Quattro stanze, quattro quadri. Un viaggio tra l’uno e l’altro alla scoperta del movimento e del corpo nella sua purezza, in povertà francescana, senza fronzoli né mostrine. Non si ostenta nulla, non si ha necessità di far vedere, di rappresentare. La concentrazione dei danzatori (molti lo ricordiamo non sono professionisti) è massima, come se si eseguisse una forma alta di meditazione. Ogni gesto è teso, pieno, attento e colmo di cura, nell’ascolto dell’altro, nell’ascolto dell’ambiente. Ci si trova di fronte a una sorta di silenzio cageano, scevro di intenzioni, teso a lasciar emergere e non a indirizzare. I corpi si amalgamano, si addensano, si prendono, si abbandonano, si accarezzano in un fluire di deposizioni, crocifissioni, visioni scultoree pronte all’istantanea fluidità. Le forme proteiche nella loro perenne metamorfosi tornano talvolta a dei punti di inizio: il cerchio, la linea su cui si fronteggiano due file abbracciate. Questi quadri danzati sono così intensi e coinvolgenti, che si ha l’impressione di assistere a un rito antico, a una vera e propria orazione comunitaria. Vi è anche un senso di profonda quiete, di benessere, di estatica ammirazione di questo bello frugale, semplice nella sua complessità, senza opacità seppur mai letterale. Vi è un lavoro immenso sulla presenza scenica, sulla concentrazione verso il corpo e a come esso si muove nello spazio in rapporto all’altro da sé e di fronte all’occhio che guarda. Raramente ho assistito a eventi pregni di una tale concentrazione e intensità.
Nelle quattro sale del Palazzo di Città di Torino, splendide nella loro magnificenza, si assiste con religioso raccoglimento a questo trionfo del frugale e dell’essenziale, del gesto scevro di ogni sorta di ostentazione, potente perché privo di ogni orpello, nudo, povero, perfino misero eppur magnetico e catalizzante. Una comunità di persone che condividono uno spazio, in qualche modo se ne appropriano grazie al movimento che nasce dal loro interagire, sconnesso da ogni volontà di ottenere un risultato o un bene, lontano perciò dall’utile. Contatto, connessione, disconnessione, semplicemente prendere e lasciare, unirsi e separarsi. Come la rosa di Silesius tutto è senza un perché, fiorisce perché fiorisce, non si chiede se lo si veda oppure no.
La comunità di danzatori è priva di differenze come un organismo le cui cellule non si siano specializzate, dividendosi in categorie, funzionalità, gerarchie. Tutti possono diventare fulcro e periferia, albero motore, o piccolo ingranaggio. Una comunità utopistica seppur possibile in quegli spazi, in quei momenti.
Altissima Povertà è un progetto di Virgilio Sieni insieme a La Piattaforma che da ormai un anno si sta sviluppando nella città di Torino. Lo scorso luglio era andata in scena alla Reggia di Venaria una prima versione, oggi nel contesto della Biennale Democrazia ne va in scena una versione più ridotta ma non meno intensa. Alla performance è seguito un piccolo dibattito con Virgilio Sieni e lo storico dell’arte Tomaso Montanari incentrato per buona parte sul potere eversivo del corpo e del gesto. Devo dire che non sono riuscito a scorgere intenti eversivi per quanto la presenza dei corpi sia stata potente e i gesti così intensi da far lacrimare gli occhi. Trovo che questa forma quasi di meditazione comunitaria sia come una sorta di recupero di certo neoplatonismo umanista che svolge la sua azione artistica sotto il motto di Pico della Mirandola: magnum miracolum est homo, e volto alla ricerca del vero, del bello e del giusto. Altissima povertà è una sorta di ascesi pubblica, un’azione iperurania, in cui il corpo materiale quasi trascende proprio grazie alla sua potente presenza. Il gesto eversivo e rivoluzionario è, al contrario, teso verso il futuro, si slancia verso un altrove spostato in avanti nel tempo, è tensione al raggiungimento di un sol dell’avvenire. Mi sembra invece che qui ci sia una certa nostalgia verso valori della grande tradizione, un recupero molto distante da un gesto tagliente e straziante che possa smuovere le coscienze e risvegliare una comunità, più che altro un monito verso certi bonos mores di un lontano e fulgido passato. D’altro canto, come ama ripetere Michel Huellebecq, non vi è niente oggi di meno rivoluzionario dell’arte per il suo svolgersi e consumarsi nei palazzi del potere. Forse è proprio divenuto impossibile all’arte essere eversiva e rivoluzionaria avendo perso molta massa critica negli ultimi anni proprio a causa del suo chiudersi nei luoghi istituzionali e adibiti al suo accoglimento.
Altissima povertà è anche un tentativo di recupero dei luoghi, un riportarli alla comunità. Già Agamben invocava una profana-azione, intesa come un recupero all’uso degli spazi comunitari. Questo di Sieni è un tentativo alto seppur si svolga anch’esso in luoghi non deputati alla danza, ma comunque prestigiosi e istituzionali. Forse in un mercato, o in un quartiere squallido tali azioni avrebbero più potenza d’impatto.
Quello di Sieni è dunque un gesto inattuale, quindi non propriamente contemporaneo nel senso di essere nel qui ed ora ma anche in un luogo altro spostato nel tempo. Gesti del genere sono sempre coraggiosi soprattutto per l’alta qualità che emanano e per la serietà e perizia nel costruirli e renderli possibili. Altissima povertà è un lavoro possente che fa riflettere e certamente contiene germi di discussione e dibattito che possono far solo bene all’ambiente stantio e muffito delle arti performative italiane.
Ph. G. Sottile