. Potremmo partire da un’immagine. Pensiamo alla superficie di un piccolo stagno in un uggioso giorno d’autunno. Una prima goccia increspa la superficie, le onde piccine perfettamente rotonde e concentriche si allontanano fino a scemare. Alla prima se ne aggiungono altre. Piove e lo stagno è ora crespo di onde che si rifrangono, partecipando ognuna del moto delle altre, disegnando mosaici e labirinti inestricabili sull’acqua sempre più mossa. Poi la pioggia scema, la calma ritorna, la superficie torna a essere uno specchio immobile, come se nulla fosse successo.

Di ogni goccia noi possiamo misurare tutto: il peso, la forza, la traiettoria, l’azione della forza di gravità, ma non dove cadrà la prossima. Ogni stilla caduta dal cielo ha un volo suo particolare, uno schianto nell’acqua che sarà suo e suo solamente, così come il modo in cui le onde generate si mescolano con le infinite altre. Ogni precipitare dall’alto genera un moto e un desiderio di fondersi e sciogliersi per far parte di quell’unico lago dal moto unisono con piccole onde a lambire la terra.

Pastorale di Daniele Ninarello è questa danza delle gocce, un intrecciarsi di semplice e complesso, un intimo abbraccio di prevedibilità e casualità. I quattro danzatori esplorano lo spazio con piccoli e semplici movimenti, ruotano come costellazione intorno a un asse generato dalla rotazione e rivoluzione dei singoli astri in un universo in continua espansione ed evoluzione.

Ogni corpo risponde agli altri, modifica il suo moto al mutare delle leggi di attrazione universale. Non c’è legge eppur c’è una regola. Ogni frase è frutto di ascolto, di rispetto, di reazione istantanea, alla ricerca di un’armonia perduta verso quella che lo stesso Daniele Ninarello definisce “nostalgia dell’unisono”.

Pastorale è come una grande tela di Rothko in cui far naufragare lo sguardo per perdersi oltre il suo orizzonte. È anche un rito, primitivo seppur modernissimo, a scoprire ed esperire la natura di ogni evoluzione, come di ogni convivenza possibile. Ogni moto generato ha il suo spazio e il suo tempo, si miscela con gli altri rimanendo se stesso, si modifica accogliendo gli stimoli, e pur rimane se stesso, resta individuo nel flusso delle miriadi.

John Cage diceva, seguendo i dettami del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy, che il compito dell’arte è “imitare la natura nel suo modo di operare”. Daniele Ninarello in questa sua Pastorale, opera matura e specchio di un autore che ha ormai raggiunto la consapevolezza delle sue potenzialità e degli obiettivi cui tendere, riflette splendidamente questo principio. Ciò che stupisce è infatti la mancanza di artificio nell’artificio, ogni istante sembra frutto di un’imprevedibile fiorir di natura, un evolversi spontaneo di ogni gesto nel successivo. Ci dimentichiamo nel perdersi in questa danza che ciò che nasce sotto i nostri occhi è pur frutto di un lavoro artistico. Una costruzione minuziosa come un giardino orientale dove l’abilità dell’architetto sembra essere quella genuina e originaria di madre natura.

Visto alla Lavanderia a Vapore in prova generale il 15 novembre 2019

Settanta volte sette

CONTRO LA LEGGE DELL’ODIO: SETTANTA VOLTE SETTE

Per la settima edizione di Concentrica – Spettacoli in orbita organizzato dal Teatro Della Caduta va in scena a Torino Settanta volte sette di Collettivo Controcanto, spettacolo vincitore di Teatri del Sacro 2019. Lo spettacolo si inserisce nella nuova sezione Concentrica a scuola, costruita, pensata e organizzata insieme agli studenti del Convitto Nazionale Umberto I e l’IIS Avogadro, due storici istituti torinesi eccezionalmente aperti la sera. Il pubblico cittadino viene accolto dai ragazzi, guide accoglienti pronti a svelare la storia e le curiosità degli edifici scolastici da loro abitati e vissuti e per una sera trasformati in sale teatrali. Proprio all’IIS Avogadro, scuola inaugurata a Torino nel lontano 1805 durante il regno di Vittorio Emanuele I, ha fatto il suo debutto regionale il delicato lavoro dedicato al perdono di Collettivo Controcanto.

Benché Settanta volte sette si ponga la stessa domanda dell’Orestea, ossia come superare la vendetta e ovviare l’ineluttabilità dell’odio e della legge del sangue, non siamo di fronte a una tragedia. Non c’è nessun fato scritto, non sono Ananke e le Moire a filare il destino. Non ci sono neppure gli eroi. Tutto è anzi molto comune e ordinario. Assassino e vittima sono come sradicatati, non inseriti nel flusso della Storia, quella dei grandi eventi e a cui partecipano coloro che sanno cosa vogliono dalla vita e hanno una missione. Colpevoli e innocenti, – ma sono queste categorie veramente utili in grado di fotografare un delitto? – si trovano uno di fronte all’altro in un momento di disattenzione.

Sono assenti anche le omissioni che caratterizzano una cronaca di una morte annunciata, così come le cause di quei vortici gaddiani messaggeri di pasticciacci brutti. Gli eventi sembrano accadere senza ragione alcuna, in un momento fatale in cui chi è coinvolto perde il controllo e si trova catapultato improvvisamente nel mondo inesorabile governato dalle conseguenze degli atti di sangue. Quanto avviene sulla scena potrebbe avvenire a noi litigando al semaforo, al bar, in coda alla posta. Non vi è nulla di eccezionale: si esce per una festa tra amici e ci si ritrova vittime e assassini.

Le cause non vengono indagate. Restano in penombra e in disparte come i magi nei quadri del Tiepolo. Si intuiscono senza approfondirli. In fondo non serve. Potremmo essere noi e tali ragioni cerchiamole nella nostra coscienza. Quello invece evidente è il dolore, il pentimento, il rimorso e la rabbia, il lento e travagliato percorso che porta al perdono. Tutti i personaggi coinvolti, vittime e colpevoli, vengono investiti dall’onda di piena di un evento assente dalla scena e fulmineo. Le conseguenze invece agiscono lentamente, sottovoce, a fatica. Il seme dell’odio è duro a morire prima di dar frutto nel perdono.

É lo spirito femminile il primo ad accogliere la possibilità di uscire dalla spirale inflessibile. Il maschile è troppo preso dall’orgoglio, ma soprattutto dalla parte assunta dalla storia come portatore di vendetta. Deve essere guidato, condotto, dal cedere, dall’accogliere, dal ritirarsi. Senza opposizione e contrasto il maschile si trova sbilanciato, cade su se stesso, perde il vento nelle vele e così scopre la possibilità difficile, quella esclusa a priori. Assassino e vittima si trovano al cospetto uno dell’altro, senza molte parole da dirsi. Il perdono sta nei silenzi e nelle attese, in un ricordo scambiato, ceduto e accolto per infine smuovere i piatti della bilancia di una giustizia troppo spesso sommaria.

Settanta volte sette, così il Cristo invitava Pietro a perdonare. Un infinito doloroso eppure vitale per sconfiggere la legge del sangue. Settanta volte sette di Collettivo Controcanto esorta, con grazia gentile, a riflettere sul perdono in un’epoca in cui tutto sembra spingere all’odio, alla divisione e al contrasto.

La domanda su come si possa uscire dalla catena di azione e reazione, di causa ed effetto sembra centrale nel teatro odierno. Lo testimoniano l’Orestea di Anagoor, come quella di Milo Rau ambientata a Mosul. Se però queste ultime si rifanno al mito e alla grande Storia, Settanta volte sette, si concentra sul quotidiano anonimo, su quello che troviamo ogni giorno sul giornale e che potrebbe accadere ovunque e in ogni momento. Sebbene con un pizzico di retorica che forse si poteva abbandonare, Collettivo Controcanto ha il merito di fissare l’occhio non sulla grandiosità dell’evento delittuoso, sulla sua magnificenza, quanto appunto sul trascurabile e comunissimo, ma è il granello di polvere a creare la valanga. Una briciola pesante come una montagna per rimuovere la quale serve tutto il coraggio del mondo.

Visto a Torino il 14 novembre 2019

Leonardo Lidi

ANTIREALISMO E VERITÀ NE LO ZOO DI VETRO DI LEONARDO LIDI

Lo Zoo di Vetro che il giovane e talentuoso Leonardo Lidi porta in scena al LAC di Lugano pone sin dalla prima battuta alcune interessanti e scottanti questioni sul teatro contemporaneo. Prima fra tutte il rapporto tra la scena e la verità. Ecco le parole iniziali di Tom Wingfield: “Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico”. Sembra dunque che in questo momento storico, che potremmo chiamare, seguendo l’orma di Noah Harari, della post-verità, il teatro riassuma in sé la primigenia funzione di velo disvelante. Fingendo si dice la verità o, meglio, si pone una verità possibile sul terreno di discussione comune con lo spettatore.

Leonardo Lidi, nuovamente alle prese con un universo familiare dopo Gli spettri di Ibsen alla Biennale di Venezia 2018, decide di affrontare la verità portata dal testo di Tennessee Williams attraverso un meccanismo rappresentativo antirealistico. La casa rosa e stilizzata come in un disegno di bambino circondata da un mare di palline di polistirolo azzurro sono due mondi diversi: la famiglia nel tempo del racconto, e l’età del ricordo, in un altrove futuro, lontano ma ancora imbrigliato in quella dimora. Entrambi sono artificiali ma non simbolici. Sono rappresentazione di un costrutto mentale dei personaggi e di Tom Wingfield, narratore ed evocatore. La regia dunque si discosta dalla maniera consueta ligia a un realismo borghese, per sfruttare la forza di un immaginario capace di smuovere sentimenti e sensazioni.

Ultimo elemento: la maschera clownesca, quello schermo, strumento rituale e antico, capace di far parlare le voci e le forze che stanno oltre l’interprete. Tutto è dunque finzione e artificio, ciò dunque che è più lontano possibile da una supposta realtà. Essa però è oggi sfuggente, relativa, essa stessa virtuale. Eccoci dunque alla domanda fondamentale: non resta che abbandonarsi a una spudorata finzione per giungere a una verità? In poco più di cento anni il “Non ci credo” di Stanislavkij è diventato non solo inutile ma anacronistico? La proliferazione di mondi possibili, più o meno virtuali, che la vita contemporanea ci costringe ad attraversare, ci ha condotto, volenti o nolenti, alle origini del teatro, dispositivo di menzogna portatore di riflessione sulla realtà del mondo. Di certo tutto questo ci ha anche costretto a porsi la questione fondamentale delle funzioni della scena che per troppi anni è stata data per scontata.

Una dichiarazione di intenti ambiziosissima da parte di Leonardo Lidi, regista di soli trentuno anni, ma condotta e sviluppata con abilità. Forse dobbiamo finalmente abbandonare l’idea che la giovinezza di un autore sia anche sintomo di immaturità compositiva. Thomas Mann pubblicò i Buddenbrook a ventisei anni, John Cage sperimentò il pianoforte preparato a ventotto, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il futurismo a trentatré. Ossessionati dalla questione Under 35 ci stiamo dimenticando che a trent’anni si è adulti, solidi e maturi, pronti ad affrontare prove difficili e Leonardo Lidi ha già dimostrato ampiamente di essere in grado di aggredire anche i classici più ostici e dirigere attori di grande personalità e abilità.

La scelta antirealistica di Leonardo Lidi si sviluppa anche è soprattutto nel corpo degli attori, nella loro fisicità astratta, quasi di automi meccanici, costretti a protocolli operativi di cui si sia perso il senso. Si mimano gli oggetti mancanti: la tavola, il candelabro, la tovaglia stesa, i piatti lavati e, soprattutto, gli animaletti di vetro di Laura Wingfield, la cui assenza rende ancora più evidente il loro ruolo di rifugio nell’illusione. I costumi e le abnormi scarpe tipiche dei clown costringono a movimenti innaturali e goffi. L’unico personaggio che partecipa in qualche modo al nostro mondo è Jim O’Connor, ponte verso una normalità aggressiva, volta a impoverire l’unicità degli altri personaggi, e per questo più libero e sciolto nel corpo aderente a una quotidianità assente dalla scena.

Indovinato l’inserimento de “la casa stregata” di Topolino proiettato sulla parete schermo della casa rosa dei Wingfield. Non solo simbolo dell’ossessione per il cinema di Tom e suo personale luogo di evasione dal reale ma anche icona della fuga impossibile dai fantasmi del passato con cui termina Lo Zoo di vetro e di cui non ci si libera mai. Si è sempre in qualche modo presi dalla loro ragnatela polverosa e questa verità ancora una volta viene proferita da uno strumento di finzione, il cartone animato, inserito come scatola cinese nella rappresentazione.

Una prova matura e colma di interessanti spunti quella di Leonardo Lidi, abile soprattutto nel saper mescolare ritmi e sentimenti e nel modulare i toni del dramma oscillando tra gli estremi senza mai abusare.

Unica leggera perplessità la scelta della maschera clownesca. Essa è evocatrice di mondi oscuri, demonici, di forze irruenti collegate a un universo infero, più legata al grottesco, – pensiamo alla forza prepotente del recente Joker di Todd Phillips, splendidamente interpretato da Joachin Phoenix – piuttosto che non al delicato e fragile mondo da casa di bambola disegnato dalla regia. I clown che abitano questo Zoo di vetro sono invece più legati al cliché della tristezza e malinconia del pagliaccio dunque più costume che maschera, più immagine e ambiente che segno. Ma questo è forse un cercare il pelo nell’uovo in uno spettacolo che riesce a toccare il cuore e la mente dello spettatore.

Visto al LAC di Lugano il 4 novembre 2019