Ieri sera 26 ottobre è andata in scena per Torino Danza alle Lavanderie a Vapore Annamaria Ajmone con To be banned from Rome. Uno spettacolo che mi ha lasciato perplesso per molte ragioni. Che non si debba prestar troppo fede ai programmi di sala è cosa risaputa. Molto spesso danno un’idea sbagliata e falsata di quello che si andrà a vedere. Solitamente lo leggo dopo o non lo leggo affatto perché lo ritengo uno strumento che indirizza l’occhio dell’osservatore dove vuole l’autore e io voglio invece essere libero di vedere lo spettacolo senza pregiudizi, lasciandomi investire dalle immagini e dalle azioni che accadono sulla scena. Voglio essere immerso nel processo senza dovermi muovere tra i paletti come nello slalom.
Questa volta nell’attesa purtroppo vi ho dato una letta. E mi sono incuriosito ancora di più. Si parla di nuove tecnologie, di “una riflessione sulla persona digitale”, di uno sguardo sulle community online e i loro comportamenti, ossessioni e feticismi, di una coreografia che coinvolge tecnologie popolari e crude. Vedendo To be banned from Rome di Annamaria Ajmone non si riscontra niente di tutto questo. E sicuramente ciò può essere dovuto a mie mancanze o alla mia ignoranza seppur abbia riscontrato in molti facce del pubblico la mia stessa perplessità.
Una donna con un braccio di pezza lunghissimo entra in scena e comincia a danzare con movimenti aggraziati, lenti, sinuosi accompagnata da un’interessante musica elettronica composta ed eseguita da Alberto Ricca in arte Bienoise. Sulla scena un mucchio di stracci è sul proscenio e una cassa acustica più o meno al centro dello spazio. Il braccio di pezza compone interessanti combinazione con il corpo e i movimenti della danzatrice, che è obbligata a convivere con questa protesi, a trovare dei movimenti possibili. Oltre a questo non c’è molto altro.
Questo spettacolo di Annamaria Ajmone è molto debole. Manca di struttura compositiva e ritmica, di una nervatura che sostenga il suo discorso. Dopo un segmento che occupa oltre la metà dello spettacolo, un lungo momento vuoto in cui ad agire sono solo le luci, ma in maniera non veramente pregnante. Il braccio abbandonato sulla scena viene illuminato da un taglio di luce mentre il resto della scena muta lentamente di colore, fino a giungere a un controluce basso e bianco in retroproiezione che inaugura una nuova scena. Troppi i minuti impiegati per questa operazione che peraltro non porta a nessun cambio sostanziale dell’economia dello spettacolo, e quindi non funzionale. Solo la musica riempie la drammaturgia, la sostiene, le viene in aiuto sorreggendo l’impalcatura che altrimenti non reggerebbe.
La struttura ritmica è impostata per buona parte dello spettacolo su un tono uniforme, senza picchi, creste, cadute. Gli oggetti non sono impiegati in tutte le loro possibilità espressive, ma utilizzati in maniera troppo rapida, abbandonati in fretta. Gli stracci riempiono le tasche e il vestito e subito vengono lanciati via. Nient’altro. Il mucchio rimane lì abbandonato per quasi tutto il tempo di esecuzione.
Quindi di community online, di tecnologie, di discorsi sull’identità, non si percepisce nulla in quello che si vede. Se non avessi letto non mi sarebbe nemmeno venuto in mente. Non si riesce a comunicare una ricerca che sono sicuro, c’è stata e magari anche rigorosa. Non è assolutamente detto che una giovane coreografa come Annamaria Ajmone debba sfornare capolavori uno dopo l’altro. Errori e fallimenti sono ammessi e ben vengano: aiutano a crescere purché se ne prenda atto.
Questo apre un discorso sui giovani talenti che andrebbero aiutati invece che sfruttati. Coltivarli, farli crescere affrontando le giuste tappe, dovrebbe essere una necessità di tutti coloro che hanno a cuore la danza e il teatro. Se un lavoro non è pronto andrebbe protetto, rivisto, rimandato, oppure presentato come studio incompleto, non come prima assoluta. E purtroppo spesso avviene il contrario senza perciò essere di nessun aiuto al giovane autore ed esponendolo a inutili rischi.
Ph: @Andrea Macchia