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Quando abbiamo smesso di capire il mondo

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE IL MONDO – V PARTE

:«L’autenticità si rivela ostile alla società. Per via della sua natura narcisistica, essa opera contro la costruzione stessa della comunità. Decisiva per il suo contenuto non è la relazione con la collettività o un altro ordine superiore, bensì il suo valore di mercato, che bypassa tutti gli altri valori»

Byung-Chul Han La scomparsa dei riti

:«Lo spirito commerciale è dotato solo di intelletto calcolante, gli manca la ragione e, perciò, privo di ragione è lo stesso sistema, dominato esclusivamente dallo spirito commerciale e dalla potenza del denaro»

Byung-Chul Han L’espulsione dell’Altro

:«Nel principato come nelle repubbliche la libertà si perdette sempre, perché vi fu una minorità audace ed una maggiorità inerte»

Massimo D’Azeglio Scritti politici

Il teatro delle origini greche oltre a essere “luogo da cui si guarda”, era insieme rito e agone, festa e gioco. Si esercitava quindi lontano dalla ferialità del quotidiano. Erano presenti gli dei, le forze dirompenti che agivano sull’uomo, ma era anche una festa, un momento in cui il lavoro era sospeso e non si faceva nulla di utilitaristico. Anche nella rinascita medievale il teatro si era sviluppato nella dimensione del sacro e della festa, dal sagrato della chiesa ai carri della fiera. Vi partecipava non un pubblico ma una comunità, fosse quella della chiesa, del castello, del villaggio. E così nel Rinascimento, dove il teatro era festa, trionfo, rito, nelle piazze come nelle corti. E su fino al XVIII sec. dove cominciò, con la Rivoluzione a trasformarsi in festa e rito civile e non più religioso, ma sempre luogo di ritrovo di una comunità. Nei diari di Casanova si legge dell’intensa vita che fiorisce intorno al teatro: si gioca, si fa società, si cena, si fa politica e si intessono relazioni sentimentali. Lo spettacolo era il perno su cui ruotavano innumerevoli altre attività. Ancora nel Novecento il teatro aveva una centralità civile e rituale, dall’avanguardia alla tradizione e persino nei regimi totalitari, perfino nei campi di sterminio. Pensiamo a Marinetti dove la scena diventava agone di sfida al pubblico, o a Brecht e al suo teatro epico. Ma pensiamo anche a Il Maestro e Margherita di Bulgakov, dove Woland sceglie proprio il teatro per manifestare la sua potenza per poi partecipare alla festa nella Notte di Valpurga. A teatro si è inneggiato al potere cosi come sì resistito e combattuto il potere. In questo il pubblico è sempre stato un organismo comunitario, e il teatro il luogo dove palcoscenico e sala riunivano il mondo e il suo specchio, in un dialogo che proponeva e immaginava possibilità. In questi lunghi mesi di chiusura quello che è apparso purtroppo evidente è che il Teatro è mancato più a chi lo faceva che a chi lo vedeva. Perché questo? E forse perché l’agire dell’artista si è allontanato dalla società? O perché il teatro è diventata arte obsoleta non più capace di tenere il passo coi tempi e con il mondo digitale? Forse è giunto per quest’arte millenaria il tempo di diventare ancor più effimera e lasciar per sempre il mondo analogico?

Oggi l’andare a teatro non ha niente di festivo e certo non è più un rito. Tutto scorre. È la perenne danza di Siva che crea e distrugge i mondi. Niente dura in eterno, ma dobbiamo pur rilevare che qualcosa è radicalmente cambiato, qualcosa che fino a oggi non era mai accaduto: viviamo un tempo e una civiltà basata su un sistema economico che vuole atomizzare la società più che riunirla. Ciò che conta è monetizzare qualsiasi azione, tutto deve diventare lavoro, in un flusso senza pausa alcuna, nell’indifferente presente del h24 sette giorni su sette.

René Magritte, Latraversata difficile, 1963

Lo spettatore (dal latino spectare, guardare, quindi egli è colui che guarda) in questo contesto e nella maggioranza dei casi è chiamato a teatro semplicemente per incrementare i parametri necessari all’algoritmo per determinare e confermare la crescita dell’attività proposta dall’ente richiedente i sostegni. L’algoritmo ministeriale misura solo per il 30% la qualità, per il restante è meramente quantitativo. Le presenze in sala, i biglietti venduti sono diventati quindi l’ossessione di ogni operatore che aspira ai fondi del FUS o delle fondazioni bancarie. Dietro l’ipocrisia dell’Audience engagement, ossia il coinvolgimento dei nuovi pubblici – e per farlo ovviamente si utilizza un termine di derivazione militare -, vi è soltanto un pensiero computazionale volto alla verifica della crescita. Nemmeno i festival oggi sono più una festa, ma per lo più vetrine commerciali dove si fanno sfilare i nuovi modelli davanti a operatori e critici e ovviamente al pubblico, ma più per incassi e borderò che per attuare insieme una vera festa o sviluppare un rapporto vero e duraturo.

L’unica dimensione in cui incontriamo davvero una reale comunità è nel piccolo, nelle periferie, nel provinciale, laddove la community degli habitué difficilmente si dirige e si incontra e stabilisce un rapporto con la cittadinanza. In questi luoghi i teatri sono generalmente luoghi frequentabili al di là dello spettacolo. Sono spazi dove i ragazzi, le categorie deboli, gli anziani vanno a fare delle altre cose insieme agli artisti, sono luoghi in cui si fa teatro ma esso è anche motore per altre attività e legami sociali, dove ci si riunisce e ci si incontra. L’abbiamo visto anche durante la pandemia laddove, in alcuni casi, i luoghi teatrali provinciali e di periferia sono diventati anche luogo di sostegno materiale oltre che spirituale, case dove scambiare storie (per esempio al Teatro Caverna di Bergamo dove sono state distribuite poesie e scorte alimentari, ma anche i vari casi, sparsi da Nord a Sud, di Teatro in delivery, dove la preoccupazione era tenere il filo con la società civile nonostante la pandemia). Ed è in queste realtà che le chiusure dovute al Covid faranno più danni, dallo sfilacciarsi dei rapporti umani ai danni economici che non verranno riparati da nessun fondo specifico. Non saranno i grandi teatri a chiudere, ma le piccole realtà e con loro il lavoro di tessitura sociale in ambienti difficili. Domandiamoci cosa è teatro e a cosa serve prima sia troppo tardi.

René Magritte La reproduction Interdit

I grandi luoghi deputati al teatro, quelli che si stagliano solenni nei centri cittadini, sono, anche in tempi normali, per lo più chiusi al pubblico se non per la rappresentazione. I loro bar sono aperti giusto poco prima dell’inizio della rappresentazione e durante il quarto d’ora di intervallo. Non ci si può soffermare a fine spettacolo, non si può arrivare troppo presto. Si deve guardare e andare via. Non c’è proprio modo di fare comunità. Intorno allo spettacolo non c’è più molta vita. Milo Rau nel suo manifesto di Gent ha provato a riportare l’intero processo produttivo al centro di un vortice che coinvolge l’intera città. La cittadinanza può partecipare alle prove, perfino aspirare a far parte dello spettacolo, frequentando l’ambiente teatro in momenti diversi dalla performance. Gli spettacoli di Rau sono anch’essi volti a ripristinare una ritualità civile dove lo spettatore si trasforma nuovamente in una piccola agorà (pensiamo ai “processi” ma anche al La passione di Matera). In Italia Virgilio Sieni, sia durante la sua direzione alla Biennale di Venezia, sia nei progetti come Altissima Povertà, ha cercato di far risorgere intorno al processo creativo e alla danza un nucleo volto a coinvolgere l’intera comunità, I questi casi citati a cui si potrebbero affiancarne molti altri (Cuocolo e Bosetti, Drama Teatro e Teatro dei Borgia per esempio) si sente ancora la volontà non di fare engagement ma di incontrare e costruire con l’occhio del pubblico un mondo a partire dal mondo. Ma siamo nella minorità.

La maggioranza del mondo dello spettacolo italiano vive dipendendo dal computo dei biglietti e dei borderò. Nel numero non c’è nessuna comunità. L’annuario SIAE del 2019 riporta che nel settore teatrale si sono svolti 132201 spettacoli per 23.328.382 ingressi con 1.180.638 presenze e un volume d’affari di 499.935.318,98 €. Ecco i numeri. Ovviamente non dicono nulla. Li possiamo leggere in svariate modalità, confrontarli con gli anni precedenti (con i successivi registreremmo solo l’enormità di un’assenza), vedere gli incrementi e i decrementi, ma i numeri non ci dicono nulla su quello che chiamiamo pubblico e nemmeno sul perché dovrebbe frequentare i teatri. Se il teatro infatti non è più rito e nemmeno festa e gioco, cos’è diventato? Ha una valenza nella vita delle persone? Gioca un ruolo oltre all’intrattenimento? Veramente come dice Binasco, e non Conte, il compito è non più politico ma limitato a far ridere e piangere? Sono domande che dobbiamo porci prima che riaprano i teatri perché non aver chiaro questo punto significherebbe una catastrofe ben maggiore delle chiusure attuali.

La cultura oggi è presa dalla bulimia e dall’obesità comune a tutti i settori della civiltà neocapitalista. Al supermercato si espone sugli scaffali ben più di quel che si consuma, si laureano più persone di quelle che effettivamente troveranno lavoro e così a teatro di produce più di quello che si può vedere. Le nostre pupille sono invase dal mattino alla sera di immagini, video, post e siti. Siamo in overdose visiva e stanno sorgendo vere e proprie malattie relative alla visione come il binge watching, la dipendenza da serie. Nel visualizzare (non vedere) noi produciamo lavoro e denaro. Paghiamo servizi per le piattaforme, facciamo guadagnare Youtube e chi posta i video alzando il numero di visualizzazioni e così su Facebook con i nostri like. La visione di oggi è un’attività ben lontana dalla sospensione della festa e da qualsiasi otium generante riflessione, siamo nel feriale, nel lavorativo, nel quotidiano agire/patire. Ora anche a teatro questo sta avvenendo appunto con i parametri di crescita: più produzione, più pubblico, più incassi, più fondi. Nessuno si fa una domanda sul perché? Nella società dei metadati e degli algoritmi si contano le teste, si vedono i flussi, ma le intelligenze artificiali non ci dicono mai il perché, ci dicono solo il come e il quando. Come dice Byung-Chul Han: «i numeri contano ma non raccontano». È dunque solo una questione commerciale e di quantità o intorno al teatro vogliamo costruire altri valori? L’occhio di chi guarda deve veramente essere ingozzato come l’oca da fois gras o possiamo immaginare una visione diversa in cui sia possibile anche chiudere gli occhi?

RenÈ Magritte, DÈcalcomanie, 1966, © PhotothËque R. Magritte / Banque d’Images, Adagp, Paris, 2016

Cosa avverrà alla riapertura? É difficile rispondere a questa domanda. Non è mai facile indagare le nebbie del futuro, e ancora di più lo è in questa situazione del tutto nuova per il XXI secolo, ma è senz’altro probabile che alcuni degli effetti di questa pandemia estremizzeranno le pratiche descritte. Aumenterà il divario tra Teatri Nazionali e Tric da un lato e le piccole realtà dall’altro. Almeno quelle che riusciranno a sopravvivere. L’iperproduzione di certo non si arresterà visto che non si è placata nemmeno durante le chiusure (alcuni teatri hanno “in congelatore” più di una produzione), quindi è facile prevedere fin dall’estate un eccesso di eventi e prime. Per i giovani resterà un contesto di concorrenza feroce ed estrema dove le occasioni al ribasso saranno per molti l’unico orizzonte. La digitalizzazione porterà nuove sperimentazioni ma allontanerà ancor di più il pubblico dai palcoscenici, non in termini numerici, ma in termini di qualità del rapporto. Infine Il distanziamento necessario ad arginare la pandemia unita alle strategie di atomizzazione della società messe in atto da capitalismo, rendono il panorama sociale ancor più difficile per chi vede il teatro come luogo di incontro di un corpo comunitario. Come reagirà il pubblico è senz’altro una delle maggiori incognite. Come cantava la canzone, scopriremo queste cose solo vivendole. Vero è che tutti questi mali sono opportunità per ripensare il sistema, per immaginare e provare a implementare strategie diverse, ardite, persino utopistiche. Molti tavoli di discussione si sono aperti in questo disgraziato paese, ma si sta replicando la parcellizzazione dei punti di vista, e il comparto non è stato in grado di agire di concerto. Si è persa forse l’occasione di fermarsi e di riflettere con attenzione su dove la sfrenata corsa al produrre ci stava portando. La speranza è riposta nei giovani, nella loro capacità di ribellione, nelle loro energie capaci di smuovere la massa adiposa e inerte che grava sull’edificio antico del teatro. Solo loro potranno essere capaci di riallacciare i rapporti col mondo e perfino, speriamo, di inventarne uno diverso.

Ringraziamenti

Per questi articoli numerosi e doverosi sono i ringraziamenti. Solo grazie al confronto e al dialogo, informale e amichevole, è stato possibile cercare di analizzare, seppur a volo d’uccello, l’intera filiera teatrale.

Un grazie sentito ai colleghi Walter Porcedda, Elena Scolari, Alessandro Toppi e Michele Di Donato per le lunghe chiacchierate e il fruttuoso scambio di punti di vista. Riconoscenza e gratitudine vanno agli operatori che mi hanno indicato le anomalie sistemiche: Danila Blasi, Magda Siti, Lorenzo Vercelli, Mimmo Conte, Carlotta Vitale, Simonetta Pusceddu, Girolamo Lucania, Damiano Grasselli, Matteo Negrin, Valentina Tibaldi. E ultimi ma non ultimi gli artisti senza i quali non ci sarebbe teatro: Marco Chenevier, Marco Lorenzi e il Mulino di Amleto, Massimo Sgorbani, Gli Instabili Vaganti, La Piccola Compagnia della Magnolia, Liv Ferracchiati, Silvia Battaglio, Erika Di Crescenzo, Nicola Di Chio, Alba Porto, Thea Dellavalle e Irene Petris. Spero di non aver dimenticato nessuno.

Francesca Cola

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A FRANCESCA COLA

Per la quarantanovesima intervista restiamo a Torino per dialogare con Francesca Cola. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Francesca Cola è coreografa e danzatrice e vanta numerose collaborazioni eccellenti tra cui ultima quella con Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori ricordiamo In luce, vincitore del premio Dante Cappelletti, Non me lo spiegavo il mondo, I’ll be your mirror, Stato di grazia.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Da quando ho iniziato a frequentare il linguaggio della scena alla base del quale c’è, per quanto mi riguarda, un modo di essere incarnata, una natura, ho attraversato varie fasi di creazione il più delle volte spinta dalla necessità di trovare un modo di tradurre a me stessa il mondo e le sue contraddizioni, le sue leggi e lingue babeliche a me spesso incomprensibili. Cercare l’incanto, la grazia, il segreto in frammenti privilegiati di tempo, nonostante tutto. Perciò le specificità della creazione dipendono molto dal presente, da ciò che avverto attorno, in cui sono immersa. Mi sono modificata e raffinata nel tempo ma direi che ciò che è rimasto immutato è il nesso tra il “dentro” e il “fuori”, tra la percezione che ho del mondo e il mondo stesso, il suo rivelarsi in splendore e terrore, la ricerca di energie sottili. Il lavorare attraverso l’intreccio di linguaggi (corpo, immagine, suono), ha ancora per me l’intima funzione di mettere ordine e tentare di dare un significato a una realtà che, rivelandosi, mi lascia con domande perplesse. A volte riesco ad abbandonare questa pretesa e resto in contemplazione del caos contraddittorio che è cifra della dimensione terrestre per poi sentire come si deposita in me.

Quindi, per essere efficace in questo momento, per me il processo creativo non può ignorare la relazione che intercorre tra il paesaggio interiore delle creature e quello esteriore (che sia urbano o naturale), in cui sono immerse. Comprendere le connessioni tra queste realtà richiede un tempo di ascolto di ciò che accade attorno e dentro, richiede il fare un passo indietro rispetto al desiderio di essere protagonisti ombelicali. La creazione efficace quindi attiva processi interni in profondo dialogo con quelli esterni, genera nuovi spazi di senso, lascia una traccia gentile e feroce. Rende evidente la genialità della vita che supera in notevole misura quella scenica.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Che cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che le questioni siano molte ma tutte riconducibili a un’unica radice: dinamiche di potere che affondano in un terreno concimato da distopiche leggi economiche. I bandi rispecchiano ancora troppo spesso un’obsoleta differenziazione tra danza, teatro, arte visiva. Sono contenutisticamente limitati sia nella proposta tematica che nell’offerta di condizioni economiche. Imbrigliare entro questi limiti il processo creativo non significa organizzare le condizioni per sostenerlo; significa, al contrario, piegare la creazione alle logiche di sostegno, a parametri rendicontabili e statistici. Mi sono spesso chiesta se Pina Bausch,Peter Brook o Bob Wilson avessero dovuto produrre le loro opere entro i parametri di una call come quelle che proliferano in questo periodo…cosa avrebbero fatto? Sarebbero ugualmente riusciti a produrre le opere che conosciamo?

I festival e le rassegne sono impermeabili. Le scelte degli operatori non garantiscono una reale circuitazione di creazioni e artisti. Le reti ci sono ma sono precluse a molte proposte e il rischio è l’avere rassegne che presentano programmi pressoché identici. Diciamo che, per non andar fuor di metafora, il pescato di quelle reti è spesso lo stesso e questo non è certo garanzia di qualità.

Il dialogo tra operatori e artisti non è semplice e di frequente non è un confronto alla pari. Soprattutto nel caso in cui l’operatore è stipendiato regolarmente da un’istituzione e ha il potere di decidere la presenza o meno di un’artista in un determinato progetto ecco, la relazione è impari e si gioca su una ben poco raffinata e implicita dinamica ricattatoria.

Personalmente ho trovato le mie soluzioni. Limito all’eccezione la partecipazione ai bandi (sono anche over 35 pertanto la selezione mi è decisamente facilitata vista la proliferazione di bandi con questo limite d’età). Collaboro esclusivamente con realtà che possano garantire un dialogo virtuoso dove le differenze di ruolo siano chiare e definite con consapevolezza senza frustrazione alcuna. Questo mi ha permesso di essere sostenuta con stima, accoglienza delle proposte progettuali e dignità economica. Nella realizzazione di Stato di Grazia prodotto da Oltre le Quinte, per esempio, si è realizzato un circolo virtuoso tra attori in gioco e il vantaggio è stato collettivo: l’operatore culturale ha portato “a casa” gli obiettivi dei progetti oggetto di bandi con cui ha finanziato le azioni, l’artista ha realizzato l’opera in condizioni produttive ottimali, i fruitori attivi e passivi dell’opera hanno giovato di un nuovo modo di guardare al prodotto artistico e infine l’ente finanziatore (che in verità in questa filiera creativa è il primo), ha visto una ricaduta positiva del proprio investimento.

Gli enti finanziatori in questo caso erano Banche e Fondazioni italiane; parte dei fondi che verranno impiegati nella declinazione futura di questo progetto che non si conclude in un unico spot, derivano da un bando Interreg Italia Svizzera. Sono certa tuttavia che siano percorribili altre strade per esempio il coinvolgimento delle realtà aziendali. Varrebbe la pena in un momento come questo, ristudiare e trovare il modo di riattualizzare il virtuosissimo modello Olivettiano di relazione tra azienda-cultura e territorio, o studiare ciò che ha funzionato in tempi più recenti con Fabrica, epicentro culturale di Benetton.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il tema è da studiare. Il modo è da rifondare.

Credo che non si possa cercare una soluzione se non andando alla radice del problema che è ciò di cui ho parlato sopra: i circoli virtuosi si attuano là dove persone di diversa formazione e peculiarità lavorano in modo interconnesso mirando ad un obiettivo comune. Forse è da ricollocare, riconsiderare l’obiettivo comune?

Prima della distribuzione credo sia da prendere in considerazione il problema della percezione che la collettività ha della funzione dell’artista nella società contemporanea e quindi del prodotto artistico. Riconsiderato questo, allora si può analizzare il tema della distribuzione dal punto di vista del binomio domanda/offerta.

Di certo il sistema in Italia è evidentemente oligarchico e il circuito è sempre più riservato sia per chi partecipa come creativo che per il pubblico coinvolto. Uscire dall’autoreferenzialità del sistema prevede una rimessa in gioco e una riconsiderazione degli obiettivi.

Riconsiderati questi, allora si apriranno i giusti spazi di collocamento delle creazioni.

Sento comunque necessario un coordinamento più chiaro e definito tra artisti e un dialogo più onesto tra questi ultimi, i programmatori e soprattutto i fruitori delle opere. Allora ecco che non è più possibile nascondersi dietro a mal riuscite pratiche di “audience engagement”.

Insomma, per dirla in modo un po’ pop: Up patriots to arms! Engagez-Vous!

Il cambiamento va oltre le barricate o ai falsi miti rivoluzionari creati per gli ‘oppressi’ dagli stessi ‘oppressori’, il cambiamento deve essere cifra nuova, di radicale e feroce gentilezza che non può non nascere da un confronto, uno studio discusso. La soluzione sta nell’essere davvero partecipi del mondo: “noi siamo delle lucciole, che stanno nelle tenebre”.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Credo sia necessario spostare il pensiero da una visione dicotomica perché gli intrecci sono complessi, così come complessa e sfumata è la realtà. Il virtuale esiste ed ha indubbiamente migliorato alcuni aspetti della nostra vita e delle possibilità sceniche. Tuttavia funziona se ben intrecciato al reale. Di certo il virtuale non può sostituire il reale pena conseguenze alla Black Mirror.

Se per virtuale si intende la relazione che in questo decennio abbiamo consumato attraverso i social allora guardo a questo virtuale (di cui sono fruitrice consapevole), l’attualizzazione contemporanea del mito della Caverna Platonica. Dalla Caverna virtuale ha origine la Doxa, l’opinione e con questa tutto il sistema pre-giudicante e illusorio a corollario in cui siamo immersi con la nostra sensibilità.

Il Lockdown ha evidenziato ulteriormente la metafora: l’uomo obbligato a restare chiuso in casa come in una caverna, costretto a fissare sul fondo le ombre proiettate dalla luce che arriva da fuori: l’unica realtà, l’unica esperienza sensibile. Tutti immersi nelle ombre che scorrono davanti ad un PC, a uno smartphone, a un display. La conoscenza e l’esperienza sono orientate verso links, incredibili possibilità terribilmente limitate. E’ il tempo del  post – verità. È nella caverna che vive la finzione di quella rappresentazione. L’energia e l’impulso vitale diventano immobilità mortificata. Nella caverna digitalesi cristallizzano gli stati d’animo, i sentimenti, le sensazioni ridotte a faccine allegre, tristi e senza parole; si perdono le sfumature individuali che cedono il posto a una simbologia universale digitalizzata. Aumenta la conoscenza intellettuale, si limita l’esperienza sensibile. Da un po’ di tempo a questa parte mi ritornano in mente le parole di Svevo nell’ultima pagina della Coscienza di Zeno:
“La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco! (…) l’occhialuto uomo, (…), inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. (…) l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice.”

L’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto

Ecco è qui, in questa relazione che per quanto mi riguarda sento radicato e radicale il senso delle live arts. Proprio perché sono vive. Perché fatte di esperienza, di corpi, odori, voci, saliva, lacrime, risate, ferite. Sia nella forma di creazione scenica che nella forma di attività educativa e laboratoriale. Mio figlio ha 4 anni. Durante il lockdown che abbiamo fortunatamente potuto passare immersi in natura, ha sempre rifiutato di collegarsi virtualmente con i compagni, le maestre, i maestri di pratiche nate in presenza e riconvertite online, i nonni, gli amici. Lui ha detto con chiarezza: “Non voglio incontrali così perché mi sembrano tutti morti”.

Non ho molto da aggiungere a questa schietta e fresca necessità di corpi e anime presenti. Ci sento dentro tanto futuro.

La funzione delle live arts è quella di celebrare la vita in tutta la sua complessa e articolata presenza. E la vita è contagio. L’arte in presenza è contagio liquido e la vita prolifera nell’umido.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Per rispondere parto da ciò che dici tu: sono evidenti ormai diversi piani di realtà. La comunicazione tra individui si genera ed evolve entro i limiti di questi piani generando universi semiotici molto articolati e poco se non per nulla osmotici. Gli artisti di tutti i settori hanno iniziato a creare all’interno della propria semiosfera inaugurando un’epoca di completa autoreferenzialità, generando un’ élite, tanto nella produzione di contenuti quanto nel pubblico. Tanto per capirci: mia nonna non avrebbe mai potuto comprendere l’ironia della banana attaccata al muro con lo scotch di Cattelan o, per rimanere in ambito teatrale, emozionarsi di fronte ad un episodio della Tragedia Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio, avrebbe potuto invece avvicinarsi con meno difficoltà un’opera di Bansky a un Caffè Muller della Bausch. Mia madre, “studiata” e figlia del ‘68, ha faticato di fronte all’episodio Acqua Marina (Ada, cronaca famigliare) di Fanny e Alexander, (le chiedo scusa ancora oggi per averla trascinata in teatro in quella torrida sera del 2007), si è invece profondamente commossa di fronte alla danza di un madre con figlia durante Altissima Povertà di Sieni così come si commuove nelle sere di giugno quando dai campi arrivano le lucciole. Si è indubbiamente definita una frattura tra individui che parlano linguaggi incomprensibili l’uno all’altro, tra gli artisti e il pubblico, con uno scollamento tra mondo dell’arte e realtà sociale che oggi, sotto molti aspetti, rende l’arte estranea all’uomo al quale non è più in grado di dare risposte, o almeno non nella lingua che egli è disposto a capire.

Eppure anche in questa direzione esistono esempi virtuosi: penso all’ultimo lavoro che ho visto di Elisabetta Consonni al Festival Cantieri Culturali Firenze, penso ad Aurora di Sciarroni, i grandi quadri in movimento di Virgilio Sieni creati proprio collaborando con i cittadini non professionisti o l’artista visivo JR che trasforma il carcere di massima sicurezza di Theachapi in un’opera d’arte corale realizzata in collaborazione con i detenuti. Penso a tutte le opere in grado di porre una domanda semplice e profonda ma reale, accessibile a tutti. Penso a quelle opere che provano a rispondere con un linguaggio naturale e avvicinabile alle domande che la nostra realtà di creature incarnate ci pone quotidianamente.

Credo che il grande passaggio a cui stiamo assistendo e di cui possiamo essere protagonisti sia questo: i “padri e le madri” hanno avuto il compito di generare il linguaggio, di strutturarlo nei dettagli, di creare l’alfabeto e la grammatica e di divertirsi nell’elaborazione di alcuni temi sula grammatica stessa. Un’operazione che ha richiesto un processo di astrazione potente pena il fuggire da una realtà per rifugiarsi in un universo semiotico che diventa nicchia ecologica.

Il compito delle nuove generazioni è, data la struttura eccellente, generare un legame, un ponte semiotico con le realtà circostanti. Fare poesia.

Il mezzo privilegiato per quanto mi riguarda è la relazione tra individui e fra individui e contesto e in questo senso abbiamo strumenti incredibili a disposizione soprattutto a livello tecnologico. La questione è, recuperando un imperativo categorico Kantiano, vedere l’altro come fine non come mezzo.

Tommaso Serratore

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A TOMMASO SERRATORE

Per la quarantunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Tommaso Serratore, friulano di nascita e torinese d’adozione. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Tommaso Serratore è danzatore e coreografo associato a VersiliaDanza e più volte collaboratore di Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori recenti ricordiamo: L’esatto Colore del Dubbio, La Leggerezza del Divenire, Passenger_ il coraggio di stare, Mr. Furry.

Tommaso Serratore
Tommaso Serratore Mr. Furry ph: @Andrea Valenti

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

I processi creativi degli autori sono molteplici e soprattutto personali; ognuno trova la sua modalità di approccio ad un tema che può essere più o meno di richiamo sullo spettatore. La particolarità della creazione scenica sta proprio nella capacità dell’autore di esternare il suo immaginario in maniera unica e riconoscibile, portando lo sguardo dello spettatore dentro a una personale visione.

Da spettatore, le rappresentazioni più avvincenti sono quelle che mi coinvolgono non solo per l’interpretazione dei protagonisti, ma anche per la cura di tutta la regia. Luce, suono, azione e ogni aspetto drammaturgico ed estetico devono fondersi all’unisono per rendere spettacolare una creazione.

Qualche anno fa mio padre, all’epoca era un ragioniere cinquantacinquenne, è venuto a vedere un mio spettacolo nel carcere di Teramo. La location e gli interpreti (semiprofessionisti e detenuti) erano sicuramente eccezionali e l’insieme dei mestieri (suono, luce, videomapping) ha trasformato quattro mura di uno spazio grigio e senza immaginario, in qualcosa di magico e possibile.

Mio padre alla fine della performance era commosso in silenzio, senza sapere effettivamente perché. In quella occasione ho percepito l’efficacia di una mia creazione, site specific, facendomi comprendere la responsabilità come autore di dover portare in Teatro quel tipo di suggestioni.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so se è corretto definire “evoluto” questo sistema, sicuramente sono aumentate le possibilità, si sono moltiplicati i bandi per accedere a benefici, ma spesso questi si riducono a una rendicontazione economica senza una reale cura, attenzione o investimento sull’artista.

Personalmente posso dire che tutte le esperienze più significative e più durature del mio percorso artistico fanno riferimento a contatti diretti, conoscenze sul campo, scambi tra individui.

La drammatica situazione conseguente al COVID19 sta sicuramente mettendo allo scoperto la realtà del sistema: finalmente gli artisti stanno cercando di fare corpo unico all’emergere delle criticità concrete di un mestiere che presenta una serie di specificità. Superata questa emergenza, i lavoratori dello spettacolo dovranno rimanere uniti per riorganizzare l’intero impianto, dalle scuole di danza al sistema produttivo e distributivo ministeriale, non per sopravvivere, ma per essere riconosciuti come lavoratori e dare dignità a coloro che alla danza hanno dato il valore di una professione. Parlando con alcuni colleghi anche stranieri si è pensato alla necessità di istituire un provvedimento unico europeo in grado di equiparare i titoli di studi, tutelare gli artisti in egual misura, oltre che favorire la mobilità.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Effettivamente gli artisti sono per lo più autodidatti, si fanno da sé, diventando autori, interpreti, videomaker, manager delle proprie creazioni. Ci sono quelli che riescono a mantenere una propria identità intellettuale e quelli che procedono secondo le richieste del sistema distributivo contemporaneo. Sono strategie diverse, scelte che ogni artista è portato a fare. Attualmente i budget di produzione sono minimi e i festival premiano i lavori agili, assoli senza scenografie e con impianti tecnici ridotti al minimo. Tutto ciò uniforma il livello artistico.

In questo momento l’artista si ritrova a doversi occupare più di questioni amministrative e gestionali e meno di ricerca artistica, al punto che gli spettacoli spesso rispondono a una disponibilità economica e non a una necessità comunicativa. Spesso non c’è alle spalle un percorso creativo che va a costruire un messaggio esplicito da condividere con il pubblico. Inoltre questa tendenza sta provocando la scomparsa di figure professionali come quelle di costumisti, scenografi, macchinisti e tanti altri. L’artista continua ad essere il manager di se stesso in quanto, ad oggi, non è sostenibile economicamente avere accanto un manager che provvederebbe al meglio nelle forme contrattuali, mantenendo così separati i ruoli. Ad ogni modo sembra non esserci spazio per gli artisti che cercano un dialogo con gli operatori del settore. Questi, nonostante gli inviti, non si muovono molto volentieri per andare a vedere gli spettacoli degli artisti, se non in contesti a loro dedicati. Mi piacerebbe vedere più operatori e direttori con occhi curiosi nei teatri, penso dovrebbe parte del loro mestiere. Per questo non penso che il sistema si sia evoluto. Si risolve tutto con un bando, un video, con link, quando lo spettacolo dev’essere guardato dal vivo.

L’idea che potrebbe alleggerire gli artisti nel lavoro di comunicazione e promozione dei propri lavori potrebbe essere quella di istituire un albo annuale degli spettacoli prodotti in Italia cosi che anche gli operatori, direttori e critici, possano avere una panoramica completa delle produzioni promosse in tutto il Paese; un documento da redigere ogni anno che include tutte le schede complete degli spettacoli prodotti dalle compagnie italiane nell’arco di 12 mesi. Ciò garantirebbe una visibilità a tutti gli artisti e la possibilità, per i direttori artistici, di manifestare interesse agli spettacoli secondo la mission specifica del festival o della stagione, in particolare in un periodo come questo in cui sarebbe auspicabile sostenere il “made in Italy”.

Tommaso Serratore Passenger ph: Salvatore Insana

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il Teatro oggi ha perso la sua funzione sociale; è venuto meno, da parte del pubblico, tutto il rituale che si accompagna alla visione: spesso si arriva in ritardo e si scappa al termine, manca quel momento di condivisione tra pubblico e artista che spesso è la parte più gratificante per una persona che crede nel suo lavoro. Siamo nell’era dell’istantaneo, ma il teatro è un’altra cosa. Bisogna concedersi il lusso di prendersi del tempo.

Sicuramente i social network e le varie piattaforme hanno accelerato il processo di uniformità delle poetiche riducendo l’apporto creativo e artistico, collocando l’attenzione su ciò che è più riconoscibile. Il digitale è una bella vetrina, è allettante, può rendere tutto brillante, ma se le aspettative diventano alte, poi la realtà deve corrispondere alle attese.

Per me questo mestiere è artigianale, vivo, materiale. Amo vivere il teatro, allestirlo, costruirlo, inventarlo, disegnarlo con le luci, ambientarlo con i suoni. Il Teatro è una stratificazione di mestieri, è quindi il risultato di tante competenze messe assieme. Lo spettacolo dal vivo coinvolge i nostri sensi, si percepisce la profondità, si sentono i respiri, si godono i vuoti, ci avvolge in una atmosfera unica che di volta in volta crea una nuova empatia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il processo creativo di un artista trova la sua forza nella realtà in cui vive, che attraversa, che incontra. Non a caso, le diverse correnti stilistiche della danza si riconoscono per ambito geografico, a seconda della realtà in cui si risiede. Un atto creativo è porre l’attenzione su un aspetto della realtà che altrimenti rimarrebbe invisibile; la bellezza di un lavoro sta proprio nel riuscire a trasporre una situazione, un concetto, un pensiero reale inducendo chi osserva a entrare nell’immaginario dell’artista. E’ solo attraverso l’incontro con lo spettatore che la performance rivive la realtà. L’efficacia dell’atto creativo sta nella lettura visiva, nel saper cogliere ciò che c’è di autentico in quello che si vede. In questo campo i bambini sono straordinari, stimolano lo sguardo, i sensi e la fantasia, rendendo possibile ogni visione. Risvegliare quel tipo di sguardo permetterebbe all’adulto di non ricercare sottotesti in quello che vede ma di scendere al concreto prendendo per buono quello che c’è.

Ballo 1945 Grande adagio popolare

BALLO 1945 GRANDE ADAGIO POPOLARE: Il primo maggio di Virgilio Sieni

Ieri nella grande fabbrica di Fiat Mirafiori non più destinata alla produzione, ha preso vita il progetto Ballo 1945 Grande adagio popolare di Virgilio Sieni con più di cento performers di tutte le estrazioni. Il progetto segue quello di Altissima Povertà e rinnova l’alleanza tra il grande coreografo fiorentino e l’Associazione Didee.

Ballo 1945 Grande adagio popolare prende avvio da alcune suggestioni: il luogo, innanzitutto, la fabbrica nel giorno della festa del lavoro. Uno stabilimento dismesso, non più produttivo che viene riqualificato dall’azione performativa di una comunità che crea insieme un oggetto immateriale, non merce né prodotto, ma esperienza di popolo, non calata dall’alto ma condivisa.

Un’immagine: Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo presentato proprio a Torino per la prima volta nel 1902. Un pretesto quegli uomini in marcia. Un punto di partenza per sviluppare un percorso.

Una geografia: politica e sociale che si sviluppa a partire da mappe e percorsi di corpi in movimento in uno spazio ormai privo di funzione, vivo solo di un passato, privo di un presente alla cittadinanza, per non dire di un futuro. Una riappropriazione della comunità di uno spazio, non più incognitus, ma riqualificato dall’agire insieme, dall’esperire insieme.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è un cammino di una massa che prende possesso di un luogo. Un gruppo che si muove compatto riunendo e accogliendo le differenze che lo animano. Nel cammino seminano le azioni di singoli e di piccoli gruppi che presto vengono riassorbiti da quell’incedere irrefrenabile.

Una madre con figlia, un gruppo di immigrati, delle donne, semplici gruppi di persone di tutte le età, sesso e condizioni. Cellule di un corpo in movimento perenne, che come uno squalo muove perché la stasi è morte. Non stiamo parlando di progresso, di un incedere verso una meta prefigurata, ma di una manovra verso nuove configurazioni, allineamenti, assestamenti.

È il ritorno del tempo antico della metamorfosi, dove tutto partecipava alla natura del tutto. Quel tempo forse irripetibile, utopico, prima dell’impero della tecnica dove le parti sono specializzate e hanno uno scopo. Qui il gruppo si muove e genera nuove fisionomie che sono frutto di un agire senza progetto, generazioni spontanee ed equivoche, perché non finalizzate. E il tutto nel luogo della tecnica, la fabbrica, dove ogni pezzo assume un ruolo e una funzione secondo specifiche immodificabili, del lavoro in linea dove ciò che precede anticipa ciò che seguirà.

Ballo 1945 Grande adagio popolare è anche un mosaico dedicato all’accoglienza, alla condivisione, alla partecipazione. Il suo gesto da antico umanista, fiducioso nell’umanità, restituisce l’idea di un gruppo sociale che procede insieme sostenendo tutti, accogliendo tutti (e nelle figure ritornano i motivi delle deposizioni, delle pietà, del sostegno). Parrebbe un gesto politico e artistico ingenuo ai cinici, eppure nella sua manifestazione risulta commovente come pochi altri. È un gesto politico e artistico fuor dai termini della ragione giudicante. È un atto di fede e di fiducia illimitato e perciò potente perché ingiustificato.

Vedendo Ballo 1945 Grande adagio popolare mi tornava in mente un piccolo grande racconto di Kafka dal titolo Di notte. Non per assonanza, quanto più per contrappunto. Una grande massa di uomini in un deserto sterminato sdraiati dove prima erano in piedi. Un uomo solo con un lume perché uno deve vegliare, uno deve esserci, qualcuno deve pur aver fiducia.

Di Ballo 1945 Grande adagio popolare ho avuto il privilegio di vedere anche la prova generale e vedere una volta di più la grande umanità di Virgilio Sieni nel lavoro di coreografia. Non impone una visione, suscita piuttosto un atteggiamento di concentrata presenza. É il suo un mettersi a disposizione che invita a seguirlo in un percorso che si costruisce. Non è Sieni un capriccioso dio della danza che impone i suoi voleri, ma più un artigiano umanista animato da profondo amore e compassione per ciò che fa e verso coloro con cui lo fa. È il suo un mettersi a disposizione, un donarsi che si nutre dello scambio di doni vicendevoli con la folla che partecipa con lui alla costruzione di questa marcia.

Ph: @Giorgio Sottile

Virgilio Sieni

DI FRONTE AGLI OCCHI DEGLI ALTRI di Virgilio Sieni

Ieri sera al Teatro della Faraggiana di Novara è andato in scena Di fronte agli occhi degli altri di Virgilio Sieni. Nato nel 2012 questo spettacolo giocato sull’incontro tra il coreografo e alcune particolari comunità (terremotati del Belice, vittime di stragi terroristiche, ex partigiani, persone affette da fragilità mentali o fisiche) ha già una storia performativa e critica importante, ragion per cui, più che fare una recensione, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti che mi hanno generato delle riflessioni in seguito a questa esperienza novarese.

Di fronte agli occhi degli altri non è uno spettacolo tradizionale. Virgilio Sieni non ha preparato una coreografia da eseguirsi di fronte al pubblico con questi particolari danzatori (la comunità in oggetto era Oltre le quinte che si occupa di laboratori artistici con persone affette da varie disabilità); il percorso proposto è più simile a una session di improvvisazione. Ciò che conta è l’incontro tra la comunità e il coreografo nel momento della danza.

I corpi con le loro differenze, le loro fragilità, le chiusure, le rigidità e flessibilità. Il corpo parlante che si frequenta e si conosce attraverso la danza. Vi è una calma dolcezza in quest’incontro. Una delicatezza che tocca inesorabilmente. Non sempre un contatto avviene, a volte la danza del “maestro” si mangia quella dei suoi partner. Quando si manifesta il contatto si sprigiona una scintilla luminosa che irradia e illumina il momento dell’incontro.

Questa particolare modalità performativa, senza schemi, frutto di una imprevedibile interazione, alla ricerca di un delicato contatto tra corpi, necessitava di un luogo molto più accogliente, che permettesse al pubblico di essere in qualche modo partecipe e non lontano e passivo testimone. Parlo di un raccoglimento, di una sorta di abbraccio tra l’occhio che guarda e ciò che avviene nello spazio. Una sala diversa da un teatro classico dove la platea fronteggia una scena distante ed elevata su un palco tradizionale. Il luogo è il fondamento dell’agire, è il contenitore dell’evento, dell’agire/patire che lo frequenta. Se lo spazio è sbagliato quando vi accade, nonostante la sua qualità, risulta in qualche modo, raggelato, imbrigliato, impedito.

Vi è in certi contesti e riguardo a certi progetti, una necessità viscerale di cercare un luogo adatto. E un teatro, per quanto si parli di scena, danzata o recitata che sia, a volte può dimostrarsi più un ostacolo che un vantaggio.

Prima dello spettacolo, Virgilio Sieni ha tenuto un laboratorio con la comunità che avrebbe incontrato sulla scena. Ho avuto il privilegio di poter osservare questi lavori preparatori. Virgilio Sieni per quasi tre ore ha lavorato con raffinata delicatezza con la comunità formata da disabili, operatori e danzatori conducendoli attraverso svariati esercizi verso alcune possibili modalità di incontro corporeo. Accoglienza e rilascio, prossimità e allontanamento, condurre e farsi condurre.

Con poche semplici parole e l’esempio Virgilio Sieni ha proposto con ritmo serrato esercizi su esercizi sperimentando diverse modalità dalla voce che accompagna il movimento alle improvvisazioni comuni, passando attraverso semplici frasi coreografiche che via via si complicavano. Ha fornito una serie di possibili ganci o appigli su cui la comunità poteva sorreggersi nello sperimentare il contatto con lui sulla scena. Devo dire di essere rimasto impressionato dalla lieve e delicata maestria di questo insegnamento corporeo che non imponeva ma suggeriva. Senza verbose spiegazioni e solo con l’esempio e poche necessarie indicazioni per correggere la rotta, si è stabilito un contatto che si è poi ritrovato sulla scena nella performance vera e propria. Una modalità di insegnamento antica che conserva tutta la sua forza e vitalità e che non andrebbe abbandonata alla leggera. Il corpo ha una sua lingua che non è quella della parola. Oggi talvolta con troppa leggerezza ci se ne dimentica.

Non voglio dire con questo che la riflessione a parole non sia necessaria. Tutt’altro. Dico che nell’agire scenico a parlare dovrebbe essere il contatto diretto allievo/maestro tramite il corpo e la sua azione e non attraverso un tutoraggio verbale e distante su cui molti progetti di formazione ormai si basano.

Un’ultima considerazione. Di fronte agli occhi degli altri è, come detto, un’improvvisazione che cerca il contatto tra il corpo del coreografo Virgilio Sieni con le comunità che via via incontra. La sua presenza è necessaria ma comunque in qualche modo invadente. In molti istanti appare come il burattinaio che muove i fili dei danzatori. In un istante pare avvenire qualcosa di diverso, due ragazze restano sole in scena, forse qualcosa può emergere seppur con grande difficoltà, ma poi Virgilio Sieni ci ripensa e riprende in mano la conduzione. Probabilmente l’impulso è stato di sostenere una difficoltà, però devo ammettere di aver sentito sorgere in me il dubbio di essermi trovato di fronte a un’occasione mancata. Forse un vero dialogo poteva nascere invece di una conversazione guidata dal solo Virgilio a cui i ragazzi via via rispondevano. Forse poteva nascere una domanda dall’altra parte a cui Sieni avrebbe dovuto trovare una sua risposta differente, cambiare piani e modalità.

Di fronte agli occhi degli altri emana il profondo neoumanesimo di Virgilio Sieni. L’amore per il corpo e per l’umano. Lo si sperimenta in maniera evidente nel laboratorio che precede e meno, a causa del luogo, nella performance vera e propria. Ma esiste ed è il fondamento di questo lavoro, come di molti altri che Virgilio Sieni affronta in questi ultimi anni. La fragilità dell’umano che si esprime con il corpo.

Una friabilità che non è solo di alcune persone, è di tutti. Siamo sempre più impreparati ad affrontare la difficoltà, la crisi, la critica, totalmente abbracciati come siamo dalla civiltà. Eppure la fragilità di fronte a ciò che ci sovrasta è anche la piattaforma che ci fornisce gli strumenti per affrontare ciò che è più grande di noi. Se la mettessimo più in evidenza, se costruissimo una società basata sulla manchevolezza piuttosto che su un’illusoria idea di onnipotenza, forse saremmo tutti più umani e comprensivi verso ciò che come noi è manchevole e assolutamente lontano dalla perfezione.

Virgilio Sieni

ALTISSIMA POVERTÀ: VIRGILIO SIENI A TORINO

Sabato mattina al Circolo dei Lettori è stato presentato il progetto Altissima Povertà di Virgilio Sieni. Il grande coreografo fiorentino porta in città un lavoro corale diffuso sul suolo cittadino che idealmente continua le sperimentazioni già attuate in altre città, come Venezia, dove da direttore artistico della Biennale Danza ha dato forma al Teatro alle Tese al Vangelo secondo Matteo in cui 163 interpreti non professionisti hanno dato vita a 27 quadri dall’entrata di Gesù in Gerusalemme alla Passione. Ma non solo Venezia anche Marsiglia, Livorno, Brescia, progetti nati con l’intenzione di diffondere azioni coreografiche che coinvolgano un intero territorio e un intera comunità, cercando di riproporre un’agorà ideale che unisca gli abitanti attraverso l’azione del corpo danzante. Una rivalutazione dell’umano al di là del convenzionale unendoli nel gesto e nell’esserci, nella collaborazione, nella vicinanza al di là delle differenze lavorando con e sulle differenze.

A Torino, grazie allo sforzo di due Associazioni molto attive nel campo della danza, in particolare quella di comunità, Virgilio Sieni porterà a Torino, Altissima povertà, un progetto di azioni coreografiche da costruire insieme a diversi gruppi e comunità e da realizzarsi in città in un processo a partire dal prossimo 5 aprile per concludersi i primi di luglio 2016. Il titolo del progetto si ispira al libro del filosofo Giorgio Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita proseguendo una collaborazione nata nel 2008.

Il lavoro porterà alla creazione di diversi gruppi composti da persone tra i 20 e i 40 anni con esperienze di danza, giovani, adulti e anziani di qualsiasi età senza esperienza di danza, e infine coppie di madri con figli.

Per chi volesse partecipare, e io invito caldamente chi potesse a non perdere l’occasione di vivere da vicino l’azione e l’insegnamento di un grandissimo artista e coreografo, può rivolgersi direttamente a Maria Chiara Raviola scrivendo a danzateatrocomunità@lapiattaforma.eu o consultando il sito www.lapiattaforma.eu