Per la cinquantatreesima e ultima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Marta Abate e Michelangelo Frola di Scena Madre. Con questa di oggi si conclude Lo stato delle cose, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Scena Madre è un gruppo che nasce in Liguria nel 2013 da un’idea di Marta Abate e Michelangelo Frola. Nel 2014 vince il Premio Scenario Infanzia con La stanza dei giochi. Tre è il loro ultimo spettacolo.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La caratteristica più importante della nostra creazione scenica è forse la PRESENZA, intesa in diversi significati.
La presenza fisica, gli uni di fronte agli altri. Se pensiamo ad esempio a TRE, la nostra ultima produzione, individuare il cast non è stato semplice anche per questo motivo, perché è stato lungo il processo attraverso il quale trovare 3 performer con una certa presenza scenica che stavamo cercando, e la cui presenza trovasse un equilibrio con quella degli altri due. Non è nemmeno tanto semplice da spiegare, ma l’idea è che ogni persona, attraverso la propria semplice presenza scenica, sia portatrice di un linguaggio unico, una vera e propria lingua. Dunque con 3 persone in scena ognuna parla una lingua diversa, ognuna con la sua ricchezza. E il punto è fare sì che queste lingue diverse riescano in qualche modo a comunicare tra di loro, a trovare una modalità per comprendersi, ascoltarsi, parlarsi.
Essere presenti a se stessi. Viviamo ormai in una società dove possiamo essere contemporaneamente qui e altrove, perlomeno virtualmente. Posso essere fisicamente con te e parlare con te e allo stesso tempo, solo guardando il telefono, posso essere in decine di luoghi diversi con altre persone, a comunicare anche con loro. In un certo senso siamo in tanti luoghi contemporaneamente ma non siamo mai PIENAMENTE da nessuna parte, con tutti noi stessi. Questo per noi è molto importante, che chi è presente nella creazione scenica sia presente davvero, con tutto se stesso.
Essere qui e ora. Tante cose, nella nostra creazione, non avvengono perché preparate a tavolino ma proposte sul momento, nell’ascolto di ciò che sta avvenendo in quel momento. Non importa cosa è successo nelle prove il giorno prima, cerchiamo di ascoltare quello che sta succedendo in quel preciso momento.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Ovviamente il nostro punto di vista è quello di una piccola compagnia.
Servirebbero percorsi di accompagnamento nel medio-lungo periodo, che dessero alle compagnie una sicurezza un minimo duratura nel tempo. Residenze, bandi ecc. sono sicuramente opportunità ottime, ma di breve durata, non consentono una progettazione con un ampio orizzonte temporale. Tutto diventa quindi pensato per l’immediato o quasi, per il breve tempo concesso in questa opportunità-oasi. E terminata l’acqua dell’oasi? Si troverà un’altra oasi? Chi può garantirlo? E quanto dista la nuova oasi, quanto deserto c’è da attraversare? Chi ci accompagnerà? E quanta acqua troveremo là e a quali condizioni potremo berla?
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Sempre dal punto di vista di una piccola compagnia, sarebbe auspicabile una riduzione della succitata impermeabilità dei circuiti e che aumentasse (e di molto) il dialogo tra teatri stabili e realtà indipendenti.
In questo senso, la pratica degli “scambi” non aiuta certo la situazione, anzi. Diventa un muro di gomma impossibile da attraversare se non si hanno possibilità di scambio da mettere in gioco.
Sarebbe bello che gli operatori delle realtà stabili e affermate andassero più di frequente a visionare le produzioni indipendenti, che fossero più curiosi nei confronti di ciò che accade “fuori”, più aperti ad accogliere produzioni valide anche se provenienti da realtà poco conosciute.
Dal punto di vista delle azioni, vediamo tanti bandi di sostegno alla produzione, di ricerca di nuove produzioni, e pochissimi di sostegno alla distribuzione. Forse bisognerebbe partite da lì, dallo smettere di chiedere in continuazione nuove produzioni su nuove produzioni e si progettassero bandi per sostenere la circuitazione di produzioni già esistenti.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Non sappiamo dire quale sia la “funzione” della creazione scenica nel mondo di oggi. Quello che però vediamo sono gli effetti sulle persone, sia chi vi assiste come spettatore di uno spettacolo sia chi vi prende parte attiva come partecipante a un laboratorio.
Quello che percepiamo, alla fine, è una sensazione intensa che è un misto di gioia, senso di appartenenza, soddisfazione, liberazione da un peso.
Come se in fondo ci fosse la consapevolezza che questo continuo legame tra offline e online non fa bene, non ci rende felici, non ci appaga, ma allo stesso tempo non fossimo capaci di staccarcene. Una sorta di dipendenza di cui percepisci gli effetti negativi ma da cui non riesci a liberarti.
Ecco, forse la creazione scenica, da spettatore e da performer, è un momento in cui riusciamo a essere liberi da questa dipendenza, questo tira e molla tra virtuale e reale. E sentiamo che ci fa bene, ci fa profondamente bene.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Per noi, il confronto con la realtà è fondamentale. È da essa che partono quasi tutte le nostre idee sceniche. Ma le uniche possibilità non sono per forza imitazione della natura o opposizione ad essa.
Per noi esiste anche la strada della rielaborazione, che è un partire dal sentiero della realtà e muovervi i primi passi per poi deviare e percorrere un sentiero tutto nuovo, a volte parallelo, ma ancora non battuto.
Gli strumenti per confrontarsi con il reale sono pochi e sempre gli stessi:
un grande ascolto e osservazione della realtà (sia a livello individuale del singolo comportamento sia a un livello più ampio di dinamiche sociali, tendenze della comunità) e di ciò che essa produce (prodotti culturali, artistici, politici, di informazione…).
Una buona dose di ironia, di capacità di sorridere di noi stessi e delle nostre incoerenze, goffaggini, piccole e grandi miserie.
È così, forse, che si può provare a cercare e creare poesia nella realtà, là dove poesia tante volte non c’è.
Per la cinquantunesima e, a meno di arrivi in zona cesarini, ultima intervista incontriamo Caterina Pontrandolfo. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Caterina Pontrandolfo è attrice, performer, drammaturga, regista, poetessa, cantante e ricercatrice lucana, conduce un’articolata attività artistica che sviluppa in molti ambiti espressivi: dal teatro, al cinema, alla scrittura, alla ricerca etno-musicologica e antropologica, al canto popolare. E’ ideatrice e direttrice artistica del progetto Peace Women Singing.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La creazione scenica è un lungo processo che parte da lontano, e ha per me caratteristiche sempre diverse, secondo che parta dalla scrittura ad esempio di un testo originale, oppure da un canto, oppure dall’innamoramento per le storie, le biografie. Ma anche per i luoghi, da cui inizio per costruire progetti che coinvolgono diversi aspetti: dalla ricerca antropologica ed etno-musicologica sul campo, raccogliendo decine e decine di interviste, alle fasi di laboratorio che in genere mettono insieme artisti professionisti e non professionisti, alla fase di scrittura che è sia scrittura scenica chea tavolino, alla fase di allestimento vero e proprio come sintesi ultima di tutto questo ampio processo. La questione creativa in genere incomincia a manifestarsi quando mi passa per la mente un’”immagine”, e magari si sta nel frattempo lavorando a tutt’altra cosa. E’ chiaro che si tratta di un’immaginazione inserita in un processo più ampio di continua relazione con la realtà, con le riflessioni che dalla sua osservazione scaturiscono in connessione con la propria storia artistica e umana. Questa immagine la definirei l’immagine-madre: è in genere un’immagine, o una serie di immagini, molto precisa che mi suscita emozione, felicità, desiderio di raggiungerla. E’ qualcosa di molto concreto, non astratto, che prevede fin da subito la presenza di un pubblico. Intorno a questa immagine-madre ecco che incominciano a muoversi diversi elementi, si attivano cioè tutte quelle azioni necessarie e indispensabili per arrivare alla creazione-realizzazione vera e propria sulla scena. Quando lavoro a progetti miei, amo curare ogni cosa: dalla ideazione, alla progettazione, alla ricerca di fondi, e di collaborazioni. Sulla scena ecco che poi questa immaginazione iniziale da cui è scaturita la concretezza del fare, dialoga, si muove e cresce come un pane lievitato. In questo senso forse la peculiarità della creazione scenica è proprio la trasformazione di elementi inizialmente separati in un sistema coerente di segni in grado di costruire l’emozione e l’interesse dello spettatore, visto non come entità anonima e astratta, ma come “proprio sguardo”. Quindi anche in fase di creazione il mio proprio sguardo, sdoppiato anche in sguardo di spettatrice, agisce come guida, senza pretese naturalmente di verità assoluta. L’efficacia di tutto questo processo creativo, la sua buona temperatura, inoltre ha a che fare per me con una condizione emotiva molto precisa che oserei dire di “felicità”.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Sicuramente coordinare meglio sia l’informazione relativa alle molteplici possibilità finanziarie esistenti oggi per la produzione, sia semplificare questi strumenti stessi per aumentare la capacità di accedere a queste fonti produttive. L’informazione e la facilitazione poi dovrebbe soprattutto riguardare gli strumenti finanziari della Comunità Europea e noi artisti stessi affacciarci maggiormente sulle immense possibilità di scambio economico e artistico che derivano dal far parte di questa Comunità. Pensarsi più europei gioverebbe sicuramente alla capacità di sfruttare queste grandi possibilità che arrivano dall’ Europa. Un ragionamento poi dovrebbe essere quello di favorire artiste/i e gruppi nella continuità produttiva per rafforzare il processo di ricerca che si va compiendo, piuttosto che finanziare singoli progetti. Molti e molte artiste della mia generazione hanno imparato a cercare i fondi per la realizzazione dei propri progetti artistici. Nulla di nuovo in realtà perché anche l’antica tradizione del capocomico presumeva questa capacità di cercare le fonti finanziarie per realizzare i propri spettacoli, una fra tutte: Isabella Andreini, e staimo parlando del ‘500. Forse oggi bisognerebbe avere anche il coraggio di fare un teatro d’arte non sovvenzionato, ma basato sugli incassi come insegna tutto il teatro del primo Novecento, quando non c’era un sistema di sovvenzioni pubbliche. Per progetti più complessi però è indispensabile l’accesso a fonti finanziarie pubbliche o private. Anche qui sarebbe opportuno creare le basi per la continuità progettuale di artisti e compagnie.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Sì è cosi. A tutti i livelli e in tutti gli ambiti dal teatro, alla musica, alla danza ogni anno c’è davvero un’esplosione produttiva segno di grandissima vitalità, che però non è sostenuta da una efficace rete distributiva. Non solo le piccole e medie realtà, anche i teatri stabili/nazionali soffrono di questa questione. Anni fa come attrice coinvolta in un interessantissimo progetto di produzione all’interno di uno dei nostri Teatri Stabili, mi stupii della mancata circuitazione di queste produzioni. Mi chiedevo come fosse possibile da un punto di vista meramente economico, investire senza avere la preoccupazione di un rientro dell’investimento se non totale, almeno parziale. Credo che la distribuzione sia proprio una debolezza strutturale del nostro sistema. E’ molto difficile ad esempio seguire il percorso di un artista e se magari perdi quell’occasione di vedere quello spettacolo in quel festival o in quel cartellone non è detto che se ne presentino altre. Poi ci sono i circuiti chiusi e invalicabili nei quali si muovono solo alcuni, come se ogni circuito avesse a cuore una sua precisa e incontestabile identità senza aprirsi al nuovo, anche con i rischi che questo comporta, senza curiosità. La sensazione è di una grande frammentazione. E sembra davvero un paradosso. Io stessa nella mia vita professionale, dal momento in cui ho cercato di muovermi autonomamente ho prodotto molto a tutti i livelli: spettacoli che ho scritto come autrice e per i quali ho trovato alcuni canali produttivi attraverso teatri, festival oppure in co-produzione, o attraverso premi di produzione, residenze etc… Anche quando ho elaborato percorsi più complessi che hanno previsto lunghe fasi di elaborazione e ricerca, coinvolgimento nel processo di creazione di comunità articolate di artisti e abitanti ad esempio, sono stata in grado di realizzare cose importanti. Ma la circuitazione di quanto prodotto non è il passaggio naturale successivo. Non sarebbe una cattiva idea pensare a strumenti finanziari che sostengano la distribuzione oltreché la produzione. C’è anche un’altra questione: gli strumenti finanziari attuali, per quanto importanti e necessari, è possibile che non diano l’incentivo agli artisti e alle compagnie di attrezzarsi per la distribuzione dei propri lavori. Allora forse guardarsi indietro e vedere quello che facevano le Compagnie d’Arte degli inizi del secolo scorso quando dovevano basarsi solo sul pubblico e sugli incassi, potrebbe spezzare questo anello debole e magari dare nuovo slancio per non subire questa questione.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Durante la quarantena personalmente ho vissuto con molta difficoltà e soggezione la questione di trasferire online la consueta attività dal vivo. Provenivo dal mio ultimo progetto “Peace Women Singing” realizzato a Matera in settembre 2019. Un progetto impossibile senza la sua dimensione reale, considerato che in scena c’erano circa 50 cantore provenienti da diversi paesi del Mediterraneo: il viaggio, lo scambio e la relazione internazionale, la complessa creazione di tre spettacoli inediti e la realizzazione di performance di canto nei vari paesi coinvolti nel progetto. Tutto questo sarebbe stato impossibile da realizzare senza il piano di “realtà” e il piano connesso di “libertà” dell’agire artistico. Sono innamorata dello spettacolo dal vivo e il pubblico reale l’ho sempre vissuto come un indispensabile compagno di viaggio, una presenza da accudire, senza retorica. Nei miei lavori, c’è sempre ad esempio un momento di condivisione del cibo con gli spettatori, un momento di laceramento e annullamento della cortina del piano di ascolto e di quello dell’azione scenica, per una necessità di attrarre a sé, come se la scena dal vivo divenisse un precipitato di gravitazione verso cui anche i corpi degli spettatori devono ad un certo punto muoversi. Questa dimensione è naturalmente impossibile con il virtuale. Ci sono in questo senso diversi problemi da considerare. Se persino un’artista come Patty Smith viene improvvisamente esautorata della sua consueta aura a causa di una diretta Facebook da casa sua, bisogna riflettere sull’uso di questi mezzi, anche se “apparentemente” necessario in questa fase.
C’è indubbiamente una questione di “estetica” dell’atto artistico su queste piattaforme di cui è necessario avere consapevolezza, proprio per non perdere di autorevolezza. La facilità di utilizzare questi strumenti virtuali, piazzando il proprio telefonino per una ripresa immediata, riduce moltissimo il livello di attenzione che normalmente abbiamo quando andiamo in scena dal vivo e “ci prepariamo” all’incontro con il pubblico reale in tutti i sensi: indossiamo un abito, un costume o un trucco, ci muoviamo su una scena sapientemente nuda o illuminata che sia, danziamo, cantiamo o recitiamo dopo aver provato a lungo e solo quando siamo pronti all’incontro apriamo “le porte” per la visione. Ho notato molta sciatteria nelle dirette Facebook cui ho assistito, non molta consapevolezza artistica, poca creatività nell’uso di questi mezzi. Questo non giova all’arte, ma solo ai proprietari di queste piattaforme che continuano ad avere e a sfruttare gratuitamente i nostri contenuti.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Io credo che in arte la deroga ad interrogarsi sulla realtà non avverrà mai. E questo è un bene. Per sua natura penso che l’atto artistico si collochi sempre nel dialogo con la realtà, sia essa definita come ciò che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, sia essa definita come risultato della stratificazione delle storie dell’umanità che ci ha preceduto fino a qui e di cui rimangono tracce persino concrete nei nostri corpi. Un dialogo sempre fertile anche se apparentemente celato, o smarrito o non immediatamente intelligibile nell’esito dell’opera di cui diveniamo artefici o anche spettatori e spettatrici. Certo viviamo una realtà complessa fatta di diversi piani anche artificiali. Forse il compito di un’artista oggi è quello arduo di semplificare questa complessità. Guardando ad esempio alla mia storia, ad un certo punto per me il confronto con la realtà ha messo in luce una mancanza: il canto. Da questa mancanza sono partita per ridisegnare il mio agire artistico, scoprendo poi che questa mancanza aveva a che fare non solo con me ma con un’ampia compagine, più grande di quanto immaginassi. Dunque forse uno strumento efficace è sempre la consapevolezza estetica ed etica di partire da un sé che dialoga con il mondo, lo osserva e si osserva e si interroga e cerca un luogo da cui poter dire la sua senza pretese, ma con grande cura.
Senza però la dimensione del sogno, anche questo confronto necessario con la realtà sarebbe inutile, o sterile. E questo è un ulteriore passaggio necessario e intramontabile in arte. Mi vengono in mente figure della mia infanzia in Lucania: artigiani che intagliando alla perfezione il legno, o lavorando con sapienza il ferro, o aggiustando minuziosamente un paio di scarpe, dunque completamente immersi e in dialogo con la propria realtà quotidiana, rompevano il silenzio e parlavano del Cosmo e delle Stelle, o di fatti prodigiosi frutto ne sono certa della loro fantasia, producendo incantamento, cioè la cellula prima del patto tra chi narra e chi ascolta.
Per la cinquantesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Natiscalzi DT attraverso Tommaso Monza, uno dei due coreografi fondatori. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Natiscalzi DT nasce nel 2016 dal connubio tra Tommaso Monza e Claudia Rossi Valli. Tra i loro lavori ricordiamo: Gabriel, Tutto il sole di Oggi, Mary’s Bath, Annotazioni per un Faust.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La scena necessita di relazioni, senza queste non si sviluppa una comunicazione e un territorio di ricerca etica ed estetica.
Inoltre l’arte è sempre affiancata dall’artigianato, dal saper fare, quindi le maestranze che compongono il mondo dello spettacolo dal vivo quali tecnici, macchinisti, designer audio, luci, video, progettisti, drammaturghi, referenti amministrativi, promozionali e manageriali sono fondamentali per far vivere la creazione scenica e bisogna battersi per preservare tutte queste identità. Così come gli spazi adeguati: ci sono momenti in cui la ricerca può essere fatta in sala, all’aperto, per strada, poi, quando la ricerca vuole diventare produzione, gli spazi e le esigenze cambiano e ci vogliono i luoghi adatti ai progetti, per mantenere sempre un dialogo aperto e non in sofferenza.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
La prima cosa importante da mettere in atto, sarebbe un sostanziale aumento delle risorse economiche; perché è vero che i bandi a cui candidarsi sono aumentati di numero, ma è altrettanto vero che molti bandi richiedono produzioni originali spingendo gli artisti alla produzione bulimica che spesso non tiene conto delle esigenze e delle tempistiche di sviluppo di un pensiero artistico. Il risultato è che molto spesso, dovendo rincorrere le richieste del bando, i progetti artistici restano incompiuti , e bisogna quasi sempre decidere cosa è necessario sacrificare nel processo. Ogni tanto è la profondità di ricerca del lavoro, altre volte è il numero degli interpreti che si vorrebbe mettere in scena, altre ancora è l’aspetto illumino-tecnico o sceno-tecnico. Il sistema bandi sostiene troppo spesso progettualità momentanee, mentre la poetica dell’artista avrebbe bisogno di svilupparsi in direzioni e tempistiche proprie.
Inoltre bisognerebbe attuare una strategia reale di promozione delle arti performative rivolta ai pubblici, ripartendo da programmazioni allargate e applicando il concetto di multidisciplinare o interdisciplinare anche alla visione dei pubblici, favorendo l’eterogeneità della proposta culturale e della composizione delle platee, a discapito dei concetti di nicchia che minano in profondità la diffusione di linguaggi altri. Troppe volte ci si vincola a dei preconcetti rispetto ai pubblici e alle proposte da fare in determinate località. L’Italia è un paese che ha un territorio bello ma aspro, costellato di paesi più o meno piccoli, in zone apparentemente remote, ma è proprio in queste periferie che bisogna proporre cultura, non solo nelle grandi città in cui addirittura la proposta risulta inflazionata. Per far questo servono scelte coraggiose e poi dedizione e accompagnamento dei pubblici… dovrebbe essere un atto di amore verso il prossimo, la voglia di andare incontro all’altro.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Credo che dovremmo metterci nell’ottica che proporre arte è un servizio pubblico. Fare e pensare arte non è necessariamente un atto comunitario, ma nel momento in cui si propone una progettualità artistica agli altri e si usano fondi pubblici per farlo, l’obbiettivo deve diventare che l’arte sia patrimonio dei più. Per far questo quindi bisogna mettere da parte il concetto di concorrenza dettato dai numeri e iniziare a lavorare a visioni di cooperazione. Ciò che accade quando i festival si accordano per far circuitare le grandi compagnie straniere in Italia, dovrebbe capitare a tutti i livelli… Dopo tanti anni trovo ancora sconcertante che in molti settori dello spettacolo dal vivo non si riescano a pianificare più repliche in una stessa area geografica, ammortizzando i costi di viaggio per tutti e per una visione più ecologica del nostro agire.
Credo poi che andrebbero tutelati e ridefiniti i nostri ruoli: la multidisciplinarietà non dovrebbe significare che io coreografo devo fare anche il promoter, l’organizzatore, l’amministratore e il responsabile logistica e non dovrebbe nemmeno significare che i direttori di stagioni, di festival e organizzatori impongano linee artistiche a priori senza dialogare con gli artisti. Ancora una volta è il rispetto per le maestranze, la cooperazione fra esse e il budget investito per farle cooperare che renderebbero più forti le proposte a tutti i piani di lavoro, dalla piccola rassegna al grande festival.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Credo che ognuno si costruisca la propria realtà a cavallo fra tangibile e virtuale, e si crei una propria dimensione seguendo il proprio sentire a riguardo. Trovo che lo spettacolo dal vivo nel rapporto con i nuovi media non debba dimenticare che è esso stesso un media. Non voler inglobare a tutti i costi altre forme di comunicazione o forme artistiche in processi che non sono sempre traducibili nello spettacolo dal vivo o nel digitale. Prendiamo ad esempio il concetto di Tempo nell’opera: l’accadimento in tempo reale fa dello spettacolo dal vivo un accadimento unico; lo streaming di questo è soltanto in apparenza una diretta, passa inevitabilmente una frazione fra quando il video viene percepito, ritrasmesso e riprodotto.
Inoltre il tempo condiviso tra pubblico e artisti è un tempo con una qualità totalmente diversa da quello di chi guarda a casa uno spettacolo teatrale.
D’altra parte il web mi permette di lavorare con artisti molto lontani e di restituire un’ opera d’arte virtuale a un pubblico altrettanto lontano: questa è un’opportunità che non potrebbe accadere dal vivo.
Di fatto sono due media diversi che usano alcune dinamiche di ricerca simili ma poi puntano a risultati molto distanti come la scultura figurativa e la danza: entrambe si interessano dello spazio, del tempo e del corpo umano, ma il risultato è visibilmente diverso e raccontano due tensioni diverse.
In definitiva credo che il ruolo dell’atto “dal vivo” rimanga sempre lo stesso senza essere intaccato realmente dal confronto con il digitale: Creare un evento con un gruppo di persone che condividono medesimo luogo, tempo ed esperienza.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
In questa domanda trovo un grande interrogativo, e non so se riesco a dare una risposta, posso però dare un punto di vista molto personale: Credo che nell’osservare e riflettere sulla realtà in molti casi si scada nel voyerismo della realtà stessa senza aprire un piano altro. Questo forse deriva proprio dal rapporto con i nuovi media dove non vi è più bisogno di imitare la realtà ma basta spiarla.
L’imitazione è comunque un processo di apprendimento e anche una mistificazione, se penso all’ invenzione della prospettiva, proprio atta a migliorare l’adesione con la realtà, vedo un grosso processo di ricerca e di comprensione di leggi e sensazioni che hanno restituito non la realtà vera ma un approccio alla lettura della realtà. Trovo invece che il pericolo dei nuovi media, sia proprio quello di dar più valore alla visione anziché all’elaborazione attraverso l’arte della stessa.
Il reale resta per tutti comunque un punto di partenza, perché se penso ai videogiochi, probabilmente l’avanguardia del virtuale, c’è il tentativo di restituire un’esperienza il più reale possibile attraverso la creazione di altri mondi.
Alla fin fine è uguale al gioco del teatro, dove nessuno muore davvero.
Credo solo che non si debba perdere il mistero di approcciare alle cose, senza darle per scontate, essere un po’ ignoranti ma con voglia di sapere di più fornisce modalità di indagine del mistero della vita e creazione di nuove modalità. Il Dubbio è ciò che ci muove.
Poi per gusto personale ritornerei a preoccuparmi del simbolo come chiave di lettura della nostra realtà aumentata.
Per la quarantanovesima intervista restiamo a Torino per dialogare con Francesca Cola. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Francesca Cola è coreografa e danzatrice e vanta numerose collaborazioni eccellenti tra cui ultima quella con Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori ricordiamo In luce, vincitore del premio Dante Cappelletti, Non me lo spiegavo il mondo, I’ll be your mirror, Stato di grazia.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Da quando ho iniziato a frequentare il linguaggio della scena alla base del quale c’è, per quanto mi riguarda, un modo di essere incarnata, una natura, ho attraversato varie fasi di creazione il più delle volte spinta dalla necessità di trovare un modo di tradurre a me stessa il mondo e le sue contraddizioni, le sue leggi e lingue babeliche a me spesso incomprensibili. Cercare l’incanto, la grazia, il segreto in frammenti privilegiati di tempo, nonostante tutto. Perciò le specificità della creazione dipendono molto dal presente, da ciò che avverto attorno, in cui sono immersa. Mi sono modificata e raffinata nel tempo ma direi che ciò che è rimasto immutato è il nesso tra il “dentro” e il “fuori”, tra la percezione che ho del mondo e il mondo stesso, il suo rivelarsi in splendore e terrore, la ricerca di energie sottili. Il lavorare attraverso l’intreccio di linguaggi (corpo, immagine, suono), ha ancora per me l’intima funzione di mettere ordine e tentare di dare un significato a una realtà che, rivelandosi, mi lascia con domande perplesse. A volte riesco ad abbandonare questa pretesa e resto in contemplazione del caos contraddittorio che è cifra della dimensione terrestre per poi sentire come si deposita in me.
Quindi, per essere efficace in questo momento, per me il processo creativo non può ignorare la relazione che intercorre tra il paesaggio interiore delle creature e quello esteriore (che sia urbano o naturale), in cui sono immerse. Comprendere le connessioni tra queste realtà richiede un tempo di ascolto di ciò che accade attorno e dentro, richiede il fare un passo indietro rispetto al desiderio di essere protagonisti ombelicali. La creazione efficace quindi attiva processi interni in profondo dialogo con quelli esterni, genera nuovi spazi di senso, lascia una traccia gentile e feroce. Rende evidente la genialità della vita che supera in notevole misura quella scenica.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Che cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Credo che le questioni siano molte ma tutte riconducibili a un’unica radice: dinamiche di potere che affondano in un terreno concimato da distopiche leggi economiche. I bandi rispecchiano ancora troppo spesso un’obsoleta differenziazione tra danza, teatro, arte visiva. Sono contenutisticamente limitati sia nella proposta tematica che nell’offerta di condizioni economiche. Imbrigliare entro questi limiti il processo creativo non significa organizzare le condizioni per sostenerlo; significa, al contrario, piegare la creazione alle logiche di sostegno, a parametri rendicontabili e statistici. Mi sono spesso chiesta se Pina Bausch,Peter Brook o Bob Wilson avessero dovuto produrre le loro opere entro i parametri di una call come quelle che proliferano in questo periodo…cosa avrebbero fatto? Sarebbero ugualmente riusciti a produrre le opere che conosciamo?
I festival e le rassegne sono impermeabili. Le scelte degli operatori non garantiscono una reale circuitazione di creazioni e artisti. Le reti ci sono ma sono precluse a molte proposte e il rischio è l’avere rassegne che presentano programmi pressoché identici. Diciamo che, per non andar fuor di metafora, il pescato di quelle reti è spesso lo stesso e questo non è certo garanzia di qualità.
Il dialogo tra operatori e artisti non è semplice e di frequente non è un confronto alla pari. Soprattutto nel caso in cui l’operatore è stipendiato regolarmente da un’istituzione e ha il potere di decidere la presenza o meno di un’artista in un determinato progetto ecco, la relazione è impari e si gioca su una ben poco raffinata e implicita dinamica ricattatoria.
Personalmente ho trovato le mie soluzioni. Limito all’eccezione la partecipazione ai bandi (sono anche over 35 pertanto la selezione mi è decisamente facilitata vista la proliferazione di bandi con questo limite d’età). Collaboro esclusivamente con realtà che possano garantire un dialogo virtuoso dove le differenze di ruolo siano chiare e definite con consapevolezza senza frustrazione alcuna. Questo mi ha permesso di essere sostenuta con stima, accoglienza delle proposte progettuali e dignità economica. Nella realizzazione di Stato di Grazia prodotto da Oltre le Quinte, per esempio, si è realizzato un circolo virtuoso tra attori in gioco e il vantaggio è stato collettivo: l’operatore culturale ha portato “a casa” gli obiettivi dei progetti oggetto di bandi con cui ha finanziato le azioni, l’artista ha realizzato l’opera in condizioni produttive ottimali, i fruitori attivi e passivi dell’opera hanno giovato di un nuovo modo di guardare al prodotto artistico e infine l’ente finanziatore (che in verità in questa filiera creativa è il primo), ha visto una ricaduta positiva del proprio investimento.
Gli enti finanziatori in questo caso erano Banche e Fondazioni italiane; parte dei fondi che verranno impiegati nella declinazione futura di questo progetto che non si conclude in un unico spot, derivano da un bando Interreg Italia Svizzera. Sono certa tuttavia che siano percorribili altre strade per esempio il coinvolgimento delle realtà aziendali. Varrebbe la pena in un momento come questo, ristudiare e trovare il modo di riattualizzare il virtuosissimo modello Olivettiano di relazione tra azienda-cultura e territorio, o studiare ciò che ha funzionato in tempi più recenti con Fabrica, epicentro culturale di Benetton.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Il tema è da studiare. Il modo è da rifondare.
Credo che non si possa cercare una soluzione se non andando alla radice del problema che è ciò di cui ho parlato sopra: i circoli virtuosi si attuano là dove persone di diversa formazione e peculiarità lavorano in modo interconnesso mirando ad un obiettivo comune. Forse è da ricollocare, riconsiderare l’obiettivo comune?
Prima della distribuzione credo sia da prendere in considerazione il problema della percezione che la collettività ha della funzione dell’artista nella società contemporanea e quindi del prodotto artistico. Riconsiderato questo, allora si può analizzare il tema della distribuzione dal punto di vista del binomio domanda/offerta.
Di certo il sistema in Italia è evidentemente oligarchico e il circuito è sempre più riservato sia per chi partecipa come creativo che per il pubblico coinvolto. Uscire dall’autoreferenzialità del sistema prevede una rimessa in gioco e una riconsiderazione degli obiettivi.
Riconsiderati questi, allora si apriranno i giusti spazi di collocamento delle creazioni.
Sento comunque necessario un coordinamento più chiaro e definito tra artisti e un dialogo più onesto tra questi ultimi, i programmatori e soprattutto i fruitori delle opere. Allora ecco che non è più possibile nascondersi dietro a mal riuscite pratiche di “audience engagement”.
Insomma, per dirla in modo un po’ pop: Up patriots to arms! Engagez-Vous!
Il cambiamento va oltre le barricate o ai falsi miti rivoluzionari creati per gli ‘oppressi’ dagli stessi ‘oppressori’, il cambiamento deve essere cifra nuova, di radicale e feroce gentilezza che non può non nascere da un confronto, uno studio discusso. La soluzione sta nell’essere davvero partecipi del mondo: “noi siamo delle lucciole, che stanno nelle tenebre”.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Credo sia necessario spostare il pensiero da una visione dicotomica perché gli intrecci sono complessi, così come complessa e sfumata è la realtà. Il virtuale esiste ed ha indubbiamente migliorato alcuni aspetti della nostra vita e delle possibilità sceniche. Tuttavia funziona se ben intrecciato al reale. Di certo il virtuale non può sostituire il reale pena conseguenze alla Black Mirror.
Se per virtuale si intende la relazione che in questo decennio abbiamo consumato attraverso i social allora guardo a questo virtuale (di cui sono fruitrice consapevole), l’attualizzazione contemporanea del mito della Caverna Platonica. Dalla Caverna virtuale ha origine la Doxa, l’opinione e con questa tutto il sistema pre-giudicante e illusorio a corollario in cui siamo immersi con la nostra sensibilità.
Il Lockdown ha evidenziato ulteriormente la metafora: l’uomo obbligato a restare chiuso in casa come in una caverna, costretto a fissare sul fondo le ombre proiettate dalla luce che arriva da fuori: l’unica realtà, l’unica esperienza sensibile. Tutti immersi nelle ombre che scorrono davanti ad un PC, a uno smartphone, a un display. La conoscenza e l’esperienza sono orientate verso links, incredibili possibilità terribilmente limitate. E’ il tempo del post – verità. È nella caverna che vive la finzione di quella rappresentazione. L’energia e l’impulso vitale diventano immobilità mortificata. Nella caverna digitalesi cristallizzano gli stati d’animo, i sentimenti, le sensazioni ridotte a faccine allegre, tristi e senza parole; si perdono le sfumature individuali che cedono il posto a una simbologia universale digitalizzata. Aumenta la conoscenza intellettuale, si limita l’esperienza sensibile. Da un po’ di tempo a questa parte mi ritornano in mente le parole di Svevo nell’ultima pagina della Coscienza di Zeno: “La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! (…) l’occhialuto uomo, (…), inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. (…) l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.”
L’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto
Ecco è qui, in questa relazione che per quanto mi riguarda sento radicato e radicale il senso delle live arts. Proprio perché sono vive. Perché fatte di esperienza, di corpi, odori, voci, saliva, lacrime, risate, ferite. Sia nella forma di creazione scenica che nella forma di attività educativa e laboratoriale. Mio figlio ha 4 anni. Durante il lockdown che abbiamo fortunatamente potuto passare immersi in natura, ha sempre rifiutato di collegarsi virtualmente con i compagni, le maestre, i maestri di pratiche nate in presenza e riconvertite online, i nonni, gli amici. Lui ha detto con chiarezza: “Non voglio incontrali così perché mi sembrano tutti morti”.
Non ho molto da aggiungere a questa schietta e fresca necessità di corpi e anime presenti. Ci sento dentro tanto futuro.
La funzione delle live arts è quella di celebrare la vita in tutta la sua complessa e articolata presenza. E la vita è contagio. L’arte in presenza è contagio liquido e la vita prolifera nell’umido.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Per rispondere parto da ciò che dici tu: sono evidenti ormai diversi piani di realtà. La comunicazione tra individui si genera ed evolve entro i limiti di questi piani generando universi semiotici molto articolati e poco se non per nulla osmotici. Gli artisti di tutti i settori hanno iniziato a creare all’interno della propria semiosfera inaugurando un’epoca di completa autoreferenzialità, generando un’ élite, tanto nella produzione di contenuti quanto nel pubblico. Tanto per capirci: mia nonna non avrebbe mai potuto comprendere l’ironia della banana attaccata al muro con lo scotch di Cattelan o, per rimanere in ambito teatrale, emozionarsi di fronte ad un episodio della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio, avrebbe potuto invece avvicinarsi con meno difficoltà un’opera di Bansky a un Caffè Muller della Bausch. Mia madre, “studiata” e figlia del ‘68, ha faticato di fronte all’episodio Acqua Marina (Ada, cronaca famigliare) di Fanny e Alexander, (le chiedo scusa ancora oggi per averla trascinata in teatro in quella torrida sera del 2007), si è invece profondamente commossa di fronte alla danza di un madre con figlia durante Altissima Povertà di Sieni così come si commuove nelle sere di giugno quando dai campi arrivano le lucciole. Si è indubbiamente definita una frattura tra individui che parlano linguaggi incomprensibili l’uno all’altro, tra gli artisti e il pubblico, con uno scollamento tra mondo dell’arte e realtà sociale che oggi, sotto molti aspetti, rende l’arte estranea all’uomo al quale non è più in grado di dare risposte, o almeno non nella lingua che egli è disposto a capire.
Eppure anche in questa direzione esistono esempi virtuosi: penso all’ultimo lavoro che ho visto di Elisabetta Consonni al Festival Cantieri Culturali Firenze, penso ad Aurora di Sciarroni, i grandi quadri in movimento di Virgilio Sieni creati proprio collaborando con i cittadini non professionisti o l’artista visivo JR che trasforma il carcere di massima sicurezza di Theachapi in un’opera d’arte corale realizzata in collaborazione con i detenuti. Penso a tutte le opere in grado di porre una domanda semplice e profonda ma reale, accessibile a tutti. Penso a quelle opere che provano a rispondere con un linguaggio naturale e avvicinabile alle domande che la nostra realtà di creature incarnate ci pone quotidianamente.
Credo che il grande passaggio a cui stiamo assistendo e di cui possiamo essere protagonisti sia questo: i “padri e le madri” hanno avuto il compito di generare il linguaggio, di strutturarlo nei dettagli, di creare l’alfabeto e la grammatica e di divertirsi nell’elaborazione di alcuni temi sula grammatica stessa. Un’operazione che ha richiesto un processo di astrazione potente pena il fuggire da una realtà per rifugiarsi in un universo semiotico che diventa nicchia ecologica.
Il compito delle nuove generazioni è, data la struttura eccellente, generare un legame, un ponte semiotico con le realtà circostanti. Fare poesia.
Il mezzo privilegiato per quanto mi riguarda è la relazione tra individui e fra individui e contesto e in questo senso abbiamo strumenti incredibili a disposizione soprattutto a livello tecnologico. La questione è, recuperando un imperativo categorico Kantiano, vedere l’altro come fine non come mezzo.
Per la quarantottesima intervista de Lo stato delle cose restiamo a Torino per incontrare Girolamo Lucania. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Girolamo Lucania è regista e direttore artistico di Cubo Teatro nonché fondatore della Compagnia Parsec Teatro. Insieme a Bellarte, Acti – Teatri Indipendenti e Mulino di Amleto ha dato il via alla stagione condivisa Fertili Terreni Teatro. Tra le sue ultime regie ricordiamo: Blatte, Tito rovine d’Europa, La storia degli orsi panda raccontata da un sassofonista che ha un’amichetta a Francoforte di Matej Visniec.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Quando si parla di creazione, si parla di qualcosa di nuovo. La parola stessa significa nascita, partire da zero, dal nucleo zero. Un’immagine, una sensazione specchiante spesso è sufficiente. Esplorare quell’immagine fino in fondo, ascoltare ciò che stimola. Da lì, può nascere qualcosa. Attorno a quell’immagine vanno create le relazioni: relazioni fra azioni, intenzioni, fra linguaggi, e relazione con il pubblico, a cui va dato un ruolo, su cui va espresso un obiettivo (non necessariamente diretto ed esplicito, ma fondamentale per definire il vero senso dell’immagine iniziale). Allo stesso tempo, bisogna dare alla creatura una lingua, il proprio modo di esprimersi, tentando di rendere quella lingua universale, e allo stesso tempo propria della creatura. Va dato uno spazio e un tempo, all’interno dei quali quel linguaggio diventa coerente e se possibile sorprendente. Un linguaggio che sia specchio del tempo. E poi, e poi. Per realizzare tutto questo è necessario un tempo/terreno fertile. Lo spazio dell’errore è fondamentale. Riprendere il concetto di prova. Tentare e trasgredire, sbagliare. Tempo.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Porre al centro la creazione e non la creatura. Ripristinare l’idea che la creazione è un processo complesso. Troppo spesso ci troviamo in teatro a vedere opere che paiono incompiute, colme di compromessi, per mancanza di tempo. Anzi spessissimo vediamo opere che sono repliche di altre opere: vediamo replicarsi in produzioni diverse gli stessi metodi, gli stessi linguaggi, la stessa lingua. Ciò accade perché il sistema spinge verso il risultato efficace. Questo processo di creazione rischia di diventare bulimico, e di fatto lo è. Il risultato è un costante aumento delle produzioni, figlie di scadenze e termini. Il Teatro necessita di tanto tempo, e la creazione, anche fallimentare, va posta al centro del processo produttivo. Diventa dunque necessario dare sostegno alla creazione e dare all’artista il giusto tempo per creare qualcosa di vero e unico.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Personalmente ritengo che il sistema distributivo sia sbagliato in partenza. Le produzioni sono troppe, e gli spazi non sono in numero sufficiente per accoglierli. Inoltre, molte produzioni sono figlie della velocità, e quindi mancano di un senso di compiutezza (che comunque è un paradosso per il teatro), e sono colme del senso di dejavu. Anche economicamente, il sistema di distribuzione ha dei costi elevatissimi. Ritengo si debbano ridistribuire le risorse verso la produzione e il tempo di prova; diminuire il numero di nuove opere annuali; immaginare che gli spazi siano stanziali e accolgano le opere teatrali per un numero elevato di repliche. Immagino che se volessi vedere il lavoro di un artista pugliese che mi interessa, dovrei spostarmi in Puglia. Oppure nei Festival. E la distribuzione sarebbe così necessaria solo per le opere veramente uniche, emblematiche, piene di senso, migliori. Ovviamente sto semplificando, il discorso è complesso.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Lo spettacolo dal vivo deve interrogarsi molto su questo punto. È un punto fondamentale, ma apertissimo, in cui l’artista può trovare la sua strada, la propria indagine. Personalmente ritengo che la regia sia un concetto in rinnovamento: la costruzione di un impianto con delle leggi nelle quali gli interpreti (tutti: attori, artisti tecnici, musicisti) trovano gli impulsi ad agire, e a comunicare fra loro e insieme con il pubblico. Nella relazione orchestrale, nell’ascolto collettivo degli interpreti all’interno delle leggi e del linguaggio di quella scena e di quell’opera, si trova l’unicità. Non si tratta di improvvisare, tutt’altro, si tratta di creare ogni replica qualcosa di nuovo, senza definire esattamente cosa accadrà, ma definendo esattamente le leggi con cui accadrà, pur all’interno di una gabbia strutturale che – è bene sottolinearlo – deve essere coerente, adesa al linguaggio e alle leggi della scena. Un altro punto, ribadisco, è la fondamentale relazione con il pubblico: ad esso va dato un ruolo – sottile, pesante, dipende dall’opera – e ad esso vanno poste domande: indirette, dirette, a volte anche solo uno sguardo è sufficiente. E quanto è potente uno sguardo.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Dalla realtà non si prescinde. Ma oggi è un caleidoscopio di opinioni, diciamo di verità – come giustamente sottolineato nella domanda. Allora forse lì sta il punto: quali emozioni collettive, quale catarsi può suscitare un tale caos? A volte la domanda va rivolta al passato, alle flebili tracce del passato, o alle conseguenze della realtà liquida e multipla. La società sta perdendo valori importanti come il valore della Storia, la Memoria Collettiva, la progettazione di un futuro insieme, soprattutto le nuove generazioni sembrano perse senza un obiettivo (positivo) comune. Tutto ciò comporta delle conseguenze. La depressione giovanile, ad esempio, è in costante aumento. E l’Europa non è più oggetto di interesse delle opere narrative (basti pensare ai film o ai videogames): la partita della Storia si gioca altrove, il Vecchio Continente è apparentemente immobile. Ecco: in tutto questo (e non solo) si presenta un’enorme – e limitato – confine di indagine. L’Arte, come al solito, trova sempre il modo di essere politica.
Per la quarantasettesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo a Torino Silvia Battaglio. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Silvia Battaglio, fondatrice della Compagnia Biancateatro, è autrice, attrice e danzatrice. Tra le sue ultime opere ricordiamo la Trilogia dell’identità, con Orlando le primavere, Lolita, Ballata per Minotauro.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Per quanto mi riguarda la creazione scenica è fortemente connessa a due elementi: tempo e relazione.
Tempo, come realtàcon la quale mi è indispensabile restare in ascolto per poter iniziare qualsiasi viaggio creativo che magari porti altrove, in un tempo altro, in un luogo altro, magari lontano da qui ma pur sempre in dialogo con il presente e orientato ad accarezzare possibili visioni future. Un tempo in costante metamorfosi che disegna le trame di un presente complesso e contraddittorio di cui, attraverso l’atto creativo, cerco a mio modo di tradurre la temperatura, i sentimenti, i chiaroscuri.
Relazione, come ‘dialogo fisico’ che nasce, dal vivo, tra gli interpreti che abitano la scena e la trasformano con il loro agire, come ‘dialogo energetico’ che si costruisce insieme al pubblico senza il quale il teatro – vissuto come rituale, come atto d’amore, come luogo di piacere o dispiacere (a seconda), come fuoco che sprigiona domande – non potrebbe accadere in alcun modo.
Rispetto all’efficacia o meno della creazione, sono diverse le parole-chiave che tengo in tasca e che guidano il lavoro, una di queste mi sta particolarmente a cuore, la parola comunicazione. Durante le varie fasi di creazione scenica – una volta definiti i contenuti e il punto di partenza che spesso porta a finali imprevisti – ricavo dei momenti per spostare lo sguardo, osservando il lavoro da angolazioni e punti di vista differenti, cercando di capire se ciò che ho, o che abbiamo costruito con i compagni di lavoro, sia realmente efficace sul piano della comunicazione. Ciò che va costruendosi in scena deve in qualche modo poter essere comunicabile, altrimenti il ‘contenuto’ resta qualcosa di ermetico e personale, ascrivibile a un “esercizio di stile” che però non serve a nessuno, se non a nutrire l’ego dell’artista. Dunque per me è importante cercar di capire se ciò che accade in scena sia in grado di arrivare quantomeno alla pancia, di evocare (il più possibile senza retorica e narrativa) tematiche universali. Trovo importante che il pubblico possa sentirsi incluso, parte in causa, ingaggiato, perché è a lui che ci rivolgiamo, perché il teatro deve cercare di ‘parlare al mondo del mondo’: questo pensiero fa sempre da innesco al mio lavoro creativo,che ha visto negli anni il susseguirsi di temi quali identità, potere, famiglia, diversità, intorno ai quali sono stati costruiti i lavori realizzati fino ad ora.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
È evidente che gli strumenti produttivi a sostegno della creazione teatrale e coreutica in Italia siano carenti, che alcuni Paesi (specie nel nord Europa) abbiano maggiormente a cuore la sorte del teatro e dell’arte in genere, avendo un ‘approccio ideologico’ tale da favorire scelte economiche e politiche a sostegno della cultura (e dell’istruzione!), così come è evidente che il rapporto tra i teatri e gli artisti in Italia sia sempre meno fluido, poiché subisce il depauperamento della graduale diminuzione del finanziamento pubblico sia a livello regionale che statale.
Dunque, in un panorama in cui la cultura non è considerata come ossigeno per il benessere di tutta la comunità e non riceve adeguati sostegni, risulta arduo l’affermarsi, per esempio, di collaborazioni tra centri di produzione teatrale, compagnie e artisti, fatta eccezione per alcune realtà che sicuramente in questo senso brillano e potrebbero essere un esempio per tutti.
Resta il fatto che in molti casi (e qui penso anche ai circuiti regionali) i programmatori dei teatri non “azzardano” e in gran parte – a meno che non vi sia in ballo una residenza vinta tramite bando o un rapporto di coproduzione – si astengono dal costruire stagioni che diano spazio a spettacoli lontani dal “commerciale” e magari più vicini alla ricerca e alla sperimentazione. La stretta economica certamente mette i teatri in difficoltà, inducendoli ad optare sempre di più per i famosi ‘scambi’ e/o a scegliere titoli-nomi di richiamo, più “rassicuranti” sia per il pubblico (che ha sempre più bisogno di distrarsi, di ritrovare in teatro l’attore che ha visto in tv, di evadere), sia per i teatri stessi che, così facendo, riescono a tutelarsi maggiormente dai possibili rischi dovuti alla mancata affluenza di pubblico. In questa fragile dimensione, in cui viene sempre meno il “coraggio” di allacciare rapporti di collaborazione duraturi tra compagnie, centri di produzione, teatri e artisti, la prospettiva appare appesantita da quelle che sono (e saranno purtroppo) le conseguenze generali legate agli effetti socioeconomici causati dal Coronavirus che apre le porte ad una crisi collettiva di ordine culturale, sociale e occupazionale.
Che fare? Certo bisognerebbe ripensare ai rapporti tra teatri e compagnie, mettendo al centro la ‘qualità artistica’ e non il business o il rapporto di convenienza, bisognerebbe avviare reali azioni di sostegno e di collaborazione tra le compagnie stesse, favorendo tra loro una certa ‘unità di settore’ e coesione, anziché esacerbare meccanismi competitivi di fronte ai quali l’intero settore artistico perde forza, e quindi capacità di dialogare in modo compatto con le istituzioni stesse, provando a innescare un cambiamento di rotta.
Ma, alla base di tutto, penso che servirebbe una svolta culturale in senso più ampio, lo Stato dovrebbe ripensare, per esempio, al rapporto tra teatro e scuola, in quanto bacini comunicanti che si nutrono vicendevolmente e sui quali sarebbe indispensabile investire, pena il rischio di una graduale e totale perdita di identità culturale, quindi anche socio-politica.
In quest’ottica, troverei utile integrare il sistema scuola, introducendo il teatro e la danza come materie facenti parte del programma scolastico (dalle elementari fino alle scuole superiori), definendo un programma di lezioni – teoriche e pratiche – attraverso le quali gli studenti, fin da bambini, possano entrare in contatto con il mondo dell’arte, del teatro, della danza (spesso in famiglia questa possibilità non esiste).
Trovo pericoloso il fatto che la scuola – così come la Sanità – subisca, ormai da molti anni, una netta virata verso l’aziendalizzazione e la privatizzazione. A queste scelte dissennate, rispondono programmi di studio che vanno escludendo sempre di più le materie umanistiche quali letteratura, filosofia e storia (del resto che importanza ha oggi come oggi studiare Dante o Shakespeare o Sartre?!) in favore di quelle materie che rispondono maggiormente alle esigenze delle imprese, e quindi del (libero) mercato: non va bene, la scuola non deve solo ‘informare’ bensì ‘formare’ l’essere umano.
Quindi, tornando al teatro, credo sarebbe possibile avviarne un cambiamento, partendo proprio dalle scuole che diventerebbero luoghi di ”formazione all’umanesimo” preposti al risveglio del potenziale creativo, dove i fanciulli sarebbero stimolati fin da bambini a immaginare le mappe di un futuro migliore, che forse è ancora possibile, diventando poi ‘adulti di domani’ in grado di pensare in modo più critico e autonomo, di rompere falsi miti e di abbattere vecchi muri, di riconoscere il valore della diversità, e magari di gettare le fondamenta per una società più sana, basata non sul solo profitto personale, sul tanto a poco, sul consumismo sfrenato, sulle sole leggi del mercato, ma sul senso della comunità, della condivisione e del vivere civile.
Ecco che allora, educati al senso civico e all’amore per l’arte, gli ‘adulti di domani’ sarebbero i primi a voler difendere il teatro o meglio l’arte nel suo insieme, a desiderare la bellezza nella loro esistenza, a reclamarla. Così, forse i teatri potrebbero tornare a ripopolarsi, e non sarebbero più vissuti come luoghi per pochi e isolati folli o per intellettuali borghesi ma, al contrario, diventerebbero ‘templi’ in cui ritrovare le gesta, le memorie, le fantasiose danze di chi ci ha preceduto, diventerebbero spazi per il possibile e anche per l’impossibile, luoghi di reale partecipazione, di confronto attivo e vitale.
Mi piacerebbe che oggi lavorassimo per creare le condizioni attraverso le quali gli ‘adulti di domani’ avessero gli strumenti per illuminare una società che avesse a cuore la cultura, allora, forse questa nuova generazione potrebbe operare scelte politiche tali da restituire all’arte il posto che merita, e quindi ai teatri, alle compagnie, agli artisti…dignità e presenza.
Forse la mia è un’idea utopistica, ma intendo dire che è che proprio all’interno di questa enorme e complessa cornice…che si inserisce la fragilità del sistema teatro.
Se non si riparte dalla base, dall’istruzione, dalle scuole che sono i primi luoghi (dopo la famiglia) di formazione dell’individuo, dalla volontà di rifondare una società partendo dalla ridefinizione dei valori…a poco servirà tutto il resto, saranno solo pezze, tappi, cuciture provvisorie che accontenteranno sempre (e solo) i pochi, saranno temporanee soluzioni (certamente anche efficaci nell’immediato) per cercare di tenere insieme qualcosa che però si è spezzato dall’interno, e che noi abbiamo contribuito, chi più chi meno, a spezzare.
Probabilmente sono andata fuori tema, ma ora siamo davvero tutti un po’ stanchi, arrabbiati e smarriti, per cui mi interessava una riflessione più allargata, ci penso ogni giorno, con dispiacere, e vorrei riuscire a vedere rifiorire la vita culturale e sociale di questo paese così ingiustamente maltrattato, vorrei anche solo avere la speranza (che dico, la certezza!) di una luminosa rinascita per coloro che verranno.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Sicuramente i direttori artistici e gli operatori teatrali saprebbero rispondere a questa domanda in modo più approfondito e puntuale di me. Personalmente credo che, tra tutti, vi sia un problema che spicca e che è connesso al rapporto tra il momento della produzione e il momento della distribuzione: alle compagnie viene “chiesto” di produrre spettacoli sempre ‘nuovi’ (ma uno spettacolo nuovo è sempre garanzia di uno spettacolo effettivamente nuovo?). E questo porta a un doppio effetto negativo, il primo consiste nell’indurre gli artisti a produrre incessantemente spettacoli ‘nuovi’, appunto, correndo il rischio di non creare secondo un reale e motivato slancio, ma inseguendo faticosamente logiche “produttive” che inducono le compagnie o a ripetersi, artisticamente parlando, o a cedere a quei compromessi di produzione che allontanano la natura del progetto artistico dal ‘manifesto’ e dagli obiettivi della compagnia. Il secondo effetto negativo consiste in un ‘eccesso di produzione’ degli spettacoli e nella (conseguente) mancata circuitazione degli stessi sul territorio nazionale e non. In questo senso, non sarebbe più giusto e democratico che uno spettacolo – risultato di tutta una serie di professionalità impiegate in mesi e mesi di lavoro preparatorio e di collaborazioni in rete sul territorio – venisse ‘offerto’ al maggior numero di persone possibile? E inoltre, le compagnie e gli artisti non avrebbero diritto ad esser messi nelle condizioni di poter lavorare sulla base di una spinta propulsiva reale, per poi poter vedere nascere e vivere il proprio lavoro nel tempo, senza che questo muoia un attimo dopo il debutto, e dopo tanta fatica?
Gli spettacoli, una volta allestiti, dovrebbero essere a disposizione del pubblico, della comunità, della cittadinanza, dovrebbero poter circuitare e invece – per rispondere a questa stritolante ‘legge del mercato’ – si deve produrre tanto al minor costo possibile, e questo è esattamente ciò che accade a livello macroscopico: dunque torniamo al punto di partenza, se non cambiamo le regole del gioco nel corpo del sistema socio-economico, nemmeno il sistema del teatro, parte di questo corpo, cambierà mai davvero.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Per quanto mi riguarda, il teatro si manifesta – attraverso un rapporto carnale, di ascolto e di corrispondenza d’amorosi sensi – tra ciò che accade in scena e ciò che accade in platea, senza la prossimità con il pubblico, oltre a non esservi alcun piacere – sia per chi agisce in scena sia per chi agisce in platea – non può esistere il teatro.
Certo, attraverso il virtuale è possibile avviare ‘forme di comunicazione’ interessanti e condividere contenuti anche artistici ma, appunto, è una forma di comunicazione altra, che non ha nulla a che vedere con la natura propria e intrinseca del teatro che ‘esige’ la presenza dal vivo.
In generale, le tecnologie e il virtuale, oggi come oggi, risultano certamente fondamentali per alcuni aspetti del nostro quotidiano, inutile negarlo, ma trovo che esse abbiano conquistato un ruolo troppo importante, invadendo lo ‘spazio esistenziale’ di ognuno di noi (chi più chi meno), confondendo i piani e il senso della comunicazione, e ostacolando la possibilità di una crescita e di un confronto pulito e reale con l’altro.
Detto ciò, può essere stimolante (io stessa ne ho fatto e ne faccio uso) lavorare artisticamente utilizzando la tecnologia e il virtuale, soprattutto per accompagnare, supportare e/o integrare un lavoro artistico che magari ha bisogno di più strade espressive e più canali di comunicazione, per costruirsi ed esistere nella sua interezza.
Altro caso invece è quando la tecnologia viene utilizzata proprio all’interno di uno spettacolo teatrale: qui il discorso cambia, dal mio punto di vista l’utilizzo della tecnologia e della virtualità sono validi solo se messe profondamente in dialogo con lo spettacolo, fino a diventarne lo scheletro, l’ossatura drammaturgica, il corpo, non una cornice ornamentale di sottofondo, poiché in questo caso non aggiunge niente di stimolante, anzi – come pubblico – devo ammettere che spesso mi distrae dal senso di ciò che sta accadendo in scena.
Concludendo, credo che il teatro esista solo in un luogo e in un tempo a lui dedicato, nella presenza fisica di coloro che lo creano, e tra questi c’è il pubblico. Amo moltissimo l’attimo in cui si spengono le luci e tutto si fa buio, e per qualche istante senti come un respiro trattenuto, come un’attesa, un richiamo ancestrale, collettivo che si diffonde tra platea e palcoscenico. E’ un momento sospeso, in cui nessuno sa cosa accadrà, e tutta la vita è raccolta lì, in quell’attimo che diventa sacro, eterno, che appartiene a tutti, per una volta insieme, nella condivisione di qualcosa che porterà via da qui, chissà dove, come una nascita, come uno schiudersi, come l’attimo prima della partenza per un viaggio in cui tutto può accadere e niente è mai stato così vero.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Al di là del discorso sui nuovi media, che spesso confondono il senso e il piano della comunicazione, il rapporto con il reale seconde me è parte integrante del teatro, a prescindere dalla forma e dalle poetiche con le quali decidiamo di dialogare. Il reale – qualsiasi sia la forma con la quale ci esprimiamo – entra in gioco inevitabilmente nel processo di comunicazione e, nello specifico, entra in gioco nel processo di creazione: credo che il rapporto con il reale (e il suo mutarsi in varie forme) sia uno dei principali motivi per il quale ci occupiamo di teatro.
Relazionarsi al reale secondo me non significa per forza optare per un teatro di narrazione o di prosa, significa cercare connessioni col presente attraverso forme che sappiano entrare in un rapporto di comunicazione, significa restituire ‘volume’ ai pensieri, al testo, cercando ciò che si nasconde dentro la parola scritta o dentro un gesto, una musica, per intercettarne le possibili e fantasiose traiettorie. Ho assistito a molti spettacoli che hanno ‘raccontato’ il reale e che sono stati al contempo in grado di suscitare potenti emozioni, di parlare a tutti, di trasfigurarsi in altre forme, di viaggiare attraverso il tempo.
Reale-immaginazione, significato-simbolo, contenuto-forma sono binomi che, secondo me, possono tranquillamente viaggiare per mano, ed anzi, è proprio dalla ricerca di un possibile rapporto di simbiosi-opposizione-scambio tra questi elementi, che traggo l’impulso per il mio lavoro di creazione.
Ci sono molte cose sulle quali sarebbe utile riflettere ma – soprattutto a fronte di questo periodo storico così faticoso e duro per tutti noi – vorrei riportare una citazione di un grande fisico italiano, Guido Tonelli, che ci illumina la strada, scrivendo:
“L’immaginazione è l’arma più potente che l’umanità sia mai stata in grado di sviluppare, dall’immaginazione è nata anche la scienza. Arte, scienza e filosofia sono ancora oggi discipline fondamentali, quelle che danno consistenza al nostro essere umani. Questa visione unitaria del mondo, che nasce nel nostro passato più remoto, è tuttora lo strumento più adatto per affrontare le sfide del futuro”.
Lo strumento più adatto, per affrontare le sfide del futuro…
Per la quarantaseiesima intervista de Lo Stato delle cose andiamo a Milano per incontrareMatteo Lanfranchi di Effetto Larsen. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Matteo Lanfranchi è il direttore artistico di Effetto Larsen, un gruppo con base a Milano che si occupa principalmente di performance site specific con forte interazione del pubblico partecipante. Ricordiamo tra gli ultimi lavori: After/dopo, Mnemosyne, Stormo, Tracce – una questione di identità, Pop Up Civilization.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La mia carriera è iniziata come attore in teatro, per poi fondare Effetto Larsen e dedicarmi alla regia e all’attività di autore. Nel 2013 ci siamo evoluti e abbiamo esteso il nostro campo d’azione allo spazio pubblico e ai progetti di arte partecipata, ambito in cui continuiamo ad essere attivi a livello internazionale. Faccio questa piccola premessa per precisare che dal mio punto di vista la creazione scenica non è più solo per il palco, ma coinvolge i cittadini – o il pubblico, o i partecipanti, c’è dibattito in Europa anche su come chiamarli – fin dall’inizio del processo creativo.
Siamo pionieri, insieme a molti altri artisti in giro per il mondo, di una forma d’arte contemporanea che attinge al teatro nella sua dimensione di condivisione, elaborazione, trasformazione, catarsi. Siamo usciti dal teatro come edificio e come tradizione per recuperarne quella che per me ne è la radice: le relazioni. Una creazione è efficace quando diventa opportunità per creare relazioni, e una relazione è realmente tale quando c’è disponibilità a farsi cambiare, ad accettare la trasformazione.
Ogni progetto Effetto Larsen è frutto di un lungo percorso di ricerca, fatto di sessioni aperte a chiunque voglia partecipare: la nostra peculiarità consiste nell’ascolto, nell’aprire le porte del nostro spazio di lavoro. È un processo delicato, che a volte viene frainteso, specie da chi confonde ascoltare il pubblico con lo svendersi. È esattamente il contrario. Per ascoltare il pubblico bisogna avere una visione molto chiara, restare fedeli a sé stessi e accettare questa relazione e la trasformazione che comporta. È come essere su un veliero: il pubblico soffia il vento, ma sta a noi alzare le vele e mantenere la rotta.
Sviluppiamo progetti che siano accessibili a più persone possibile, e che permettano una fruizione su più livelli. In una frase, cerchiamo di creare le condizioni perché il pubblico possa vivere un’esperienza profonda e significativa. Lavori come i nostri non sono possibili senza il pubblico, non è nemmeno possibile provarli, e questo esprime bene il valore che hanno per noi le relazioni, cuore pulsante della nostra ricerca artistica.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Prima di fare qualcosa di nuovo, bisognerebbe smettere di fare ciò che si sta già facendo.
Smettere di lamentarsi del sistema, smettere di aspettarsi di vivere dell’elemosina dei fondi pubblici, smettere di chiudersi nella bolla sociale degli artisti, smettere di dare per scontata la qualità del proprio lavoro. Ho sentito mille volte dire che ci vorrebbero più fondi pubblici, che all’estero è meglio, che l’Italia è un disastro, che bisognerebbe cambiare tutto.
Se qualcuno ha desiderio di darsi da fare per una riforma politica, ben venga, ma deve saper parlare anche il linguaggio della politica, non può aspettarsi di riuscirci parlando solo la lingua del teatro. Personalmente, ho già un progetto nella mia vita, ed è Effetto Larsen: se e quando mai la situazione cambierà, avrò già finito la mia carriera. Il tempo del teatro – e quello della vita – è l’adesso.
La crisi Covid-19 ha messo in evidenza le ingenuità del settore, l’ostinazione a voler continuare a fare ciò che si faceva anche quando non stava funzionando, il vittimismo di tanti artisti, che vorrebbero essere sostenuti solo perché tali. Ma chi decide chi è un artista e chi no? Se il mio vicino di casa domani decide di essere un artista, va tutelato? Sia chiaro, sono un profondo sostenitore dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, e rispetto chi si impegna seriamente per affermarli, ma a quarant’anni suonati non sopporto più le ingenuità: se non c’è consapevolezza, se si continua a lavorare principalmente per passione, se non si sviluppano pensiero e capacità, si finisce con l’essere troppo facilmente ricattabili, e si indebolisce la categoria.
Aspettarsi più fondi pubblici dal governo, dopo anni di tagli, è come aspettarsi di essere amati da qualcuno che ci ha più volte rifiutati: tocca guardare altrove. E per farlo servono competenze, altro punto spesso dato per scontato: si parla sempre di soldi pubblici, ma mai delle competenze di chi deve non solo erogarli, ma anche riceverli, gestirli, amministrarli, garantire qualità, tutte cose che valgono ormai anche per gli artisti. Se non si può o non si vuole sviluppare competenze, è necessario affiancarsi persone che le abbiano, per gestire questa complessità. La qualità non basta più, da almeno vent’anni, e ormai è sempre più rara da trovare, ovvia conseguenza delle modalità produttive. Accettare quelle modalità significa collaborare al mantenimento del sistema che tutti lamentiamo. Si tratta di smettere di nutrirlo, e di iniziare ad immaginarne di nuovi.
Tocca anche smettere di accettare condizioni di lavoro insostenibili, come residenze sottopagate o con condizioni sgradevoli, o dove gli artisti sono trattati come se si stesse facendo loro un favore. Di nuovo, è il contrario: senza artisti, non girerebbero un sacco di soldi. Ricordiamocelo. Ricordiamoci che in qualsiasi crisi, in qualsiasi società, artisti e pubblico ci saranno sempre, siamo noi il centro, e finché ci saranno questi due elementi l’arte sopravvivrà. È il resto a venire dopo.
Rispetto all’estero: l’erba del vicino non è sempre la più verde. La nostra compagnia lavora tanto in altri paesi, ma perché col tempo abbiamo trovato i giusti interlocutori, non il paese dei balocchi. Ci sono difficoltà diverse, e alcune sono trasversali almeno a tutta l’Europa, come ad esempio la carenza di pubblico giovane. Altri paesi hanno un welfare più sviluppato, non c’è dubbio, ma penso che se davvero si crede che un altro paese sia più adatto al proprio lavoro, bisognerebbe semplicemente smettere di lamentarsi e trasferirsi. Come dice Rilke nelle “Lettere a un giovane poeta”, bisogna chiedersi sinceramente se si desidera fare questa vita, e se la risposta “sarà di assenso, se lei potrà affrontare con un forte e semplice «io devo» questa grave domanda, allora costruisca la sua vita secondo questa necessità.”
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Se non ci sono fondi ci devono essere idee, sempre e a tutti i livelli. Personalmente credo che tra le responsabilità delle realtà che godono di finanziamento pubblico, dovrebbe esserci anche quella di sviluppare un’alternativa economica, un modo altro di continuare a fare ciò che si fa, altrimenti ogni taglio diventa un ricatto, che pesa su tutta la catena produttiva fino agli artisti.
È poi necessario, di nuovo, sviluppare competenze, frugare in altri contesti, imparare da chi ha risolto problemi analoghi, farsi muovere dalla curiosità, e non solo all’interno della sala prove. In ormai 25 anni di carriera ho raramente sentito gli artisti mettere in discussione la qualità di quello che fanno, o le istituzioni tentare qualcosa di diverso, o attingere da mondi paralleli, come ad esempio quello delle aziende. Per farlo tocca rimboccarsi le maniche, ed essere disponibili a imparare qualcosa di nuovo.
Affacciarsi sul mercato internazionale richiede grande costanza e apertura mentale: il punto è trovare realtà con obiettivi e poetiche allineate al proprio lavoro, costruire la fiducia necessaria a conquistare i produttori, aprire dei dialoghi, costruirsi una rete di relazioni, investire tempo ed energie. Noi abbiamo lavorato molto per individuare i giusti interlocutori, e una grande svolta è arrivata nel 2015, quando sono stato invitato dalla Venaria Reale ad entrare a far parte di In Situ, un network europeo dedicato all’arte nello spazio pubblico. I network esistono eccome, ce ne sono moltissimi, bisogna considerare l’Europa come campo di azione, non solo l’Italia.
Appartengo a una generazione di attori che ha iniziato la propria carriera con tournée internazionali, un lusso ormai dimenticato – e diciamolo, non solo per gli italiani. In Europa da diversi anni si parla del passaggio da prodotto a processo, un punto estremamente interessante: non più repliche, ma un percorso che resti aperto e malleabile. Non funziona pensare semplicemente di vendere il proprio spettacolo all’estero, è sempre più difficile per tutti, va ripensata l’intera progettualità. Si parla di audience development, che non vuol dire vendere più biglietti, ma intercettare bisogni e sacche di pubblico ancora non sfiorate dall’offerta culturale. Il mondo cambia velocemente, non si può pensare di continuare a ragionare come negli anni ’90 o addirittura ‘70.
Uno dei punti deboli del nostro paese è la mancanza di un reale sostegno alla mobilità internazionale. Per compensare questa mancanza, noi ci siamo trovati a sviluppare un business model: anni fa alcune aziende hanno cominciato a chiederci dei progetti di formazione. Abbiamo imparato a declinare i nostri talenti anche in quel mondo, abbiamo integrato le nostre competenze per imparare a muoverci al suo interno, e questo ci ha permesso di essere artisticamente liberi. La nostra ricerca non ha vincoli, se non quelli che diamo a noi stessi. Raccontato così sembra semplice e strategico, ma è stato invece il frutto di una enorme dose di frustrazione verso il sistema produttivo nostrano, unita a un immenso desiderio di continuare a fare ciò che ci anima.
Ci piacerebbe arrivare a sostenere altri nella mobilità internazionale, specie i più giovani, a mio avviso la categoria più in pericolo. La mia generazione deve iniziare a preoccuparsi del passaggio di consegne, di cosa vogliamo costruire e lasciare a chi comincia oggi.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Gli artisti, oggi e forse sempre, hanno un ruolo e una responsabilità che possono decidere di raccogliere: intercettare bisogni umani a volte non consapevoli, che aleggiano nella società senza risposta. L’arte può aprire finestre verso mondi alternativi, rispondendo a questi bisogni, senza pretesa di risolverli, ma ascoltandoli. È necessario almeno tentare di lavorare a quel livello, creare le condizioni per attivare pensiero ed emozione, per creare almeno la possibilità di cambiare punto di vista. In questo modo si può recuperare la dimensione più sacra della rappresentazione, dare vita a rituali contemporanei adatti alla società in cui viviamo. Ho enorme rispetto per il teatro ben fatto, qualsiasi forma esso abbia, credo sia una delle forme d’arte più difficili e delicate da realizzare, un lavoro per pochissimi. Credo però che non sia più tempo di chiudersi in sala prove, non ora almeno.
La condivisione è il motore del contemporaneo: dalla sharing economy ai progetti partecipati, dalla qualità delle relazioni come unica vera sorgente di felicità – argomento oggetto di pagine di ricerca e letteratura – all’ascolto come principio esistenziale. L’esperienza si certifica unica e irripetibile solo quando cambiano le persone coinvolte.
La crisi legata al Covid-19 ha mostrato chiaramente come il mondo cambi a seconda di dove ci mettiamo ad osservarlo. Una delle cose che più mi ha colpito è stata la durissima reazione di tanti teatranti all’idea di muoversi verso il digitale. Siamo tutti d’accordo che il nostro mestiere è dal vivo, ma se non si può, cos’altro si può fare intanto? Ho visto tre tipi di reazione: chi ha chiesto l’immediata riapertura dei teatri, senza nemmeno chiedere al pubblico se fosse interessato; chi ha portato online quello che faceva su palco, senza preoccuparsi di adattarlo; e chi ha esplorato, indagando i limiti di questo mezzo.
Effetto Larsen si è trovata ad offrire un palinsesto digitale di workshop e incontri, inizialmente in modo disordinato, e via via più strutturato. Abbiamo poi raccolto la richiesta del pubblico che ci segue, una versione online di Pop-up Civilisation, un progetto sul senso di comunità: “Siamo tutti in sospensione, è il momento perfetto per riflettere su come vorremmo costruire la società quando torneremo a uscire”. Avevo immensi dubbi e mille resistenze, poi con alcune sessioni aperte abbiamo trovato il modo di far funzionare il progetto anche online, e ora ne stiamo realizzando la versione francese, con una produzione internazionale. Ce lo aspettavamo? No. Pensavamo avrebbe funzionato? Forse. Ci siamo solo lasciati la possibilità di scoprire e di sbagliare. Questo ci rende migliori di altri? Assolutamente no. So solo che questa esplorazione ci ha permesso di nutrirci interiormente e reggere il lockdown, che abbiamo imparato moltissimo, e che quando torneremo a lavorare dal vivo avremo qualcosa in più rispetto a prima, e non qualcosa in meno.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Qualche tempo fa ho trovato un quaderno di appunti del mio primo anno in Paolo Grassi. A vent’anni, su una pagina ho scritto, bello grande: “Il teatro non è la rappresentazione della realtà”. Non ricordavo assolutamente di averlo scritto, ma rileggendo quella frase mi sono ricordato che già allora pensavo che il teatro dovesse parlare del mondo in cui viviamo, al mondo in cui viviamo, ma senza imitarlo. Il teatro è di per sé la più ingenua delle arti: facciamo tutti finta di credere a un artificio, collaborando alla sua possibilità di esistere, e questo è meraviglioso, colmo di ricchezza.
A mio avviso il contemporaneo, oggi, necessita della capacità di mettere in discussione tutti gli aspetti della creazione. A me interessa molto il rapporto tra artista e spettatore, la zona di indagine più stimolante per me. Più andiamo avanti con la nostra ricerca, meno performiamo noi: creiamo condizioni, luoghi, spazi, situazioni in cui il pubblico possa diventare attivo nella costruzione di un’opera. Riuscire a farlo sfuggendo a ingenuità, banalità e superficialità richiede tempo, di solito ogni progetto richiede due anni di sviluppo.
Anche il processo produttivo va messo in discussione, penso ad esempio al manifesto di NTGent scritto da Milo Rau, che in dieci punti riesce a includere ogni aspetto della creazione. È questo il contemporaneo, questa capacità di estendere lo sguardo, di comprendere una sfera più ampia nel proprio lavoro, che va dall’artista al mondo in cui è immerso. Da questa relazione nasce la possibilità di fare lavori che parlino a quel mondo, di cui si senta il bisogno, un bisogno che va recuperato: il teatro ha trovato e portato vita in zone di guerra, in campi di prigionia, in carceri, come mai adesso è così poco apprezzato? Cosa portiamo con noi in scena, cosa porta noi in scena? Solo ascoltando la realtà si può parlare della realtà, e quindi alle persone.
Spesso mi chiedono se per lavorare a livello internazionale sia necessario fare progetti partecipativi o site-specific, e rispondo sempre di no: non ci si può snaturare, se c’è qualcosa a cui restare fedeli è la propria poetica, il proprio modo di fare arte. Il punto è creare le condizioni per riuscire a fare il proprio lavoro, instaurare le relazioni che permettono di nutrirlo. Durante il lockdown mi sono ritrovato spesso a riflettere sul pensiero di Krishnamurti: la società è un’astrazione, mentre non lo sono le persone che creano quell’astrazione attraverso le loro relazioni. Parliamo sempre di cambiare la società o il sistema, mai di cambiare le persone che creano la società in cui viviamo. Credo sia ora di iniziare a farlo.
Per la quarantacinquesima intervista de Lo Stato delle cose incontriamo Nicola di Chio. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Nicola di Chio attore e regista, diplomato all’ Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe”. Fondatore del collettivo La Ballata dei Lenna con cui realizza come regista e interprete, spettacoli che ricevono importanti riconoscimenti come Human Animal – dal Il re pallido di David F. Wallace e Cantare all’Amore. Negli ultimi anni ha cominciato una ricerca sul teatro documentario che commistiona il cinema del reale al teatro. Al cinema ha lavorato con Ridley Scott.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
La creazione scenica deve pensare per prima cosa al pubblico, per quanto banale sembri questa affermazione, se la creazione scenica non considera lo sguardo dello spettatore rischia di essere un processo disutile.
Servono storie che raccontano del mondo. Che riflettono su quello che ruota intorno all’essere abitanti di questo mondo.
E proprio per recuperare l’efficacia della scena, sarebbe interessante chiedersi chi siamo come artisti, cosa abbiamo raccontato e come lo abbiamo fatto fino ad oggi.
Era tutto realmente necessario? Quando arriva una crisi, come quella che stiamo vivendo, dovremmo esser in grado di mettere luce al buio, risollevare e curare l’anima affrontando la complessità dei fatti e delle storie.
Credo per questo sia fondamentale mettersi nella testa del nostro potenziale pubblico. Viviamo nell’era dell’informazione, in una società iperconessa, tempestata di input visuali e in cui le nostre richieste sono soddisfatte in pochi secondi. Occorre interloquire realmente con gli spettatori, ripensare alle forme di messa in scena, ai suoi ritmi interni e ai suoi contenuti, perché altrimenti ciò che accade in teatro rischierà di restare sempre un passo indietro rispetto alla quotidianità, alle altre arti, alle forme di comunicazione.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Appunto, aumenta tutto.
Tranne la capacità di scommettere e la possibilità di rischiare.
Credo che questo abbia portato ad un atrofizzarsi del mercato, ma soprattutto del pensiero.
Si vaga. Ci attacchiamo a quello che succede, a quello che uscirà domani, alla scadenza di questo e quell’altro bando.
Si risponde a parametri, a numeri.
Si è un po’ persa la libertà creativa.
Ho paura che sia andata perduta anche la capacità della lungimiranza, di essere visionari.
E allora come pensiamo ci possa essere un’evoluzione?
Il problema non credo stia solo nella scarsità di risorse, il problema ristagna nella poca volontà di assumersi il rischio, di investire in una scommessa, di godersi il privilegio dello sbaglio.
Non credo ci sia una reale crisi del teatro, ci sono teatri ovunque, ne nascono a bizzeffe, ci sono festival, stagioni, rassegne, eventi nei paesi di poche centinaia di abitanti come nelle grandi città.
Forse è in crisi “l’umano” che vive il teatro.
Alle volte ho l’impressione che tutti sappiano i problemi, tutti conoscano le soluzioni, tutti siano accomunati dalle stesse preoccupazioni, ma nessuno faccia niente.
Bisogna smettere di lamentarsi e ripetere che all’estero le cose vanno meglio, probabilmente sarebbe ora di capire perché all’estero le cose vanno meglio, stravolgere il sistema e riscriverlo provando ad imitare quei modelli che funzionano. Però prima di tutto serve cambiare il modo di pensare, altrimenti il rischio che si corre è quello di mettere in pratica solo una brutta copia.
Citando Godard: “L’arte nasce dall’arte: il punto non è dove prendi le cose, ma dove le porti”.
Non possono essere solo gli artisti a fare il salto nel vuoto cercando nuove forme, che poi nuove non sono, o intraprendendo chissà quale sentiero sperimentale, se poi il contenitore in cui si offrono e si muovono è arrugginito o nel peggiore dei casi non apre proprio le porte.
Serve che qualcuno sostenga il cambiamento, servono manovre istituzionali coraggiose, ci vuole l’assunzione di responsabilità sia da parte di chi fa, sia da parte di chi produce e ospita il teatro.
Leggo di molte realtà interessanti e di molti registi giovani in gamba, che fanno fatica ad emergere, in un contesto legato a vecchie logiche, che pare sia troppo scomodo abbandonare e condivido un senso di frustrazione. Quando mi capita di assistere al successo di un/a giovane collega che ha un pensiero agganciato al presente e proteso al futuro, mi sembra di respirare, gioisco per lei/lui, perché vedo uno spiraglio, una possibilità per tutti.
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Una maggior tutela di chi fa questo mestiere.
E poi mi ripeto: scommettere, rischiare, sbagliare.
Riscrivere le stagioni, riscrivere i finanziamenti.
Forse occorre trovare un punto d’incontro, una discussione comune, il rischio deve poter essere di entrambi: artisti e programmatori.
Ma si ha paura. Paura di fare l’investimento sbagliato. Di intraprendere nuove strade, di avvicinare nuovo pubblico.
E’ faticoso.
L’eventualità dell’errore stanca, non è concessa.
Non si può più sbagliare, mai un tweet sbagliato, una foto sbagliata, un progetto sbagliato, una regia sbagliata.
Io credo invece che l’errore sia libertà, sia la base del nostro lavoro, altrimenti non esisterebbero nemmeno le prove.
Purtroppo si continua a pensare più ai numeri, che a far emozionare la gente. Non ha più importanza se la gente va a teatro o da un’altra parte.
Eppure se un teatro chiude, diventa buia quella via, quel quartiere diventa pericoloso, diventa triste chi vive quella comunità.
E’ chiaro che servirà un anno zero, un periodo di transizione, fa parte del gioco.
Ma continuare così non credo aiuti nessuno.
Bisogna riscoprire il cambiamento abbandonando il consueto.
In certi casi abbiamo la presunzione di sapere cosa vuole il pubblico. Mah! Secondo me non sappiamo un bel niente.
E tutti facciamo finta di nulla.
Bisogna creare un dialogo con i giovani, che rare volte vanno a teatro.
E’ un lavoro complicato, meticoloso. E’ una sfida che vale la pena cominciare.
Il teatro è la forma più antica, è vero, va bene. Questo pensiero, però, rischia di essere un boomerang, ci condanna all’immobilità, bisogna scuoterlo un attimo.
E invece pare che si evolva tutto, tranne il teatro e il sistema teatrale.
E di conseguenza è ovvio che la distribuzione fatichi a funzionare se le richieste di chi ospita, a parte rare eccezioni, continueranno a girare sempre attorno agli stessi nomi e allo stesso pubblico.
Insisto sul fatto che occorre effettuare una rigenerazione del sistema dalle radici, non basta rattoppare o effettuare delle migliorie a qualche settore in particolare. Sarebbe come chiudere con un po’ di catrame grossolano i buchi di una strada dissestata e continuare a percorrerla. Al primo acquazzone non tarderebbero a riaffiorare le falle.
Ma la rivoluzione, come accennavo su, non può essere esercitata solo dal basso. Un cambiamento strutturale profondo non è possibile finché si combattono battaglie solitarie o peggio finché tra di noi ci bisticciamo manciate di date.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Cambiano i linguaggi, cambiano i contenuti cambiano le forme, cambiano i ritmi, ma la funzione della creazione scenica deve restare quella di metterci di fronte alle nostre emozioni, permetterci di maturare riflessioni e sviluppare un pensiero. Porre domande, non dare risposte.
Il teatro è estremamente importante per creare nuove prospettive sulla realtà, fornire strumenti alternativi per conoscere il nostro passato, leggere la contemporaneità e guardare al futuro in maniera consapevole.
Certamente bisogna scegliere cosa raccontare e come farlo, ma se l’artista ama il suo pubblico non lo consola quasi mai, di conseguenza il pubblico, che ha così bisogno della relazione che si instaura con l’attore sulla scena, accetta di essere messo in una posizione scomoda. In questo patto la creazione scenica ottiene la sua massima realizzazione. Qui avviene l’evoluzione. Ed è un rapporto performativo quello che si crea con gli spettatori ogni sera, quello che rende ogni replica diversa dall’altra e l’arte del teatro unica e irrinunciabile nel suo genere.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Credo che, in questo momento storico, raccontare quello che ci riguarda da vicino sia una priorità. E’ fondamentale riportare un punto di vista, dei dubbi, far interrogare il pubblico stesso su determinati temi legati alla realtà che viviamo.
Nell’era delle fake news della falsa positività e delle vite artificiosamente perfette è forse necessario che in teatro, dove la presenza di spettatori e attori in carne ed ossa genera un’interazione fisica reale e irripetibile, si usi la lente di ingrandimento per affrontare da un altro lato alcuni aspetti della contemporaneità che magari ci sfuggono o ignoriamo.
Ci si prenda il tempo di indagare la complessità dei sentimenti, per tirare fuori tutte le emozioni anche quelle negative, quelle che i post motivazionali e le citazioni sul successo reprimono obbligandoci a credere che stiamo tutti bene, che il mondo non è un brutto posto, sei tu che lo vedi in quel modo. Evitando di far sentire lo spettatore comparsa, come se quello di cui stiamo parlando non lo riguardasse, al contrario rendendolo testimone attivo di questa epoca.
Quali siano gli strumenti efficaci non te lo so dire, ma posso raccontarti quello che sto sperimentando io ultimamente.
Da un po’ di tempo a questa parte mi sono avvicinato al teatro documentario, una modalità che cerca di narrare il “reale” attraverso un rapporto privilegiato con l’immagine video e le riprese live, ispirato dal bisogno di raccontare e vedere gli esseri umani così come sono per davvero.
Il tentativo è di ricreare sul palco, l’autenticità di quei contatti che si sono instaurati in tutto il percorso di ricerca, di creazione e produzione.
Tale tipo di approccio richiede mesi di studio, ricerche, approfondimenti.
Devi accettare di allontanarti dal teatro, dalla tua comfort zone per toccare altre aree come la sociologia, l’antropologia, l’architettura, l’urbanistica, insomma tutto ciò che si muta con gli eventi e con le trasformazioni del tempo, che appartiene alla vita.
E’ un lavoro complesso, si sbaglia molto, si viaggia su un terreno traballante, che muta continuamente, mi è capitato di perdere pezzi, di percorrere strade e poi dover tornare indietro, di inseguire soggetti sbagliati e di incontrare per caso persone illuminanti.
Per questo mi piace parlare più di sperimentazioni sociali che di spettacoli, di occasioni di esperienza e relazioni ancor prima di produzioni.
C’è tanto da raccontare. E a volte diventa difficile scegliere da dove partire per creare un nuovo progetto. Poi però succede qualcosa, ti capita di venire a contatto con una storia che senti di aver la responsabilità come artista di far conoscere a più persone possibili e lì, in quella spinta, comincia l’atto creativo. E’ in quel “reale”, in quelle emozioni, che incontro la straordinarietà del fare teatro.
Per la quarantatreesima intervista de Lo stato delle cose, incontriamo Andrea Cramarossa. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Andrea Cramarossa fonda a Bari nel 2003 il Teatro delle Bambole. Tra le regie ricordiamo: Se cadere imprigionare amo, Il fiore del mio Genet, Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, Libertà a Brema di Reiner W. Fassbinder, Ifigenia – sua figlia.
Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
Posso dire che tutto confluisce nella creazione. Questo “tutto” va a determinare e a strutturare ciò che definisco “azione interiore”, un movimento che si fa pensiero e che mi permette di sintonizzarmi con l’esterno, con il “fuori”, chiaramente dopo la consapevolezza dell’esistenza di un “ordinatore” che risponde alle esigenze della ricerca in atto in quel momento. Il Caos è parte del metodo e parte della pratica che mi porta a creare ed è certamente peculiare e oggetto perspicuo di quel magma che per mesi, alle volte per anni, continua a muoversi dentro di me fino alla perfetta aderenza coi “fatti esterni”, ossia quando ritengo che sia giunto il momento che la “tela incontri il colore e la carta l’inchiostro”. Questa coincidenza spazio-temporale è difficile da spiegare ed è un Mistero ed è giusto che rimanga tale anche per me. Tutte le volte in cui abbia tentato di farla accadere è sempre naufragata e finita chissà dove. Per quanto riguarda l’efficacia di questo Caos, per me, è fondamentale che nell’epifania evolutiva del movimento interiore, io trovi i canali per rendere tale movimento comprensibile all’attore, poiché il mio lavoro sulla messa in scena si muove dinamicamente con l’attore ed egli è invitato a trovare per sé e per il personaggio sempre il culmine di una sincerità profonda.
Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Non ho chiaramente una soluzione. Posso solo intuire che qualsiasi forma che definiamo “spettacolare” suscettibile di finanziamenti, nella maggior parte dei casi, pone dei limiti enormi all’accesso della stessa, vuoi in riferimento all’età o vuoi per mere questioni legate alla popolarità (parola omnicomprensiva) del soggetto che tenta di accedervi. Sarebbe opportuno, credo, iniziare a prevedere l’apertura di tali contesti in previsione di una effettiva circuitazione-ricambio degli artisti che si propongono, indipendentemente dai suddetti limiti; magari sarebbe anche significativo poter prevedere periodi più lunghi di festival e rassegne, permettendo anche una maggiore permeabilità tra artista e comunità ospitante, provando a determinare un bisogno verso l’arte dal vivo non legata alla mercificazione dell’atto teatrale con la sola prospettiva di far vendere il “prodotto” agli spettatori e ai Direttori Artistici dei teatri, ma far sì che gli spettatori vengano accompagnati alla conoscenza di quest’arte, creando, così, una relazione artista-spettatore che rientrerebbe in una visione più ampia, “tragica” direi, che porterebbe inevitabilmente a una coesione del tessuto sociale e favorirebbe anche un dialogo tra artisti che si è perso da lungo tempo, vedendone anche l’intreccio armonico e fruttifero negli intenti condivisi. Qualsiasi separazione o divisione sarebbe infausta per chiunque. In questo senso, tutti questi bandi e progetti finanziati, acquisterebbero, per me, un più lieto significato, se inseriti nella visione della reciprocità, uscendo dal meccanismo che li rende fini a se stessi, atti al consumo del denaro di cui si nutrono.
La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Il dialogo tra i teatri stabili e gli artisti indipendenti è inesistente, semplicemente perché un dialogo non è e non è stato possibile stimolarlo nei decenni passati, per volontà, indifferenza, poca curiosità, neghittosi spasmi della sedentarietà parastatale camuffata da capacità imprenditoriale. In Italia un artista indipendente che si esibisce in un teatro stabile, oggi, costituirebbe un ossimoro. Questo perché, ancora oggi, purtroppo, tutto ciò che rientra nel sistema teatrale pubblico è totalmente assoggettato alla politica-schiavitù delle sovvenzioni e tutto ciò che rientra in questo sistema, al momento, è del sistema, appartiene ad esso, anche ciò che apparentemente viene fatto passare per “alternativo”, “avanguardistico”, “nuovo”, appunto, “indipendente”, quando in verità è soltanto libero. Intravedo una possibilità di dialogo soltanto se le cosiddette “imprese culturali” faranno veramente le imprese senza i soldi pubblici, o perlomeno, non con l’attuale, bulimica, dipendenza, e chi, invece, persegue una via di ricerca e di sperimentazione – leggi: innovazione – con tempi e modalità totalmente avulse dal sistema consumistico attuale, verrà invece sostenuto dallo Stato, ossia dalle nostre tasse reinvestite, in questo caso, in “beni immateriali”, indispensabili per lo sviluppo sano e sostenibile della comunità, e non in “prodotti immateriali”. A questo punto, saranno le imprese stesse a doversi rivolgere alle realtà che si occupano di ricerca per potersi rinnovare, senza però inglobarle nell’insieme “proto-politico-sistemico-partitico-regionalistico”, probabilmente innescando un meccanismo che non andrà a snaturarle. Le realtà di ricerca sono state finora visibili in forme di vulnerabili funamboli in bilico su una perenne burrasca, anche per via dell’inaudita concorrenza sleale, tramutate in fantasmi e protagoniste involontarie di questa tristissima farsa. Bisognerebbe rinvigorire e dare dignità d’esistenza a tutti quei “teatri off”, piccoli e spesso periferici, marginali ma importanti ed essenziali, tanto dal punto di vista sociale quanto artistico e culturale: è in essi che si formano le future generazioni di danzatori, di attori, di tecnici e di registi ed è sempre in essi che sarebbe immaginabile una circuitazione maggiore di spettacoli in dialogo con le comunità ospitanti.
La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
Dobbiamo ricordarci dove eravamo, il punto di arrivo prima della recente sospensione, con un pubblico sempre più irrequieto, così reso dalle dinamiche dell’online ostinato. Abbiamo già dimenticato quanto sia stato scioccante, per noi che viviamo del mestiere dell’arte dal vivo, assistere all’immancabile dialogo telefonico dello spettatore durante la messa in scena? Non ricordiamo più le foto e i filmati poi divulgati e messi alla mercé di chiunque sui social sempre ad opera di spettatori non più in grado di contenersi e di staccarsi da quella protesi? Dov’è finito quell’istante impalpabile e magico dove tutto era possibile e tutto accadeva nell’animo dello spettatore? Che ne è stato di quel luogo, di quella dimensione? Cosa ne ha attutito il palpito? L’arte dal vivo può essere vissuta solo ed esclusivamente dal vivo, nel rito condiviso, e in nessun altro modo. Ciò che è virtuale è anche reale, appartiene alla realtà, per dirla con Hegel, quella virtualità che è frutto dell’ingegno umano. Ma proprio perché appartiene al reale non può trovare spazio nella creazione artistica che è extra localizzata, che racconta le ombre della realtà e non la realtà stessa, in una significanza che definirei post-drammaturgica, suprema, decifrabile soltanto, a mio avviso, nell’avventuroso inerpicarsi tra le trame di un paesaggio letterario, che appartenga soprattutto alla letteratura. Noi siamo questa letteratura, noi tutti, nessuno escluso. Ed è da lì che essa ha fallito il suo compito, ha smesso di pensare. Essa ha smesso di raccontarci molti anni fa, lasciando il passo a uno specchio in grado di riflettere la nostra immagine il più fedelmente possibile, allontanandoci quanto più possibile dalla nostra essenza, un luogo dove non troviamo più i nostri pensieri in forma di diario ma solo noi stessi immaginati in una riproduzione della nostra realtà, confermandola e duplicandola miriadi di volte, lasciando in chi guarda un altro luogo dal quale fuggire: la noia.
Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
Da quando ho iniziato a occuparmi di ricerca in ambito teatrale, tramite processi complessi, seri e totalizzanti, ho smesso quasi immediatamente di intendere l’arte come artificio e rappresentazione di qualcosa o di qualcuno. Per me, nell’arte, nulla più può essere rappresentato ma solo raffigurato, compresi gesti e soprattutto parole. Il lavoro sul suono mi ha insegnato tantissimo, per le relazioni che crea, per le dinamiche coi corpi, per la possibilità di determinare spazi di infinita grazia e luoghi dell’estasi dove non esiste alcun giudizio. Il suono è la mia casa, anzi, meglio, è l’Heimat possibile dove posso sentire come verità quella sensazione solo immaginata o intuita di “rete” che tutto unisce e tutto rende famigliare. La post-verità è un trucco, così come lo è qualsiasi discorso sulla verità. Dire che la verità non esiste è già esprimere una verità e, quindi, affermare che essa esiste. Dire che qualcosa di falso sia vero è una verità ma lo è anche dire che è vera una cosa falsa. Il dire, il dichiarare, rende implicita la verità reale di ciò che sto affermando, anche se oggettivamente così non è, confermando ancora una volta l’esistenza della verità nelle sue molteplici, apparenti, forme, secondo me, tutte vere anche nell’apparenza. Invece, la verità, quella cioè che ci renderebbe veri e che resta insondabile, esiste nel silenzio che si può soltanto intendere, ascoltare, avvertire per prossimità, come fosse una creatura rara che vive in uno spazio dai confini a maglie larghe dove, però, non appena ci si accosta, scompare. E’ lì che abitano la musica, il teatro, la danza, la poesia. Noi, possiamo solo appoggiare l’orecchio e tentare di imparare l’inafferrabile linguaggio di quella vita. Credo che questo sia l’unico rapporto possibile con il reale; non ostinarsi a voler comprendere ciò che è già evidente nello splendore della Natura e non può in alcun modo essere detto e tanto meno spiegato.
Per la quarantaduesima intervista de Lo stato delle cose rimaniamo a Torino eincontriamo Simone Schinocca, regista e fondatore di Tedacà. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.
Simone Schinocca, oltre a dirigere dal 2002 Tedacà di cui ricordiamo Sotto lo sguardo delle mosche, Il sentiero dei passi pericolosi entrambi di Michel Marc Bouchard, gestisce Bellarte, ex fabbrica trasformata in teatro a Torino, e Cartiera una ex fabbrica di carta trasformata in spazio polivalente con sale prova. Proprio a Bellarte e in rete con Acti teatri Indipendenti, Cubo teatro e il Mulino di Amleto, organizza il progetto Fertili Terreni Teatro.
D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?
L’atto creativo dovrebbe avere inizio dalla necessità di interrogarsi e portare un punto di vista su elementi micro o macro dell’universo che ci circonda e ci avvolge. Avere la forza di una visione e di una prospettiva che si manifesta e diventa “carne” in una relazione. Una relazione fra gli artisti che se ne fanno portatori e che scelgono di condividere per un dato tempo e un dato luogo il processo creativo, e che a loro volta come “unità” si mettono in relazione con il pubblico a cui tutto è destinato e rivolto. Il pubblico non è un concetto astratto ma sono occhi, sono respiri, sono vite, sono esperienze, sono paure, sono aspettative, sono domande, è unicità. Necessità, visione, relazione, condivisione questi sono gli elementi che mi sembrano essere peculiari.
Il teatro, lo spettacolo dal vivo è il mondo delle “e” al contrario di quello che spesso si pensa e si afferma in cui si va alla ricerca del “giusto spettacolo”. E’ uno dei pochi spazi dove “questo” e “quello” hanno senso senza doversi porsi per forza nella scelta di “questo” o “quello”. Intendo dire che non esiste un’unica via “giusta”. Infinite le strade, infinite le modalità, infinite le possibilità di racconto, di mezzi e di strumenti. Questa per me una delle “bellezze” assolute dell’arte dal vivo. Sono “onnivoro” e scelgo di partecipare (non consumo, non vedo, non assisto…) a creazioni di nuova drammaturgia, di testi classici, di riallestimenti e riletture, di allestimenti tradizionali, di lirica, di musical, di spettacoli di danza, di concerti di musica classica e pop.
Adoro quando le creazioni sceniche partono dall’interrogarsi sul mondo che ci circonda, svelandone le contraddizioni, ribaltandone le consuetudini di percezione e di racconto, portando domande e punti di vista inaspettati sulle assurdità e sulle meraviglie del nostro tempo. E proprio questo approccio ha guidato il lavoro della nostra compagnia in questi anni. E’ una possibilità delle infinite possibilità di indagine.
Ma qualunque sia lo spunto che muove la creazione scenica, per essere efficace, penso che sia fondamentale lavorare, approfondire, non dare mai per scontata e svalorizzare la relazione che si va a instaurare fra gli artisti stessi e gli elementi, che condividono e costruiscono l’azione creativa, e il pubblico a cui è rivolta. Nella relazione, che prende forma fra artisti ed elementi della creazione allargandosi poi in una circolarità a tutta lo spazio teatrale, coinvolgendo, sconvolgendo, sollecitando, ascoltando e “respirando” il pubblico, sta il cuore, l’essenza dell’arte performativa.
Quella relazione, quella circolarità, spesso viene abusata, negata, rotta. A volte viene sbilanciata a favore del “respiro comune fra gli artisti” ma che diventa impermeabile a chi è in sala, o viceversa troppo orientata verso la quarta parete e non in ascolto e consonanza di quello che avviene sul palcoscenico. In questo equilibrio delicatissimo sta la “croce” e la “ delizia” della creazione scenica.
D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?
Quello a cui assistiamo quotidianamente nella produzione dello spettacolo dal vivo, è il tentativo di inseguire “l’idea” che viene lanciata dal finanziatore di turno. Si passano le giornate a ricercare le possibilità e i bandi. E in questa rincorsa spesso si rischiano di perdere alcuni elementi cuore del sistema produttivo della creazione scenica che si muove, per l’appunto, nella costruzione di una relazione essenziale, fragile e continuamente mutevole fra artisti e pubblico.
Prima di tutto il tempo. Siamo quasi sempre nella condizione di “non avere tempo”, e chi impone di prendersi il “giusto tempo” rischia spesso di giocare e cadere, proprio perché i mezzi sono pochi, nello sfruttamento degli artisti che entrano a far parte del processo creativo.
Ma non serve solo un “giusto” tempo, sarebbe necessario che gli artisti possano sperimentarsi, conoscersi, crescere insieme, con un lavoro costante e duraturo. Sono relazioni che richiedono tempo, costanza, fedeltà, perseveranza, la capacità, come collettivo, sia di costruire un comune respiro e sentire, sia di imparare gradualmente a discernere fra quello che è necessario e quello che è superfluo. La tendenza spesso è che per ogni nuova produzione, il gruppo di lavoro cambi riportando quasi a zero, il lavoro di conoscenza reciproca e di costruzione di senso comune.
In questi anni ho cercato per quanto ci è stato possibile di consolidare un gruppo di artisti di riferimento e in cui, lavoro dopo lavoro, poter andare in maggiore profondità nella relazione e nell’esplorazione delle possibilità. Questa scelta spesso però va nettamente in contrasto con il meccanismo di finanziamento dei progetti, che rispondendo a bandi insegue temi, modalità, tempi, regole, requisiti imposte dai soggetti finanziatori. Bandi e opportunità che spesso richiedono il “fare” e “mostrare” prima dell’ascoltare, accogliere e finanziare l’idea. Per le realtà produttive risulta difficilissimo riuscire a costruire una visione progettuale a medio e lungo termine, che si affianchi alla costruzione di un collettivo di artisti di riferimento con cui condividere la visione. E proprio su questo aspetto si fonda la fragilità delle realtà dello spettacolo dal vivo, che in questi mesi di emergenza Covid si manifesta in tutta la sua deflagranza. Realtà che dopo un mese di chiusura sono già in ginocchio e in cui l’instabilità economica, progettuale è un elemento ormai quotidiano della propria esistenza.
Sarebbe auspicabile andare verso meccanismi di finanziamento che premino proprio la capacità di proiezione non a breve termine ma con un respiro di due o tre anni. Passare dal meccanismo del finanziamento di “singole” azioni a quello di finanziamenti di linee progettuali e visioni che abbiano un arco temporale di più ampio respiro, in cui sia premiante la stabilità lavorativa per gli artisti del collettivo e il tempo di ricerca anche su più progetti e creazioni sceniche. Meccanismi di sostegno alla compagnia e alla sua traiettoria progettuale e non basati sul “fare”, “vedere” o sull’”esame a step” del lavoro per poter accedere alle fasi successive di finanziamento. Meccanismi che richiedono ai soggetti valutatori di entrare nel merito del progetto provando a esplorarne prospettive ed elementi possibili di sviluppo (andando ben oltre a quanto scritto in poche cartelle). Indubbiamente così facendo i finanziatori dovrebbero assumersi una dose maggiore di rischio (che è elemento imprescindibile della sperimentazione) e la responsabilità di investimenti e di tutoraggi che possano dare stabilità su più progetti e per lunghi periodi, ma potrebbero diventare catalizzatori allo sviluppo e consolidamento delle realtà produttive.
Si tratterebbe di una “rivoluzione” in cui viene spostato l’asse di valutazione per l’accesso alle risorse dalla “singola idea”, alle realtà nel suo complesso e alla loro visione e capacità di progettazione di lungo respiro, andando a cambiare completamente il rapporto fra realtà di produzione e i diversi enti pubblici
D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?
Da anni tutti lo dicono e lo affermano, il vero “cancro” del sistema teatrale è la distribuzione. Tutto l’asse di valutazione e finanziamento del sistema è spostato sulla produzione. Nella ridefinizione dei diversi ruoli dei diversi enti, compiuta negli ultimi anni, la programmazione, che è una funzione di assoluta importanza, è quasi sempre rilegata ad essere attività accessoria o non valutata o rendicontabile. Inoltre le funzioni dei diversi livelli sono spesso poco chiare, sovrapposte e rendono difficoltoso, se non impossibile, l’accesso alle realtà produttive di “diversa categoria”. Gli interlocutori privilegiati, a volte quasi esclusivi, diventano le altre realtà nazionali “di pari livello ministeriale”. Anche i soggetti nati e sostenuti esclusivamente per la dimensione di programmazione, si vedono costretti a sostenere le attività di circuitazione dei diversi enti del territorio per aiutarli a rispettare le “quantità “dichiarate, lasciando ben pochi spazi di accesso alle compagnie di produzione e alle realtà più giovani. A tutto questo si aggiunge il fatto che per le compagnie di produzione disseminate sul territorio nazionale il criterio predominante di valutazione è quello produttivo. In questo quadro gli spazi di distribuzione diventano pochi e difficilmente accessibili.
A mio parere andrebbe legittimata, valutata e sostenuta l’attività di programmazione. Una compagnia in dialogo con il proprio territorio e che compia una attenta attività di programmazione può diventare un punto di riferimento per una comunità di artisti e cittadini.
Da tre anni come compagnia, in rete con altre tre realtà e altri due teatri, abbiamo lanciato il progetto Fertili Terreni Teatro che grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo e della fondazione Piemonte dal vivo ha creato uno spazio di programmazione fortemente in dialogo con il territorio in cui è inserito. In tre anni oltre 120 produzioni sono state ospitate, quasi tutte realtà che difficilmente sarebbero riuscite a trovare uno spazio di programmazione in altri luoghi cittadini o regionali. Riceviamo ormai centinaia e centinaia di proposte, che ci lusinga ma che con drammatica evidenza, ci dimostra quanto ci sia sete di spazi di rappresentazione.
Dall’altra come compagnia iniziamo a interrogarci anche se non si possa e non si debba provare a ragionare al sistema produttivo e distributivo in modo completamente diverso. Forse proprio grazie alla sperimentazione di questi tre anni di Fertili Terreni Teatro stiamo provando a mettere in campo azioni che possano sondare la possibilità di tenute più lunghe per gli spettacoli realizzati coinvolgendo, fin dalla fase ideativa, altri spazi e reti nazionali, in modo da prevedere, già nella fase di produzione, tempi di rappresentazione più lunghi e su più città.
Quindi da un lato ci dovrebbe essere un sistema di valutazione e finanziamento che valorizza l’attività di programmazione, dall’altro le compagnie dovrebbero accettare la sfida e l’impegno di mettersi in dialogo con un territorio, costruire un proprio pubblico di riferimento a cui destinare anche attività di programmazione di altre compagnie. La nostra fabbrica “Bellarte” che da 14 anni è la nostra casa, è diventata luogo identitario di un territorio e di un pezzo di città anche grazie all’attività di ospitalità di altre compagnie e confronto con altre poetiche, visioni e suggestioni che in questi anni abbiamo accolto.
Ultimo, ma non ultimo, elemento completamente da scardinare è la dimensione di “irraggiungibilità” che si vive nel sistema teatrale. Indubbiamente vi è una inflazione di produzione, e non tutto può e potrà ottenere spazi adeguati di circuitazione e rappresentazione. Ma tutto può ottenere almeno attenzione, lettura, ascolto e dialogo. Ricevere un feedback sui lavori inviati, un confronto fra professionisti è e dovrebbe essere elemento fondamentale del dialogo fra i diversi enti e le diverse realtà. Sembra di sottolineare l’ovvio. Ma purtroppo ovvio non è. E’ un lavoro immane, faticoso, sono più i “no” dei “si” che diciamo e subiamo. Ma quel dialogo è un elemento imprescindibile del nostro lavoro.
D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?
L’esperienza artistica dello spettacolo dal vivo genera un legame di empatia fra il “creatore” e il “fruitore” (elemento comune con qualsiasi esperienza artistica) dando però la possibilità di instaurare una unicità di rapporto manifesto fra artisti e pubblico (vero elemento di differenziazione dalle altre arti). La vera unicità della fruizione dal vivo rispetto alla dimensione a distanza e virtuale è la creazione di un legame fra fruitore e creatore non ripetibile, tangibile e condiviso. Una esperienza collettiva, in cui gli stessi fruitori condividono la percezione dell’opera, l’entusiasmo, la perplessità, le domande e i pensieri che ne scaturiscono. E da questa condivisione nasce la possibilità di connessione fra le persone del pubblico che va oltre la visione dello spettacolo e che può invadere strade, piazze e case. Mi piace immaginare lo spazio teatrale come un innesco per una comunità che si ritrova in un determinato luogo e tempo, e che da quell’incipit parta un’onda di diffusione a cerchi sempre più larghi. Un sasso che cade in un bacino d’acqua. E proprio in quella condivisione e diffusione dovrebbe incarnarsi l’essenza stessa del senso dell’azione performativa.
Spesso viviamo l’esperienza scenica come momento di “vita” che nasce e muore all’interno delle mura degli spazi dove ha azione, dimenticando, non considerando, svalutando, non credendo alla forza potenziale di condivisione, diffusione, rivoluzione e cambiamento che partendo da quel luogo può e deve diffondersi all’esterno. In una società e in un tempo sempre più proiettata e basata su di una solitudine “non marginabile” delle nostre vite, lo spettacolo dal vivo, diventa nella sua semplicità, di per sé un atto rivoluzionario, non tanto per gli artisti ma soprattutto per il pubblico che sceglie di condividere quell’esperienze con altre persone e diventando esso stesso diffusore di quanto empaticamente vissuto.
D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?
In un tempo e in uno spazio sempre più complesso, articolato, stratificato, inaccessibile, e deformato, ognuno di noi è desideroso di trovare strumenti di lettura, interpretazione e di appropriamento di quello che ci circonda. E in questo l’arte in tutte le sue forme diventa lente imprescindibile con cui poter vedere, reinterpretare, classificare, ordinare e scardinare il mondo.
E lo spettacolo dal vivo, anche grazie all’esperienza comunitaria in cui si manifesta, diventa una grande possibilità di lettura, reinvenzione, ripensamento del tempo presente.
Tutto può parlare all’oggi. Qualsiasi tempo, azione, scelta può diventare universale. Piccole storie che possano diventare capaci di donare a chiunque lenti con cui rileggere la propria esperienza e il proprio vissuto. Una ricerca che dal particolare porta all’universale.
Proprio in questa dimensione trovo che la creazione scenica manifesta una sua assoluta necessità e contemporaneità. E’ una grande occasione per chi la crea, per chi la progetta, la ospita, per chi la vive e la respira. Il teatro come luogo delle domande e non delle risposte, come luogo dove porre interrogativi, svelare il celato, trasformare lo scontato, offrire possibilità dove si vedono solo limiti. E se penso a questa dimensione dello spazio scenico mi chiedo come si possa immaginare che sia estraneo al reale, al tempo che lo circonda, come possa non essere in profondo ascolto, come non possa essere curioso di ricercare storie e vissuti che svelano punti di vista inediti, inaspettati, ribaltati, come non possa rileggere la tradizione come universo in cui quello che è stato ha la forza e la possibilità di parlare a quello che è, come non possa provare a immaginare, ribaltare e confondere gli scenari a cui aspirare. E in tutto questo penso che i collettivi di artisti non possano che partire, confrontarsi, mettersi in relazione e ascolto della comunità e dei territori in cui vivono e a cui fanno riferimento. Questo non significa limitarsi “al circondario” ma partire da questo per poter andare alla ricerca delle domande, delle storie e delle prospettive utili ad arricchire, sbalordire, interrogare, ripensare, re ideare il reale in cui siamo persi.
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