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Andrea Cramarossa

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA AD ANDREA CRAMAROSSA

Per la quarantatreesima intervista de Lo stato delle cose, incontriamo Andrea Cramarossa. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Andrea Cramarossa fonda a Bari nel 2003 il Teatro delle Bambole. Tra le regie ricordiamo: Se cadere imprigionare amo, Il fiore del mio Genet, Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, Libertà a Brema di Reiner W. Fassbinder, Ifigenia – sua figlia.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Posso dire che tutto confluisce nella creazione. Questo “tutto” va a determinare e a strutturare ciò che definisco “azione interiore”, un movimento che si fa pensiero e che mi permette di sintonizzarmi con l’esterno, con il “fuori”, chiaramente dopo la consapevolezza dell’esistenza di un “ordinatore” che risponde alle esigenze della ricerca in atto in quel momento. Il Caos è parte del metodo e parte della pratica che mi porta a creare ed è certamente peculiare e oggetto perspicuo di quel magma che per mesi, alle volte per anni, continua a muoversi dentro di me fino alla perfetta aderenza coi “fatti esterni”, ossia quando ritengo che sia giunto il momento che la “tela incontri il colore e la carta l’inchiostro”. Questa coincidenza spazio-temporale è difficile da spiegare ed è un Mistero ed è giusto che rimanga tale anche per me. Tutte le volte in cui abbia tentato di farla accadere è sempre naufragata e finita chissà dove. Per quanto riguarda l’efficacia di questo Caos, per me, è fondamentale che nell’epifania evolutiva del movimento interiore, io trovi i canali per rendere tale movimento comprensibile all’attore, poiché il mio lavoro sulla messa in scena si muove dinamicamente con l’attore ed egli è invitato a trovare per sé e per il personaggio sempre il culmine di una sincerità profonda.

Andrea Cramarossa Se cadere impressionare amo ph: @Massimo Demelas

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non ho chiaramente una soluzione. Posso solo intuire che qualsiasi forma che definiamo “spettacolare” suscettibile di finanziamenti, nella maggior parte dei casi, pone dei limiti enormi all’accesso della stessa, vuoi in riferimento all’età o vuoi per mere questioni legate alla popolarità (parola omnicomprensiva) del soggetto che tenta di accedervi. Sarebbe opportuno, credo, iniziare a prevedere l’apertura di tali contesti in previsione di una effettiva circuitazione-ricambio degli artisti che si propongono, indipendentemente dai suddetti limiti; magari sarebbe anche significativo poter prevedere periodi più lunghi di festival e rassegne, permettendo anche una maggiore permeabilità tra artista e comunità ospitante, provando a determinare un bisogno verso l’arte dal vivo non legata alla mercificazione dell’atto teatrale con la sola prospettiva di far vendere il “prodotto” agli spettatori e ai Direttori Artistici dei teatri, ma far sì che gli spettatori vengano accompagnati alla conoscenza di quest’arte, creando, così, una relazione artista-spettatore che rientrerebbe in una visione più ampia, “tragica” direi, che porterebbe inevitabilmente a una coesione del tessuto sociale e favorirebbe anche un dialogo tra artisti che si è perso da lungo tempo, vedendone anche l’intreccio armonico e fruttifero negli intenti condivisi. Qualsiasi separazione o divisione sarebbe infausta per chiunque. In questo senso, tutti questi bandi e progetti finanziati, acquisterebbero, per me, un più lieto significato, se inseriti nella visione della reciprocità, uscendo dal meccanismo che li rende fini a se stessi, atti al consumo del denaro di cui si nutrono.

Andrea Cramarossa Il fiore del mio Genet ph: @Massimo Demelas

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il dialogo tra i teatri stabili e gli artisti indipendenti è inesistente, semplicemente perché un dialogo non è e non è stato possibile stimolarlo nei decenni passati, per volontà, indifferenza, poca curiosità, neghittosi spasmi della sedentarietà parastatale camuffata da capacità imprenditoriale. In Italia un artista indipendente che si esibisce in un teatro stabile, oggi, costituirebbe un ossimoro. Questo perché, ancora oggi, purtroppo, tutto ciò che rientra nel sistema teatrale pubblico è totalmente assoggettato alla politica-schiavitù delle sovvenzioni e tutto ciò che rientra in questo sistema, al momento, è del sistema, appartiene ad esso, anche ciò che apparentemente viene fatto passare per “alternativo”, “avanguardistico”, “nuovo”, appunto, “indipendente”, quando in verità è soltanto libero. Intravedo una possibilità di dialogo soltanto se le cosiddette “imprese culturali” faranno veramente le imprese senza i soldi pubblici, o perlomeno, non con l’attuale, bulimica, dipendenza, e chi, invece, persegue una via di ricerca e di sperimentazione – leggi: innovazione – con tempi e modalità totalmente avulse dal sistema consumistico attuale, verrà invece sostenuto dallo Stato, ossia dalle nostre tasse reinvestite, in questo caso, in “beni immateriali”, indispensabili per lo sviluppo sano e sostenibile della comunità, e non in “prodotti immateriali”. A questo punto, saranno le imprese stesse a doversi rivolgere alle realtà che si occupano di ricerca per potersi rinnovare, senza però inglobarle nell’insieme “proto-politico-sistemico-partitico-regionalistico”, probabilmente innescando un meccanismo che non andrà a snaturarle. Le realtà di ricerca sono state finora visibili in forme di vulnerabili funamboli in bilico su una perenne burrasca, anche per via dell’inaudita concorrenza sleale, tramutate in fantasmi e protagoniste involontarie di questa tristissima farsa. Bisognerebbe rinvigorire e dare dignità d’esistenza a tutti quei “teatri off”, piccoli e spesso periferici, marginali ma importanti ed essenziali, tanto dal punto di vista sociale quanto artistico e culturale: è in essi che si formano le future generazioni di danzatori, di attori, di tecnici e di registi ed è sempre in essi che sarebbe immaginabile una circuitazione maggiore di spettacoli in dialogo con le comunità ospitanti.

Andrea Cramarossa Ifigenia – sua figlia ph: @ Roberta Gennaro

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Dobbiamo ricordarci dove eravamo, il punto di arrivo prima della recente sospensione, con un pubblico sempre più irrequieto, così reso dalle dinamiche dell’online ostinato. Abbiamo già dimenticato quanto sia stato scioccante, per noi che viviamo del mestiere dell’arte dal vivo, assistere all’immancabile dialogo telefonico dello spettatore durante la messa in scena? Non ricordiamo più le foto e i filmati poi divulgati e messi alla mercé di chiunque sui social sempre ad opera di spettatori non più in grado di contenersi e di staccarsi da quella protesi? Dov’è finito quell’istante impalpabile e magico dove tutto era possibile e tutto accadeva nell’animo dello spettatore? Che ne è stato di quel luogo, di quella dimensione? Cosa ne ha attutito il palpito? L’arte dal vivo può essere vissuta solo ed esclusivamente dal vivo, nel rito condiviso, e in nessun altro modo. Ciò che è virtuale è anche reale, appartiene alla realtà, per dirla con Hegel, quella virtualità che è frutto dell’ingegno umano. Ma proprio perché appartiene al reale non può trovare spazio nella creazione artistica che è extra localizzata, che racconta le ombre della realtà e non la realtà stessa, in una significanza che definirei post-drammaturgica, suprema, decifrabile soltanto, a mio avviso, nell’avventuroso inerpicarsi tra le trame di un paesaggio letterario, che appartenga soprattutto alla letteratura. Noi siamo questa letteratura, noi tutti, nessuno escluso. Ed è da lì che essa ha fallito il suo compito, ha smesso di pensare. Essa ha smesso di raccontarci molti anni fa, lasciando il passo a uno specchio in grado di riflettere la nostra immagine il più fedelmente possibile, allontanandoci quanto più possibile dalla nostra essenza, un luogo dove non troviamo più i nostri pensieri in forma di diario ma solo noi stessi immaginati in una riproduzione della nostra realtà, confermandola e duplicandola miriadi di volte, lasciando in chi guarda un altro luogo dal quale fuggire: la noia.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Da quando ho iniziato a occuparmi di ricerca in ambito teatrale, tramite processi complessi, seri e totalizzanti, ho smesso quasi immediatamente di intendere l’arte come artificio e rappresentazione di qualcosa o di qualcuno. Per me, nell’arte, nulla più può essere rappresentato ma solo raffigurato, compresi gesti e soprattutto parole. Il lavoro sul suono mi ha insegnato tantissimo, per le relazioni che crea, per le dinamiche coi corpi, per la possibilità di determinare spazi di infinita grazia e luoghi dell’estasi dove non esiste alcun giudizio. Il suono è la mia casa, anzi, meglio, è l’Heimat possibile dove posso sentire come verità quella sensazione solo immaginata o intuita di “rete” che tutto unisce e tutto rende famigliare. La post-verità è un trucco, così come lo è qualsiasi discorso sulla verità. Dire che la verità non esiste è già esprimere una verità e, quindi, affermare che essa esiste. Dire che qualcosa di falso sia vero è una verità ma lo è anche dire che è vera una cosa falsa. Il dire, il dichiarare, rende implicita la verità reale di ciò che sto affermando, anche se oggettivamente così non è, confermando ancora una volta l’esistenza della verità nelle sue molteplici, apparenti, forme, secondo me, tutte vere anche nell’apparenza. Invece, la verità, quella cioè che ci renderebbe veri e che resta insondabile, esiste nel silenzio che si può soltanto intendere, ascoltare, avvertire per prossimità, come fosse una creatura rara che vive in uno spazio dai confini a maglie larghe dove, però, non appena ci si accosta, scompare. E’ lì che abitano la musica, il teatro, la danza, la poesia. Noi, possiamo solo appoggiare l’orecchio e tentare di imparare l’inafferrabile linguaggio di quella vita. Credo che questo sia l’unico rapporto possibile con il reale; non ostinarsi a voler comprendere ciò che è già evidente nello splendore della Natura e non può in alcun modo essere detto e tanto meno spiegato.

Teatro delle Bambole | www.teatrodellebambole.it

Carmelo Alù

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CARMELO ALÙ

Per la trentanovesima intervista incontriamo Carmelo Alù. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Carmelo Alù è regista e attore diplomato all’Accademia Silvio D’Amico. Tra i suoi lavori ricordiamo: Filottete di Letizia Russo, Cani Morti di Jon Fosse, Un anno con tredici lune di Reiner W. Fassbinder.

D. Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A febbraio sono andato alla Galleria Borghese di Roma. Bisogna prenotare e spesso il proprio turno arriva dopo qualche settimana, costa 20€ ma chiaramente ne vale la pena. È stato curioso perché la mattina ero stato al Bioparco e avevo ancora dentro le solite riflessioni che mi palleggiano in testa ogni volta che vedo animali in gabbia: starà soffrendo, è giusto, sì ma guarda che la natura selvaggia è molto crudele, qui stanno bene, no qui non hanno scelta, però sono belli da vedere, ah si viene qui anche a S. Valentino? Insomma soliti dubbi amletici. Quando due ore dopo mi sono ritrovato dentro il museo ho pensato: certo che tutte ‘ste povere opere d’arte, stipate così, dentro ‘sti stanzoni, chiuse in cattività. Sarà giusto? Aveva ragione Giorgio Manganelli quando diceva che i musei sono lager di squisitezze? Togliere a un’opera d’arte il suo contesto non significa negarne il suo profondo senso? L’Apollo e Dafne per esempio: Bernini ha finito di scolpirlo quando non aveva ancora trent’anni (e non ha partecipato a nessun bando under30) ed era un lavoro commissionatogli dal cardinale Borghese. Qui la storia si fa interessante: il cardinale aveva bisogno di cacciare dai suoi giardini i ragazzini che scavalcando le mura presenti allora andavano lì per, più o meno, innocenti evasioni d’amore. Sulla base del gruppo scultoreo c’è scritto: «Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie le mani di fronde e coglie bacche amare.»
Insomma non bastava un cartello: NON SONO AMMESSI SPORCACCIONI.
Ma scherzi a parte il punto è proprio questo: un artista, uno dei più grandi al mondo, scolpisce un episodio della mitologia greca a favore di un messaggio moralistico. L’Apollo e Dafne era possibile ammirarlo proprio in mezzo al giardino, era lì che trovava la sua ragione di esistere. Certo, anche al centro di un museo fa la sua figura per carità. L’opera è talmente grande da superare il messaggio. Ma vale la pena lo stesso oggi ringraziare l’invidioso cardinale Borghese.

La mia risposta a qual è la peculiarità di una creazione scenica efficace quindi non può che essere il contesto, il presente vivo, vivissimo, che ne ha permesso la nascita. E il teatro è solo presente. Non esiste senza la presenza, umana prima ancora che scenica. Di cosa parla il contesto in cui viviamo? Cos’è che devo intercettare io artista prima degli altri cittadini? Ci servono ancora Edipo, Amleto, il S. Giovanni di Caravaggio, Apollo e Dafne di Bernini, la musica di Mozart, le poesie di Quasimodo? Tutti sappiamo dentro di noi che la risposta è sì. Tocca a noi artisti però ambire al loro stesso valore.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Letizia Russo, che in Italia è una vera fuoriclasse della drammaturgia, mi ha insegnato che se una scena non funziona la colpa quasi sicuramente è della scena precedente. Dico questo perché per rispondere a questa domanda c’è bisogno di fare un passo indietro: il problema principale del nostro settore non è strettamente produttivo, semmai è quello della carenza di domanda.

Senza volermi improvvisare economista mi sembra che proprio le “esigenze effettive” siano la vera causa delle nostre difficoltà. Gli italiani non vanno a teatro. La situazione non cambia da anni ormai e non sembra destinata a cambiare, e del resto come potrebbe?

Il resto dell’Europa non è più agile e più efficiente, ha semplicemente più spettatori. E la loro “campagna abbonamenti” parte dalle scuole.Le nostre aule invece continuano a puzzare di morto e non perché gli insegnanti siano vecchi ma perché “guardiamo al futuro!”.

Drogati da un’idea stucchevole di futuro già alle scuole medie i bambini devono scegliere a che indirizzo iscriversi alle superiori; i cinque anni che precedono il diploma poi sono ormai un iter formale il cui unico scopo è quello utilitaristico dell’accesso all’università. Il teatro, così come l’arte intera, con il suo piacere del “qui e ora”, la passione per il presente, i lunghi tempi di creazione, i voli che solo l’immaginazione permette, è sempre più lontano dalle dure esigenze dell’uomo contemporaneo.
Per migliorare la situazione esistente c’è solo una possibilità: chiedere alla politica di migliorare la scuola. Chiederlo tutti, chi è genitore, chi non lo è, chi si è diplomato cinquanta anni fa, chi trenta, chi dieci, chi l’anno scorso. Il problema teatrale è un problema culturale e l’amore per la cultura hai il diritto di impararlo a scuola, quando sei bambino. Non possiamo sempre sperare nella vocazione. Tutti hanno il diritto di essere artisti. A patto che se ne assumano anche i doveri.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di recitare al Teatro Greco di Siracusa. In compagnia c’era anche Ugo Pagliai che spesso, vista la cornice mitica, raccontava a noi giovani la gioia che prova ogni volta che lo chiamano a lavorare alle rappresentazioni classiche in Sicilia. Gli aneddoti pescati dal baule dei ricordi erano tutti legati al piacere di ritrovarsi in un festival estivo ogni volta sorprendente. Il suo racconto dell’arrivo in Ortigia del coro delle baccanti, quell’anno interpretato da un gruppo di danzatrici creole, era da un lato velato di nostalgia per una Sicilia anni ’60 rurale e con le strade non ancora asfaltate e dall’altro era colorato di battute politicamente scorrette ma senza dubbio vitali. La dimostrazione che ancora una volta tutto ciò che siamo lo dobbiamo ai greci. Potremmo definire le Grandi Dionisie come il primo grande festival teatrale estivo. Il teatro è nato lì, in un festival. I primi allestimenti scenici degli agoni drammatici avvenivano in primavera, quando il mare era di nuovo navigabile e Atene era piena di gente, del posto e straniera. Insomma una cartolina del passato che descrive però la nostra realtà teatrale nei mesi di maggio, giugno e luglio. Mi dilungo sull’importanza dei festival cosiddetti estivi perché sono una tradizione mediterranea, sacra e antichissima. Ed è bello pensare che anche oggi il teatro nasca lì.

Partiamo col dire che in questi festival tendenzialmente si sta bene. Anche i più cinici e i più polemici sono inclini a rilassarsi, a lavorare bene e a divertirsi. I meno socievoli sono tranquilli, per loro la sofferenza si limita a un massimo di tre giorni. Il pubblico non solo è eterogeneo ma è anche curioso. Paga meno rispetto al resto dell’anno e a volte esperisce il teatro o la danza solo in quell’occasione e quasi sempre l’anno successivo ritorna. Ai festival ci si conosce come artisti (“mi serve la sala per 4 ore e gli spettatori devono entrare uno alla volta”, “do you speak English?”), come umani (“io sono vegetariano”, “io mangio solo arancini”, “io sono agnostico”, “io buddista”), come cittadini (“io ho preso la disoccupazione ad aprile”, “io non so fare la differenziata”). I festival sono gli unici contenitori culturali dove è il territorio che lavora sul teatro e non viceversa: Castiglioncello, Dro, Bassano del Grappa, Spoleto, le Colline Torinesi, Palazzolo Acreide, Santarcangelo, Asti, Castrovillari, Radicondoli, ogni anno ne scopro uno nuovo. Tutti hanno qualcosa di unico, un’identità chiara e riconoscibile. Lo spettatore sa benissimo chi e cosa lo aspetta. Quando parliamo di canali efficienti personalmente parliamo solo dei festival. A loro bisogna puntare. La distribuzione degli spettacoli è una sana contraddizione del teatro che è e resterà sempre principalmente un luogo. Senza smettere di affrontare il problema della distribuzione che oggettivamente esiste bisogna pure accettare che nessuna riforma ci farà mai felici: sogno di portare il mio teatro in giro per il mondo e sogno di portare spettatori di tutto il mondo a vedere il mio teatro. Nel frattempo colleziono aneddoti e ricordi sui festival che mi hanno ospitato.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

“Il malato immaginario” trovo che sia un titolo perfetto per questa domanda.
Ovviamente i clisteri e i raggiri subiti dal povero Argante non ci azzeccano niente. Dovendo parlare però del rapporto tra teatro e reale/virtuale credo valga la pena riscrivere, o meglio rileggere, la grammatica del titolo di Molière: abbiamo un problema con la nostra immaginazione, oggi è l’immaginario il malato e non viceversa. Già con il mito della cecità di Stesicoro gli antichi greci avevano centrato il punto. Pare che il poeta del VI secolo dopo aver scritto un’elegia contro Elena di Troia, accusandola ovviamente di essere infedele e unica responsabile dei dieci anni di guerra, abbia perso la vista. La riacquisterà solo dopo aver riconosciuto la realtà: la donna che ha tradito Menelao scatenando la guerra per antonomasia non era Elena bensì il suo simulacro, la sua raffigurazione, l’eidolon (termine da cui deriva il nostro “idolo”).
Stesicoro perde la vista poiché è già cieco, viene punito per non aver saputo riconoscere la differenza tra la realtà e la sua immagine, proprio come noi non sappiamo più distinguere reale da virtuale.

In questo contesto il teatro ha quindi nuovamente il compito di renderci meno ciechi rispetto a prima del nostro ingresso in sala. È proprio il teatro, il suo essere “dal vivo”, che dovrebbe venirci in aiuto in questi tempi. La percezione di ciò che ci circonda attraverso la virtualità si è lentamente sostituita alla realtà, la situazione ci è palesemente sfuggita di mano. Ma l’artista, in tutti i campi, può ancora una volta fare la differenza: continuare a osservare il reale con gli occhi dell’immaginazione; il teatro osi il valore dell’arte, sia senza filtri, senza inquadrature, senza dirette e trasmissioni virtuali. Tornare a una funzione ambiziosamente profetica del nostro lavoro. L’artista come uomo capace di interpretare un indizio di qualcosa che avverrà.
Lo so, il compito è difficile ma il rischio è quello di perdere un altro mondo già inquinato e malato da tempo, quello dell’immaginazione.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La verità non interessa più a nessuno. Se Pilato fosse vissuto ai nostri giorni non si sarebbe preoccupato di chiedere a Cristo «Cosa è la verità?». E certo fa specie che il nostro paese, così ampiamente cristiano e cattolico, abbia smesso di porsi questa domanda. Dopotutto non è lo stesso Gesù a dire di essere via, verità e vita? Ad ogni modo, chiunque neghi la verità accetta l’abolizione di qualsiasi forma di pensiero critico. Se poi sei anche credente accetti la negazione del Figlio di Dio, quindi la pena oltre a essere terrena è pure eterna. Uomo avvisato mezzo salvato.
Superare la verità, vivere appunto nella post-verità significa deificare lo stato delle cose, una pericolosa azione da cui già Gramsci nei suoi Quaderni del carcere ci ha messo in guardia: tutto ciò che esiste nella nostra società è naturale che esista. Ebbene, questo concetto che sta alla base della post-verità è semplicemente falso. Trovare un’alternativa alla realtà che ci circonda è possibile e chi dice il contrario è solo un codardo.

Il teatro, nel suo essere arte, è ancora il luogo del coraggio, perché nell’epoca della post-verità l’attore ci restituisce il diritto allo scandalo, il diritto alla verità. È scandaloso oggi vedere il lavoro di certi nostri attori e certe nostre attrici: la cura che hanno per il loro vissuto mai ostentato eppure pudicamente esposto a ogni replica; il loro scandaloso parlare di trama e personaggi, l’attenzione che mettono alla drammaturgia, testuale o gestuale non fa differenza; la paura beata di chi in quel buio prima dell’inizio si riconosce fragile e antieroico. E tutto questo accade nonostante il pensiero mainstream della post-verità li vorrebbe invece preda di mode, seppure prestigiose, come quella dell’attore/performer. È un’idea scorretta perché cerca di superare il concetto di attore, un post-attore quindi, a discapito sia del teatro sia dell’arte performativa. Inoltre questa pericolosa moda contribuisce sempre di più ad allargare il divario, tutto italiano, tra gli attori che lavorano in teatro e quelli che lavorano in cinema e tv. Questo negli anni ha permesso un impoverimento di tutti i settori, soprattutto del cinema, dove i film d’autore di qualità sono un’eccezione. E a proposito di qualità, risulta ancora dispersa la tv italiana. L’orizzonte d’attesa nei confronti dell’arte si è così rimpicciolito permettendo l’esplosione su scala nazionale del pensiero semplicistico rispetto al pensiero critico, del populismo e del pressappochismo.
Questo è il reale con cui ogni artista dovrebbe rapportarsi.

«L’arte deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più ornamento e imitazione ma è di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire.

La verità a qualunque costo.» Michel Foucault, 1984.