Lo dico subito così non resta alcun dubbio: questa versione de Le tre sorelle diretta da Simon Stone e in scena al Teatro Carignano fino al 26 gennaio prossimo, è grande regia e non fa per niente parte di quella categoria di spettacoli di cui ci si dimentica dopo dieci minuti che si è usciti da teatro.
Cercheremo in questa breve disamina di capire in cosa consistono i punti di forza ma anche di individuarne i difetti, e non per fare i puntigliosi che cercano in ogni occasione il pelo nell’uovo, ma per assolvere uno dei compiti della critica, che non è quello di accodarsi al pubblico plaudente ma quello di sollevare questioni e problemi che siano utili all’arte scenica.
Simon Stone fa riscrivere completamente Cechov. Tutta l’azione e il dialogo sono riferiti al nostro presente. C’è tutto: da Donald Trump a The Walking Dead. La scrittura è aggiornata anche sulle questioni di genere con inserti e personaggi del mondo LGBT. Un’operazione che richiama le riscritture filmiche dei grandi romanzi.
Tutta l’azione, divisa in tre atti, avviene in uno chalet girevole, una casetta per vacanze con vari locali su due piani e giardino. Noi spettatori voyeur, abituati a curiosare nelle vite degli altri su Facebook, siamo i guardoni che vedono la vita degli altri scorrere senza parteciparvi come tanti Tonio Kroger.
Tre atti e tre momenti nella vita di questa piccola comunità che gravita intorno alle tre sorelle: un’estate, un natale, e il momento in cui lo chalet si vende e avviene il suicidio. Tutta l’azione scorre davanti a noi nelle varie stanze in un sapiente montaggio di dialoghi e situazioni. Benché non accada quasi nulla e le conversazioni siano per la gran parte quelle di una famiglia qualsiasi, il flusso narrativo è intrigante, senza mai un momento di pausa.
Le scene orchestrate da Simon Stone sono sempre multifocali. Non c’è un solo punto di vista, ma molteplici. Se l’azione principale avviene in cucina, in giardino, in salotto o in bagno qualcos’altro accade che porta avanti la narrazione e tocca a noi pubblico fare il nostro montaggio.
Gli attori sono straordinari. I personaggi credibili. L’illusione di trovarsi di fronte a qualcosa di reale è massima. Sembra di essere al cinema e vedere tre episodi di una serie tv. Non di fronte alla vita vera, quella è ben più caotica, disperata, deludente. Una vita ricostruita dal cinema, che coincide quasi con la nostra, se non per i dialoghi perfetti, per i colpi di scena abilmente posizionati al posto e al momento giusto. Ma l’arte è questo: è artificio che parla della vita, non è la vita stessa, anche se per qualcuno il binomio doveva essere perfetto.
Così alla fine di questa breve descrizione ci troviamo di fronte a una delle questioni che sollevano Les Trois Soeurs di Simon Stone: convenzione vs iperrealismo.
Mentre osservavo e, lo ripeto a scanso di equivoci, mi godevo lo spettacolo, nello stesso tempo mi frullavano nel cervello le lezioni di Mejerchol’d del 1918 in cui parla dei Meininger. Il grande maestro russo parla dell’opposizione tra il naturalismo spinto all’estremo che non lascia nulla all’immaginazione e la convenzione che spinge la fantasia dello spettatore a riempire i vuoti e ammirare il mistero. E guarda caso questa disamina parte proprio da Cechov, il quale criticò Stanislavskij il quale aveva avuto il demerito di aver portato le regie delle sue opere troppo vicino alle posizioni iperrealiste dei Meininger.
Cechov stesso, secondo Mejerchol’d chiedeva di condurre le sue opere verso un mondo più convenzionale, magari sognate, ma che facesse emergere una sorta di mistero dal testo.
A questo pensavo mentre vedevo scorrere di fronte a me la regia di Simon Stone, pensavo alla curiosa coincidenza in cui vedevo questo Cechov giusto cento anni dopo le lezioni di Mejerchol’d e che quanto detto allora valeva ancora oggi. Cosa avrebbe detto Cechov di fronte a questo chalet perfettamente costruito e rotante, queste scene così aderenti al vero, questi personaggi così credibili in questa versione moderna dei Meininger? E questa forma di realismo estremizzato, dove in ogni scena c’è tutto, perfino le forchette nei cassetti, l’asciugamano di fianco al lavandino e le birre nel frigo, non è parte anche di un mondo produttivo elitario?
Chi mai nel teatro normale, quello che si dibatte nei problemi di finanziamento e distribuzione potrebbe mai permettersi questa forma di rappresentazione? Ed è forse poi necessaria, al di là di un risultato sopraffino, questa ricerca del reale a tutti i costi?
Mejerchol’d abbandonò nel 1918 il grande teatro, quello dei velluti e delle risorse infinite, per intraprendere una nuova avventura, che aderisse al momento rivoluzionario. Un teatro diverso, fatto di poveri mezzi ma di grande inventiva. E da questa scelta si creò una polemica in seno alla scena russa, proprio in merito alle due polarità di realismo e convenzione. Le stesso domande che assillavano Mejerchol’d e la scena russa abitata anche da Cechov, si possono curiosamente riferire anche all’oggi e ci fanno capire che in fondo benché molte condizioni siano mutate non molto è cambiato in cento anni.
Ma questa curiosa coincidenza riferita allo spettacolo di Simon Stone e al suo Cechov fa sì che la domanda che viene posta sia riformulata rispetto al presente. Questo iperrealismo cinematografico, al di là degli splendidi risultati, è una strada utile per il teatro di oggi? Questo osservare un’azione che si svolge davanti a noi indipendentemente da noi, non è una modalità rappresentativa d’altri tempi? Le Live arts non si stanno spostando gradualmente ma pare in maniera inequivocabile, verso una modalità performativa partecipata e processuale?
Ripeto queste sono domande che mi sorgono spontanee nel vedere uno spettacolo quasi perfetto e acclamato da numerosi e lunghi applausi del pubblico. Sono domande di sistema che vanno al di là dei meriti indubbi di un regista giovane ma già assai maturo e con ampi e valenti mezzi espressivi al suo arco. Sono domande che riguardano il teatro in generale e sorgono proprio di fronte a una delle sue migliori manifestazioni. Les trois soeurs di Simon Stone, questo Cechov riscritto e riattualizzato, è la Rappresentazione con la maiuscola. Ma non si era fatto di tutto per uscirne?
foto @Thierry Depagne