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FACCIAMOLA FINITA CON LA CRITICA TEATRALE

Questo scritto inizia con una confessione dolorosa e finisce con una scommessa. E viola fin dal principio la regola non scritta secondo cui è meglio in un articolo non parlare di sé. La questione però è sia personale sia generale e, secondo me, non si poteva affrontare che in questo modo. Portate pazienza e seguitemi.

Ho passato gli ultimi mesi a chiedermi incessantemente se non fosse il caso di finirla con la critica. Questo disagio, o necessità, si faceva giorno dopo giorno più urgente e molesto, pretendendo che smettessi di rimandare la sua risoluzione. E più differivo, più calava il desiderio di seguire festival e spettacoli. Per qualche tempo mi sono nascosto dietro le ricerche per il mio ultimo libro, cercando di convincermi che quella fosse la causa, che non avessi il tempo di scrivere altro, che ero completamente assorbito in un mondo affascinante, lontano e poco conosciuto, ma sapevo che erano misere scuse proprio perché trovavo più ammaliante il passato e non il presente.

La verità è che non avevo e non ho più fiducia nella critica in sé e nei modi in cui viene esercitata. Lasciamo perdere per un momento la spinosa questione dei conflitti di interesse perché sono purtroppo sistemici, anche se, bisogna dirlo, limitano, e di molto, la libertà e sono un vulnus all’autorevolezza della critica in sé. Bisogna però riconoscere che se festival e teatri non contribuissero alle spese della critica, attività dello spirito non più paragonabile a un vero lavoro e per lo più manifestazione di volontariato culturale, la questione sarebbe già risolta da molto tempo.

Una recensione, dobbiamo riconoscerlo, oggi è un atto futile, diretto per lo più al piccolo mondo antico dei teatranti e degli uffici stampa. Il pubblico non le legge o, se lo fa, non ne è minimamente influenzato, perché per la maggior parte escono post eventum, dopo che lo spettacolo di cui si parla si è già spostato in un altro territorio, e questo spesso non per la pigrizia del recensore, ma perché stanno scomparendo le teniture, a parte nei Teatri Nazionali e Tric, unici soggetti ad avere un budget che le permette. Inoltre il pubblico non legge in generale, lo dicono i dati sempre più allarmanti che vengono pubblicati e questo senza considerare il fenomeno di analfabetismo funzionale che tocca il trenta per cento degli adulti, percentuale che secondo l’OCSE, ci pone all’ultimo posto tra i paesi industrializzati.

La recensione è inutile non solo perché si rivolge alla ristretta popolazione di quella riserva indiana chiamata teatro, ma anche in quanto genere malato di aridità. Non vuole generare curiosità, moto d’animo bizzarro e ormai raro, né accendere il desiderio. Si accontenta di informare e spiegare, asetticamente, imparzialmente, senza trasporto. La recensione deve essere scientifica come la diagnosi di un medico.

La recensione poi nasconde un desiderio egoistico: mostrare ai propri lettori e alla concorrenza di essere sul pezzo, di svariare da Nord a Sud nel territorio nazionale, di essere quindi ricercati e autorevoli. Le testate ovviamente sono affette dalla stessa mania di presenzialismo. Ciò che conta sono i numeri e non la qualità di visione e il tempo dedicato allo studio e al dialogo con l’artista. Più che critici ci stiamo tutti trasformando in influencer senza però aver la capacità di influenzare massivamente, anche perché per quanto si voglia passar per inclusivi, di fatto si è altamente elitari, persino all’interno del proprio settore dove circoli e circolini si sentono investiti dalla divinità del ruolo di custodi del sapere. E non sto parlando solo di accademici e giornalisti, ma anche di referendari o non referendari, etc. Chi è fuori da queste categorie è anomalia da ignorare nella convinzione che un tesserino, un lavoro all’Università o l’appartenenza a una giuria siano un certificato di competenza.

Questo è il triste panorama entro cui si segue l’amato teatro. Inoltre si è sempre meno liberi di dire la propria opinione senza incorrere nelle ire di organizzatori, direttori e uffici stampa che si sono sobbarcati la spesa della tua venuta, per non parlare degli artisti risentiti per quello che hai scritto come fosse un’offesa personale e non un parere tecnico e personalissimo volto a essere utile.

E qui si arriva al secondo punto: la forma è anch’essa costrittiva come uno strumento di tortura medievale. Innanzitutto non si deve portar via a chi legge più di cinque o sei minuti. Frasi brevi, sintassi semplice. Si deve cominciare con il come, dove e quando senza tralasciare nessuno e riassumere la trama per includere anche quelli che a teatro vanno per la storiella, possibilmente con qualche riferimento dotto per far vedere di essere competenti ma senza esagerare per non turbare il lettore. Se la trama è mancante si descrivono scene e movimenti riferendoli a fenomeni sociali o artistici del presente, o a immagini pittoriche e/o letterarie. Infine si chiude con qualche commento riassuntivo che, senza giudicare del bene e del male, inquadri lo spettacolo nel suo presente e, per quanto possibile, ne spieghi l’intenzione. La parte del leone la fa la drammaturgia e il testo. Raramente si parla di tecnica dell’attore o di composizione registica o coreografica, giudicando queste questioni troppo specialistiche per il lettore medio, disinteressato, a quanto pare, a comprendere i meccanismi dell’arte di cui, si suppone, sia appassionato.

Un mantra ricorrente è: la critica non deve essere giudicante. Quindi per non sembrar di quelli che tranciano giudizi, si fanno giri di parole e acrobazie per dire senza dire. Ma tutto questo è una grande ipocrisia perché abbondano e crescono tutto l’anno premi e premietti, si esibiscano liste di preferenze e best off, come se questi non fossero giudizi di merito. Soprattutto però è grave il calare un velo di silenzio su quello che non si approva, che è scomodo da raggiungere o, peggio ancora, sconosciuto. Geografia e visibilità vanno a braccetto e qualche volta, talento, resta escluso e negletto.

Tutti questi lacci e laccioli che richiamano alla mente gli affatturamenti di Artaud, sono all’origine del mio disagio, sentimento in conflitto perenne con l’amore verso un’arte a cui ho dedicato più di trent’anni della mia vita. E questo scontro richiama altre emozioni disturbanti: rabbia e frustrazione. Non sorprende quindi che alla fine uno si chieda: ma chi me lo fa fare? E sono sicuro di non essere il solo a vivere questa lotta interiore tra passione e avvilente realtà.

Perciò non resta che decidere: smettere? Continuare a ripetersi: «Finita. È finita. Sta per finire. Sta forse per finire» differendo l’inevitabile come Clov in Finale di Partita? Oppure cercare di recuperare il piacere di andare a teatro e scrivere di e per il teatro?

Il punto è che non voglio rassegnarmi al sistema, a quello che Fisher chiama realismo capitalista, fenomeno capace di inaridire qualsiasi velleità di cambiamento, ma mancando il piacere e il desiderio scema. E non parlo di volgare soddisfazione, ma di ardore, di fiamma d’amore che muove alla conoscenza, alla curiosità, a voler porgersi domande le cui soluzione è altamente improbabile. «Amor mi mosse che mi fa parlare» così dice Beatrice a Virgilio, perché è «Amor che muove il sole e l’altre stelle». Artaud scriveva: «Se noi potessimo amare, amare subito, la scienza sarebbe inutile, ma noi abbiamo disimparato ad amare» e senza questo Amore che è desiderio dell’Alieno da sé, non c’è piacere, ma solo mestiere. Uso la parola Alieno inteso come sconosciuto, straniero, anomalo, come ciò è allo stesso tempo perturbante e affascinante, che attrae e respinge, quello a cui se tu fossi sano di mente non ti avvicineresti perché prudenza e senso comune ti direbbero che è sconveniente ed equivoco. E il desiderio che spinge a immaginare mondi diversi, a richiedere di cambiare pelle, di trasformarsi, mutare, evolversi. È il desiderio di volare che determina la necessità delle ali.

E per provare piacere devo, in primis, recuperare la libertà di trovare una forma, di sperimentare un modo diverso di parlare di danza e di teatro, opere d’arte in movimento. E per farlo desidero essere libero dal dover spiegare alcunché. Philippe Daverio diceva che non c’è niente al mondo di più facile da capire dell’arte: basta guardare. Ma aggiungeva che bisognava: «avere il coraggio di dire perché e di indagare». Questa ricerca deve potersi spingere in ogni direzione, come nel gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, dove un’equazione richiamava un frase musicale e questa un poesia da cui si sviluppava un nesso alla vita biologica e così via.

Lessing scriveva: «Guardato isolatamente, un pensiero può essere molto insignificante o davvero avventato; ma può essere reso importante da un pensiero che lo segue e, insieme ad altri pensieri che possono sembrare egualmente assurdi, può rivelarsi un utile anello di congiunzione». È nella catena di immagini che evocano altre immagini, ghirlanda per ognuno diversa, che si ricompone ciò che è frantumato riunendo, come in un puzzle, l’infranto specchio di Dioniso ben sapendo che ogni soluzione è provvisoria come un mandala di sabbia. Vorrei che a un testo critico venisse sottratta ogni illusione di risultato per restituire, qualora se ne fosse capaci, una visione, per quanto precaria, di teatro-mondo.

Per questo desidero lasciarmi trasportare dal flusso delle immagini non più opposta al logos, stabilirmi in quella regione dove, come dice Lessing: «la ragione ritira la sua guardia dalla porta e le idee irrompono alla rinfusa». L’opacità dell’opera d’arte non deve entrare in conflitto con la supposta chiarezza dello scritto. L’arte, soprattutto quella dei corpi, è ambigua ed equivoca proprio perché moltiplica i possibili significanti e così dovrebbe restituirla una recensione. E questo non vuol dire votarsi all’inintelligibile, ma saper suscitare con le proprie emozioni quelle altrui, significa saper evocare immagine da immagine senza pretendere di riferire, educare o, peggio ancora, spiegare qualcosa a qualcuno.

La critica non ha niente a che vedere con l’informazione. È l’opposto complementare dell’arte. Non la rispecchia, non la descrive, non la risolve, la problematizza, la rende un oggetto su cui riflettere e nel farlo stimola a conoscerla, a frequentarla, o osservarla traendone piacere o disgusto, attrazione o repulsione e questo senza descrivere o illustrare il semplice atto d’esecuzione, bensì suscitando le possibili implicazioni che quello strano rito ci propone sempre nuovo e sempre uguale da migliaia di anni.

Finirla con la critica diventa così non un gesto definitivo e personale, ma un atto pubblico. Provare a cambiare i modi attraverso cui raccontare un’opera d’arte di teatro, con la certezza quasi matematica di fallire nell’intento, ma tentare infischiandosene delle regole e delle leggi non scritte. Visto che la critica non è un lavoro, ma una passione che si esercita nella volontà, che sia per lo meno divertente, gioiosa, libera di cercare strade impervie e stimolanti. Per combattere l’avvilimento non resta che ritrovare il desiderio spasmodicamente, senza compromessi, senza curarsi delle conseguenze, dei pareri, dei giudizi, dei consigli perché tanto, come cantavano i CCCP: “verranno al contrattacco, ma intanto adesso…”

Turandot

TURANDOT: l’indomato fascino dell’incompiuta di Puccini

Turandot: l’ultima opera di Puccini, quella destinata a rimaner incompiuta e, di conseguenza, ad attirare tutta la nostra attenzione, noi che come Calaf cerchiamo di risolvere il suo mistero. Puccini non fu l’unico a farsi affascinare dalla fiaba della principessa incapace d’amare. All’inizio del Ventesimo secolo la fiaba Turandot calcherà le scene di tutta Europa affascinando musicisti e registi: Max Reinhardt nel 1911 su musica del futurista Busoni, Vachtangov a Mosca nel 1922.

C’era qualcosa nel mondo della fiaba che attirava i grandi artisti agli albori del ‘900. Pensiamo a molti balletti russi di Stravinskij, a Prokofiev. Nella favola forse si cercava il mito che non si riusciva più ad esprimere. Non si era più in grado di creare racconti che accogliessero in sé l’urgenza di un’epoca e di una società. Forse la Prima Guerra Mondiale aveva reso difficile concepire una forma che potesse spiegare l’immane massacro. La fiaba diventava così un luogo fuori dal tempo dove ricostruire delle immagini che si riappropriassero del reale.

Turandot, la principessa del gelo, incapace d’amare, che taglia la testa a tutti i pretendenti che sono incapaci di risolvere i suoi enigmi. E quando alla fine Calaf riesce a superare l’ostacolo, Turandot non cede e crea un altro ostacolo. La morte regna su questa Cina che non è un luogo fisico ed esotico ma nemmeno immaginario, una Cina gravata dal terrore e dalla morte.

Puccini rende certamente l’esotico con i mezzi a disposizione del repertorio, in fondo per fare cinese bastava usare una scala pentatonica (anche se Puccini usa strumenti più fini come la Canzone del Gelsomino che trarrà dal carillon del barone Fassini), ma il suo scopo non è riprodurre una chinoiserie quanto collocare la fiaba in un altrove che è sì riconoscibile ma nello stesso tempo sfuggente. Secondo la definizione di perturbante di Freud è qualcosa di familiare ma nello stesso tempo di estraneo ed è proprio questa discrepanza che ci crea angoscia. Non dimentichiamo che siamo nel 1924, l’Europa è appena uscita dal grande macello della guerra e ha appena superato da poco il terrore dell’epidemia di spagnola. Questa Cina di cui si parla è molto più vicina di quel che si pensi.

Turandot però è anche un’assenza. E tre maschere lo dicono chiaro a Calaf: Turandot non esiste. Nel primo atto addirittura è niente più che un’ombra lontana. Ella è un simulacro come Elena di Troia, forse niente più che un’immagine. L’incapacità d’amare di Turandot, le sue cervellotiche strategie per difendersi dall’amore, sono in ognuno di noi, sono dentro i nostri cuori, e le teste che si mozzano non sono nient’altro che quelle dei nostri sentimenti. Turandot è dentro e fuori di noi, sulla scena e nella nostra anima. Ecco dunque la potenza del mito attraverso la fiaba.

Ottima la scelta di interrompere l’opera sulle ultime note scritte da Puccini, appena dopo la morte e il sacrificio di Liù, evitando il finale di Alfano e quello di Berio. L’opera resta così aperta, incompiuta, e lascia a noi la facoltà di colmare come più ci piace quel vuoto.

Stefano Poda, la cui opera ho già avuto modo di vedere in Leggenda di Alessandro Solbiati ispirato al Grande inquisitore di Dostoevskij, crea una gabbia a molti strati entro cui si svolge tutta la vicenda. Una prigione asettica, ospedaliera, colma di bianchi abbacinanti, con pochissimi tratti di colore, per lo più neri.

Tre porte sul fondo che richiamano il tre che ricorre nell’opera (Tre enigmi, tre maschere) e che conducono e comunicano con un altrove ancora più sconosciuto e forse angusto di quello visibile. Lo spazio di questa prigione è asfittico, claustrofobico, sempre colmo di persone che si muovono lentamente, quasi senza un perché ne una destinazione.

Il movimento, quasi sempre lento, fornisce un ritmo alternativo all’azione, una dimensione temporale misteriosa, evanescente, come di sogno.

I personaggi sono a malapena riconoscibili in questo bianco insistito. Solo Calaf in nero si staglia, unico protagonista evidente. Turandot sfugge, come riflessa in mille immagini identiche da castello degli specchi da fiera. Calaf si aggira tra questi simulacri senza saper veramente a quale Turandot parlare.

Una Turandot interessante, avvincente questa di Poda e Noseda in scena al Teatro Regio di Torino fino al 25 gennaio.. Una versione che mantiene il mistero di un’incompiuta, senza dar risposte fantasiose o consolanti. Si resta nel mondo che ha lasciato Puccini morendo, senza risposte. Una Turandot che fa riflettere a quanto saremmo disposti per amore o a difenderci dall’amore.

Teatrino Giullare

FINALE DI PARTITA: Teatrino Giullare incontra Beckett

Mentre assistevo a questo Finale di partita di Teatrino Giullare, ieri sera al Teatro della Caduta, mi tornavano alla mente le parole di Roger Blin quando racconta della prima messa in scena: «Beckett mi diceva :”non c’è nessun dramma in Finale di partita, da quando Clov dice la sua prima battuta […] non succede più niente. C’è un vago movimento, un sacco di parole, ma nessun dramma».

Questa versione di Teatrino giullare sembra smentire le parole di Beckett. Due giocatori mascherati si fronteggiano davanti a una scacchiera su cui sono posati i quattro personaggi: Hamm è il re, Clov l’alfiere, e i due bidoni della spazzatura contenenti Neg e Nell diventano due torri. Il dramma quindi se c’è, è nel gioco più violento mai creato (gli scacchi per chi non lo sapesse nascono da un fatto di sangue). Ma perché questi due personaggi stanno giocando? cosa li spinge? e soprattutto quali sono le regole? Non ci sono. Come nel Teatro grottesco di Thomas Ligotti, le cose accadono perché accadono, senza ragione alcuna, ma allora può esserci dramma?

I burattini vengono mossi sulla scacchiera al ritmo delle battute rendendo fisica la sensazione di trovarsi di fronte a una partitura musicale (e la volontà di Beckett era di fare emergere questo aspetto).

Il suono delle pedine mosse sulla scacchiera intervallate dalle pause, è controcanto alle parole che tratteggiano questo estenuante finale di gioco tra personaggi ormai allo stremo. Finita è finita, forse è finita. Sì, forse. Domani tutto potrebbe cominciare nuovamente. Clov e la sua valigia possono essere solo un ennesimo gioco crudele che non porta a nient’altro che a far passare il tempo.

Che ore sono? La stessa di sempre. Che tempo fa? Lo stesso di sempre. I finali negli scacchi sono matematici. Tutta la variabilità che può sconvolgere il medio gioco svanisce di fronte all’ineluttabilità del finale. Eppure è possibile dilazionare il tempo, si può protrarre l’agonia all’infinito in alcuni casi. E infatti Hamm lo ammette: potrei farla finita, ma non riesco. E qui torna in mente la massima di Roger Blin, che di Beckett curò le prime magistrali: «penso che a teatro esista una regola semplice, che in ogni forma di scrittura, classica o meno, deve rispettare: saper finire».

E se il finale di questo Finale di partita è aperto come quello di una serie televisiva, quello di Teatrino Giullare è suggestivo e improvviso: una piccola fiamma che illumina i resti del gioco sulla scacchiera e poi buio.

Visivamente affascinante questo Finale di partita di Teatrino Giullare che da molto tempo affronta la drammaturgia contemporanea (ricordiamo en passant le esplorazioni di Koltès, Bernhard, Jelinek etc.). I burattini sono evocativi dell’universo stantio di Beckett: un lenzuolo macchiato di sangue e pieno di polvere, i bidoncini della monnezza dove sono rintanati le larve umane dei genitori, la sedia a rotelle, persino il cane immaginario.

Qualche difetto nella drammaturgia vocale. La voce raschiata di gola di Hamm, o la caratterizzazione da cartone animato di Negg e Nell lasciano un po’ a desiderare. Forse l’aspetto vocale poteva essere esplorato in altro modo. Per esempio Hamm con una voce femminile avrebbe aperto scenari insoliti. Ma è un mio pallino: preferisco sempre il naturale all’artificio per quanto il teatro in sé sia un artificio. Amo quanto il confine si fa confuso, quando l’insolito, per le strane alchimie della scena, diventa assolutamente accettato e consueto, come se non ci fosse altra soluzione che quella esperita.

Anche nell’interpretazione qualcosa in più si sarebbe potuta fare soprattutto nell’esplorazione della profondità dei personaggi. Per esempio non si avverte il travaso di potere che gradualmente passa da Hamm a Clov. I due restano sostanzialmente identici in questa versione di Teatrino Giullare, mentre nell’originale beckettiano il bastone del potere passa lentamente dalla mano di Hamm a quella di Clov che infatti nel finale ha il facoltà di allontanarsi. A lui resta l’ultima mossa a noi sconosciuta. Così come il tono delle chiamate di Hamm passa da imperioso a supplicante ma che in questa versione si manifesta solo nell’affievolirsi del suono del fischietto.

Buono invece il ritmo che rende esplicita e incessante, perfino nelle pause, la violenza dei colpi scambiati tra Hamm e Clov. Una lotta senza quartiere, lotta che si ripete ancora e ancora, è quella che avviene tra le quattro mura o, in questo caso, tra i quattro lati che delimitano la scacchiera.

Questo Finale di partita di Teatrino Giullare è lavoro pieno di luci e ombre, godibile e intenso, seppur attraversato da vistose contraddizioni tra ottime riuscite e buone intenzioni che restano a livello larvale.

Ph@ Rosalba Amorelli

Anne Teresa De Keersmaker

A LOVE SUPREME: di Anne Teresa De Keersmaker

A love Supreme è non solo un capolavoro del Jazz, ma è un sublime incontro con il divino. Una preghiera accorata di John Coltrane in forma di suite in quattro parti: Acknoledgement, Resolution, Pursuance e Psalm. Anne Teresa De Keersmaker si confronta con questo sentiero accidentato, angosciato, profondamente sentito intrecciando alla musica la sua coreografia in un perfetto ed estatico contrappunto.

A love supreme di Anne Teresa De Keersmaeker con Salva Sanchis del 2005 ripresa in questo 2017 in occasione dei cinquantanni dalla morte di John Coltrane e andata in scena il 13 dicembre alle Lavanderie a Vapore.

Un prologo silenzioso prepara il terreno alla fusione di musica e movimento. Un luogo silenzioso costellato di frasi danzate che è preghiera prima della preghiera, dove il respiro, le prime gocce di sudore, il suono dei piedi che strisciano e battono il palco sono preludio di una musica che è attesa, agognata, evocata.

L’assetto della coreografia di Anne Teresa De Keersmaker è combinazione di struttura e improvvisazione che si impasta perfettamente con il Jazz di Coltrane. I quattro danzatori diventano strumenti fisici in movimento, quasi impersonando sax, basso, piano e batteria. Gli assoli emergono dal background, i riff, le improvvisazioni che si intrecciano alle parti composte: il suono si manifesta visibile aprendo la possibilità di emersione di sensi imprevisti e imprevedibili.

Ma quello che si vede non è un semplice calco. È dialogo, un botta e risposta, contrappunto di armonie e dissonanze, di ritmi e velocità. È composizione nella composizione. Il sostegno dei corpi e degli sguardi ricrea il sottile seppur intensissimo ascolto che lega i musicisti jazz. Un ascolto che permette gli inserimenti, l’emersione degli assoli nel quartetto, le possibilità di improvvisare, seguire, sostenere, abbracciare i temi e i loro sviluppi.

Il quarto e ultimo movimento, il salmo costruito sulla preghiera scritta da Coltrane rende ancor più manifesta questa tessitura delicata seppur solidissima: le mani che sostengono, i corpi lanciati verso l’alto, le mani che spingono e slanciano rendono visibile e corporeo quanto si ascolta nella musica, laddove il sassofono viene innalzato e sostenuto dal terreno sonoro della batteria, del contrabbasso e del pianoforte. Ed ecco che ritornano le frasi del pezzo silenzioso, un loop ripetuto e variato che chiude il cerchio perfetto di questo magico connubio tra Anne Teresa De Keersmaker e John Coltrane.

A love supreme è un magistrale saggio di composizione, ma non solo. È espressione di un dialogo virtuoso tra danza e musica dove nessuno è ancella di nessuno, dove la danza non è semplice clone della musica e quest’ultima non è semplice tappeto o colonna sonora della danza. Due anime che si intrecciano in una tessitura contrappuntistica di eccezionale maestria.

A love supreme di Anne Teresa De Keersmaker è anche un inno alla libertà, quella che si può trovare solo nella struttura. Libertà che necessita dell’assorbimento della regola e della costrizione tanto da padroneggiarla nella variazione e trovare la via di fuga. Un non essere soggetti alla regola e alla struttura perché si è diventati regola ed eccezione insieme. Padroni del linguaggio si crea linguaggio a propria volta, liberi di esplorare le possibilità e le variazioni perché si conosce alla perfezione lo spazio di azione, i confini dell’universo che si abita.

Questo essere tecnica per andare al di là della tecnica, che le nuove generazioni spesso dimenticano e tralasciano, è percorso lunghissimo, fatto di studio matto e disperatissimo, di fatica immensa che sparisce nel risultato che fa apparire l’opera semplice e fatta quasi senza pensarvi. E accordandomi a Baldassarre Castiglione, da questo cred’io che derivi la grazia.

Stalker Teatro

STALKER TEATRO: Onirico, il fiume dell’oblio

Onirico, il fiume dell’oblio è un progetto di Stalker Teatro realizzato nell’ambito del Festival LiberAzioni e che va in scena all’interno della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno fino al 15 dicembre prossimo.

Il teatro carcere ormai da molti anni è una realtà italiana che ha prodotto risultati anche di altissimo livello se pensiamo al Marat/Sade e la Gatta Cenerentola di Armando Punzo, ma che non si limita a quanto di buono ha fatto la compagnia di Volterra (pensiamo al Tam Teatromusica di Padova per esempio, e con lui molti altri). Teatro di confine, teatro fuori dal teatro, dove la vita stessa si fa dramma, vive anche sul limine tra retorica buonista e necessità di affermazione e riscatto. La condizione carceraria italiana è da molti anni drammatica, realtà da sempre dimenticata perché in fondo “se la sono cercata” ma che è specchio di una società che alza il tono del conflitto sociale anziché risolvere ciò che agita la comunità.

I detenuti sono dimenticati, rimossi, simbolo spesso di un male le cui cause sono negli alti uffici del potere economico, libero e indisturbato di creare danni sociali incalcolabili e di distruggere interi contesti sociali nel lucore sinistro ammantato di rispettabilità. Certo vi è sempre la libera scelta, non è che tutto sia determinato dai contesti, ma certo è che spesso il reato è frutto di povertà.

Ecco dunque il presupposto per la riflessione in azione di Stalker Teatro. Il Lete, mitico fiume che compare nel decimo libro de La Repubblica di Platone nel mito di Er, dona l’oblio alle anime pronte, dopo aver scelto il proprio destino, a reincarnarsi in una nuova vita. Gli Orfici raccomandavano di non berne troppa per poter ricordare. Chi beveva avidamente dimenticava completamente il suo passato.

Da questo presupposto Gabriele Boccaccini parte per costruire un evento che coinvolge un gruppo di detenute insieme ai performer di Stalker Teatro. I detenuti tutti sono obliati dal momento che varcano le porte del carcere. Nascosti alla vista del mondo attendono il momento in cui possono reinserirsi nel fiume della vita.

All’interno di questa azione che simula il fluire di un immenso fiume si gioca l’abbraccio tra i due opposti, tra Lete e Mnemosine, oblio e ricordo. L’affermazione dell’identità di questi scomparsi della società avviene nella lotta contro il muro dell’oblio che li tiene segregati. Le parole delle detenute, le loro azioni, sono volte al recupero del ricordo tanto quanto all’oblio di ciò che è stato fatto.

Memoria e oblio stretti in un abbraccio che è lotta, un pugnace avvinghiarsi per non scomparire, un feroce abbraccio per dimenticare che è di ogni avventura umana. Il baratro della scomparsa dalla memoria legato alla dolce tentazione di tutto dimenticare, ecco il pendolo fatale di ogni esistenza che si fa più struggente per chi è racchiuso tra quattro mura separare dal contesto della società.

L’azione di Stalker teatro, azione sempre comunitaria, di gruppo, dove l’assolo difficilmente compare, è atto politico di abbraccio al contesto sociale in cui il teatro si trova a vivere. Che siano gli abitanti de Le Vallette, un gruppo di rifugiati, o le detenute della Casa Circondariale Lorusso e Cotugno, Stalker Teatro agisce il suo corpo teatrale all’interno e in sincronia con quello sociale. Un teatro quindi necessario, che cerca l’incontro, la prossimità, la vicinanza. Valori alti che fanno il teatro vivo al di là di quel poco di retorica che sempre accompagna queste operazioni.

Solocoreografico

SOLOCOREOGRAFICO: che fine ha fatto il mondo?

Domenica 26 novembre alle Lavanderie a Vapore si è concluso Solocoreografico, manifestazione guidata dal coreografo Raffaele Irace e giunta alla sua IV edizione.

Dieci giovani autori, italiani e stranieri, vincitori di un bando lanciato da Solocoregrafico, hanno presentato i loro assoli alla giuria e al pubblico e i premi sono stati assegnati. Per dovere di cronaca i vincitori di questa edizione sono: per la la danza Silent Bell di Max Levy, per la coreografia Kokoro di Luna Cenere, premio del pubblico Waragh di Masami Fukushima.

Vincono premi collaterali anche Lost in a throught di Sasha Riva e Nervure di Liliana Barros e Zement di Jill Crovisier. In testa e in coda alla serata due soli di compagnie ospiti La legende de Mesrop di Michel Hallet Eghayan e I killed Adam in eight counts di Emanuele Rosa vincitore di Principi Attivi.

Dopo la cronaca, in cui spero di non aver sbagliato nulla vista la pioggia di premi e menzioni (e mi chiedo che senso abbia un premio in cui tutti più o meno vincono qualcosa), è il momento di fare alcune riflessioni che mi sembrano doverose.

Partiamo dai lavori. Dieci giovani coreografi e danzatori che hanno presentato i loro pezzi a giuria e pubblico, dieci soli più due ospiti e in nessun caso si è visto uno spiraglio su un mondo esterno quale esso sia. Per la maggior parte si è assistito a una forma di self-espression e nulla più. Molti diranno: ma è pur questo l’arte: esprimersi e comunicare. No. O, meglio, non esclusivamente. Vi è sempre un moto di espressione di sé ma quando questo assorbe ogni cosa e non si apre al mondo, non entra in comunicazione con qualcosa che è dentro di sé ma anche altrove, il tutto si insterilisce in un atto masturbatorio.

I lavori presentati erano più preoccupati dell’estetica che di raccontare qualcosa che risuonasse anche nell’intimo del pubblico in sala. E questa preoccupazione estetica mi lascia molto perplesso. E anche qui qualcuno dirà: ma come neanche la bellezza in arte ti soddisfa? Risponderei che nei tempi dell’estetica diffusa l’arte è sfuggita da tempo al bello, e cerca la sua efficacia con ogni mezzo possibile, sia esso il kitsch, il brutto, l’orribile, il disturbante, l’inquietante.

L’arte come bello non esiste più da molto tempo, perché del bello se n’è appropriato il mercato, l’industria, il design, la pubblicità, l’intera società dello spettacolo. L’arte se serve ancora a qualcosa è nel dare uno sguardo sul mondo in maniera diversa, profonda, tagliente, e che più che emozioni generi pensieri, più che oggetti da ammirare generi processi di conoscenza.

L’arte che si ammira da lontano è un lusso di civiltà pasciute e soddisfatte. Il mondo è altro e richiede forme di espressione che siano incisive, fondanti, necessarie. Se il pubblico si allontana dalle sale è perché i lavori che vengono presentati non parlano, restano chiusi in sé, non stimolano a un intervento nella realtà quotidiana di ciascuno, non invitano a pensieri diversi su di sé, sulla società, sul mondo.

Questa involuzione estetica e oggettuale presentata a Solocoreografico è frutto sì di una scelta di una direzione artistica, ma preoccupa che così tanti giovani preparino e presentino lavori che, per quanto ben eseguiti, non contengano quasi nessuna apertura verso il mondo reale e vissuto.

Certo non voglio generalizzare, parlo esclusivamente di quanto visto ieri sera, e per questo mi chiedo: cosa voleva dirci con questa selezione la direzione artistica? Perché presentarci lavori così deboli e chiusi in se stessi? Perché non presentare nessun processo aperto a un pubblico, ma solo oggetti da ammirare a distanza (mi raccomando: non parlo di interazione, parlo di qualcosa che circoli tra sala e palco)?

Questo tipo di arte, sia essa danza, teatro, performance, non è più necessaria. Non tocca la vita di nessuno, non scuote, non modifica né incrementa la nostra percezione del mondo e delle vite che stiamo vivendo, non è scossa da nessuna visione.

Il mondo intorno a noi invece freme, si agita, è scosso e la società che lo abita ha bisogno di un’arte che risponda a queste forze telluriche, vi dia forma e figura. Un oggettino estetico da ammirare come un soprammobile non serve più a nessuno, è un passatempo demodé e francamente superato.

Solocoreografico mostra una scena demotivata e stanca, scissa dalla politica e dall’impegno, che si sollazza con qualcosa di inerte, facendo finta che tutto vada bene, e invece di ricordarci, come chiedeva a gran voce Artaud, di ricordarci che il cielo può caderci in testa in ogni momento, si limita a esprimere problemucci esistenziali di poco conto che non urtano nessuno.

Questo purtroppo non è limitato a Solocoreografico. Si riscontra anche in altri contesti. Come ho già detto altrove si baratta sempre più spesso il gran teatro del mondo con il boschetto della mia fantasia, come se a qualcuno fregasse qualcosa cosa pensa l’artista su questo o quell’argomento. Quello che si cerca andando a teatro è qualcosa che risuoni dentro e fuori di noi, che ci sia comunicazione tra scena, pubblico, società. Non frega niente a nessuno dei patemi dei singoli rispetto a problemi esistenziali di poco conto.

Ancora una volta non è solo un problema degli artisti ma delle direzioni che presentano cartelloni improntati, come questo di Solocoreografico, a una confortante, seppur perdente, immagine di un’arte estetica e senza problemi, incisiva come un fiocco di neve. La fuga del pubblico dai teatri ha una ragione ben precisa: non ne sente la necessità. Bisogna ritornare tutti a porsi delle domande fondamentali: quale la funzione del teatro e della danza? Che immagine del mondo si vuole costruire con l’azione artistica? Perché questa modalità di espressione, quale la sua necessità?

Se non torniamo a porci queste domande nessuno si sorprenda di sale sempre più deserte.

Virgilio Sieni

DI FRONTE AGLI OCCHI DEGLI ALTRI di Virgilio Sieni

Ieri sera al Teatro della Faraggiana di Novara è andato in scena Di fronte agli occhi degli altri di Virgilio Sieni. Nato nel 2012 questo spettacolo giocato sull’incontro tra il coreografo e alcune particolari comunità (terremotati del Belice, vittime di stragi terroristiche, ex partigiani, persone affette da fragilità mentali o fisiche) ha già una storia performativa e critica importante, ragion per cui, più che fare una recensione, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti che mi hanno generato delle riflessioni in seguito a questa esperienza novarese.

Di fronte agli occhi degli altri non è uno spettacolo tradizionale. Virgilio Sieni non ha preparato una coreografia da eseguirsi di fronte al pubblico con questi particolari danzatori (la comunità in oggetto era Oltre le quinte che si occupa di laboratori artistici con persone affette da varie disabilità); il percorso proposto è più simile a una session di improvvisazione. Ciò che conta è l’incontro tra la comunità e il coreografo nel momento della danza.

I corpi con le loro differenze, le loro fragilità, le chiusure, le rigidità e flessibilità. Il corpo parlante che si frequenta e si conosce attraverso la danza. Vi è una calma dolcezza in quest’incontro. Una delicatezza che tocca inesorabilmente. Non sempre un contatto avviene, a volte la danza del “maestro” si mangia quella dei suoi partner. Quando si manifesta il contatto si sprigiona una scintilla luminosa che irradia e illumina il momento dell’incontro.

Questa particolare modalità performativa, senza schemi, frutto di una imprevedibile interazione, alla ricerca di un delicato contatto tra corpi, necessitava di un luogo molto più accogliente, che permettesse al pubblico di essere in qualche modo partecipe e non lontano e passivo testimone. Parlo di un raccoglimento, di una sorta di abbraccio tra l’occhio che guarda e ciò che avviene nello spazio. Una sala diversa da un teatro classico dove la platea fronteggia una scena distante ed elevata su un palco tradizionale. Il luogo è il fondamento dell’agire, è il contenitore dell’evento, dell’agire/patire che lo frequenta. Se lo spazio è sbagliato quando vi accade, nonostante la sua qualità, risulta in qualche modo, raggelato, imbrigliato, impedito.

Vi è in certi contesti e riguardo a certi progetti, una necessità viscerale di cercare un luogo adatto. E un teatro, per quanto si parli di scena, danzata o recitata che sia, a volte può dimostrarsi più un ostacolo che un vantaggio.

Prima dello spettacolo, Virgilio Sieni ha tenuto un laboratorio con la comunità che avrebbe incontrato sulla scena. Ho avuto il privilegio di poter osservare questi lavori preparatori. Virgilio Sieni per quasi tre ore ha lavorato con raffinata delicatezza con la comunità formata da disabili, operatori e danzatori conducendoli attraverso svariati esercizi verso alcune possibili modalità di incontro corporeo. Accoglienza e rilascio, prossimità e allontanamento, condurre e farsi condurre.

Con poche semplici parole e l’esempio Virgilio Sieni ha proposto con ritmo serrato esercizi su esercizi sperimentando diverse modalità dalla voce che accompagna il movimento alle improvvisazioni comuni, passando attraverso semplici frasi coreografiche che via via si complicavano. Ha fornito una serie di possibili ganci o appigli su cui la comunità poteva sorreggersi nello sperimentare il contatto con lui sulla scena. Devo dire di essere rimasto impressionato dalla lieve e delicata maestria di questo insegnamento corporeo che non imponeva ma suggeriva. Senza verbose spiegazioni e solo con l’esempio e poche necessarie indicazioni per correggere la rotta, si è stabilito un contatto che si è poi ritrovato sulla scena nella performance vera e propria. Una modalità di insegnamento antica che conserva tutta la sua forza e vitalità e che non andrebbe abbandonata alla leggera. Il corpo ha una sua lingua che non è quella della parola. Oggi talvolta con troppa leggerezza ci se ne dimentica.

Non voglio dire con questo che la riflessione a parole non sia necessaria. Tutt’altro. Dico che nell’agire scenico a parlare dovrebbe essere il contatto diretto allievo/maestro tramite il corpo e la sua azione e non attraverso un tutoraggio verbale e distante su cui molti progetti di formazione ormai si basano.

Un’ultima considerazione. Di fronte agli occhi degli altri è, come detto, un’improvvisazione che cerca il contatto tra il corpo del coreografo Virgilio Sieni con le comunità che via via incontra. La sua presenza è necessaria ma comunque in qualche modo invadente. In molti istanti appare come il burattinaio che muove i fili dei danzatori. In un istante pare avvenire qualcosa di diverso, due ragazze restano sole in scena, forse qualcosa può emergere seppur con grande difficoltà, ma poi Virgilio Sieni ci ripensa e riprende in mano la conduzione. Probabilmente l’impulso è stato di sostenere una difficoltà, però devo ammettere di aver sentito sorgere in me il dubbio di essermi trovato di fronte a un’occasione mancata. Forse un vero dialogo poteva nascere invece di una conversazione guidata dal solo Virgilio a cui i ragazzi via via rispondevano. Forse poteva nascere una domanda dall’altra parte a cui Sieni avrebbe dovuto trovare una sua risposta differente, cambiare piani e modalità.

Di fronte agli occhi degli altri emana il profondo neoumanesimo di Virgilio Sieni. L’amore per il corpo e per l’umano. Lo si sperimenta in maniera evidente nel laboratorio che precede e meno, a causa del luogo, nella performance vera e propria. Ma esiste ed è il fondamento di questo lavoro, come di molti altri che Virgilio Sieni affronta in questi ultimi anni. La fragilità dell’umano che si esprime con il corpo.

Una friabilità che non è solo di alcune persone, è di tutti. Siamo sempre più impreparati ad affrontare la difficoltà, la crisi, la critica, totalmente abbracciati come siamo dalla civiltà. Eppure la fragilità di fronte a ciò che ci sovrasta è anche la piattaforma che ci fornisce gli strumenti per affrontare ciò che è più grande di noi. Se la mettessimo più in evidenza, se costruissimo una società basata sulla manchevolezza piuttosto che su un’illusoria idea di onnipotenza, forse saremmo tutti più umani e comprensivi verso ciò che come noi è manchevole e assolutamente lontano dalla perfezione.

Deflorian-Tagliarini

IL CIELO NON E’ UN FONDALE: Deflorian-Tagliarini

È palese, ci stanno aspettando. Con un’aria anche un po’ annoiata, si direbbe. Quasi. Parlottano fra loro, non fingono neanche di ignorarci, anzi. Ci guardano. Di sicuro Deflorian-Tagliarini ci considerano molto di più di quanto non facciamo noi pubblico, tutti occupati a terminare le ultime chiacchiere e gli ultimi aggiustamenti sulla poltrona, intenti a riconoscerci l’un l’altro in quel senso di felice e provvisorio spirito di comunità che è il ritrovarsi insieme in teatro. Questo poi, giusto per l’occasione, ci si presenta “tagliato”: la sala de Berardinis dell’Arena del Sole di Bologna stavolta è priva di tutta la sua abituale e imponente profondità, le si nega il privilegio dell’altezza delle balconate. Un fondale nero isola la platea e le regala una deliziosa intimità da piccolo teatro. Democraticamente, ci ritroviamo tutti a guardare dalla stessa prospettiva.

“Ad un certo punto vi chiederemo di chiudere gli occhi. Potete farlo?”

Bugia. È chiaro, la prospettiva migliore per guardare ce la stanno suggerendo loro. Con semplicità, l’invito non è di guardare verso di loro. Con la sorridente disinvoltura che caratterizza lo stare scenico di Deflorian-Tagliarini, di guardare con loro. Di osservare un po’ insieme. È un invito a entrare.

Il cielo non è un fondale, spettacolo candidato per quattro delle categorie del premio Ubu di quest’anno e su cui esiste già tanta entusiastica critica, è un piccolo elegante tranello, ed è bene dirlo: si sconsiglia vivamente di consultare sinossi, nonché di continuare ad nutrire fiducia e aspettative verso la trama, quella canonica con un inizio e una fine. Quella che dà sicurezza, ma che presenta un limite, è lineare. Qui invece si procede per saltelli.

Propongo una parafrasi: hai presente (invece) le certezze dei rumori della città?

Deflorian-Tagliarini, che qui sulla scena vantano la collaborazione di Francesco Alberici e della limpida e virtuosa vocalità di Monica Demuru, hanno abituato già fin troppo bene il pubblico a un peculiare modo, disinvolto e familiare, caloroso, di abitare lo spazio del teatro per riempirlo di uno sguardo profondamente e affettivamente complice, riguardoso nei confronti delle piccole cose e dei piccoli fenomeni quotidiani – solo pochi giorni fa la compagnia presentava la performance Cose all’interno della stagione Agorà dell’Unione Reno Galliera, un’altra perla di notevole naturalezza performativa – che si presentano all’osservatore in quiete.

È in questa calma senza climax che la compagnia riesce a trovare e a far vivere il respiro che le è proprio, quello che lega con levità il testo al suo contesto, lo sguardo alla parola libera. Leggera e sempre plurale. Il cielo non è un fondale rispetta tutti quelli che sono già i punti forti di un teatro che vive di poco e di essenzialità, e lo fa sotto un imperativo di profonda eleganza e pulizia scenica, che non viene mai meno. Il tranello cui si accennava risponde a un’architettura ben precisa.

Giusto per continuare sulla scia del “è bene dirselo”, infatti, è davvero arduo se non impossibile riflettere su uno spettacolo del genere senza incappare nello stesso sgambetto che Daria Deflorian ci racconta così bene su questa scena che ha fondale ma non quinte, e si dilata come le narrazioni dei quattro sulla scena, illuminata da due file di fari perpendicolari alla sua ampiezza: quello di un quotidiano dire, dire, continuare a dire e a “esistere nel dire”, nella logica di un “io obeso” gonfio di considerazioni che, vedi, io parlo e la musica non la sento più, ma che peccato!, finiscono non solo per non corrispondere più a nulla, né dentro né fuori, ma per mettere in ombra la mappa più generale di una città da “guardare come in un film”. Di uno sfondo, quale che sia, che non è mai accessorio.

Gli aneddoti e le musiche che ci vengono proposti uno dietro l’altro, e talvolta uno sopra l’altro, ne Il cielo non è un fondale – una selezione che varia dai classici Mina e Lucio Dalla per chiamare accanto a sé anche i Nine Inch Nails filtrati da Johnny Cash e il contemporaneo Giovanni Truppi, ma nella categoria ci finisce anche quello speciale “intorno” i cui rumori sono riprodotti magistralmente da Monica Demuru – potrebbero anche essere riconsiderati nella loro singolarità specifica, e costituirebbero una ricchezza di spunti potenzialmente inesauribile per lo spettatore: si finirebbe così per abbracciare questioni complesse, che hanno a che fare tanto con le interazioni porose di livelli interni ed esterni quanto sulla solitudine profonda dell’osservatore, sulla difficoltà della relazione nel mondo sociale (e per questo ci si lasci cullare dal punto di vista così serenamente concreto del giovane Francesco Alberici), sullo scollamento constante e la volontà di sintesi univoca sempre disattesa… Un intricato complesso di Tanto, tanto di tutto, troppo di tanto, e tutto troppo chiacchierone – specie se ci si mette l’io, l’altro, la strada, il venditore di rose, il paninaro notturno (e a lui sì, si può chiedere di riempirci la pancia con “tutto”, di metterci “tutto” in quel panino).

“Che al mondo non puoi sfuggire. Ma ho nostalgia delle cose impossibili”. O anche di quelle semplicemente quotidiane. Il tappeto, il termosifone.

Lo squarcio di cielo che ci propone la compagnia Deflorian-Tagliarini finisce per funzionare così anche come una mappa. Propone percorsi. Discontinui, sicuramente. Una mappa di geografie immaginarie, che per orientare porta a perdersi. E passa per la strada e per il supermercato, da un seminterrato qualsiasi dove si finisce per sbaglio a un parco qualsiasi dove si va volontariamente. Dalla volontà di tirarsi indietro a quella che ci espone drammaticamente all’esterno. Un milione di partenze e nessun arrivo, tanto, come recita la canzone La domenica, che cosa cambia?

Se il tutto è maggiore della somma delle sue parti (cosa vera sempre fino a un certo punto, soprattutto in questo caso), ciò che salta all’occhio con Il cielo non è un fondale è una meravigliosa armonia nella composizione, l’equivalenza intensiva delle parti. In egual misura necessarie, in egual misura collettive.

E non può non colpire anche l’elegante scienza con la quale gli interpreti condividono lo spazio scenico: che se pure la disposizione prende in alcuni punti ispirazione da una famosa fotografia scattata da Jack London nell’East End di Londra, è ugualmente vero che il modo in cui a tratti ci vengono proposte le spalle, o vengono sfruttati i temporanei momenti di buio con cui eravamo stati accolti per operare piccole sostituzioni, il risultato finale è esattamente quello di una compartecipazione profonda. Non ci si permette mai di sentirci altro o altrove da un proprio lì, proprio con loro. E questo grazie a una impeccabile naturalezza del gesto minimo.

L’ironia brillante, agrodolce e scanzonata che è connaturata a tutto il lavoro di Deflorian-Tagliarini (sempre di una dolcezza quasi infantile) gioca in questo un ruolo essenziale: se su di un fondale nero che si allarga e si restringe possono aprirsi varchi su una varietà inesauribile di panorami diversi, è anche vero che non si cade mai. A un passo dal baratro, dalla caduta, la compagnia ci invita a fermarci e ci riprende con un sorriso, con una variazione e con uno scarto. Più o meno. Perché a volte, la scelta è proprio quella di cadere, di toccare terra. Ma con la stessa grazia, riescono sempre a cambiare il punto di vista. Osservano l’abisso senza poterci sprofondare. Tanto nella vita è così, rimetti un chiodino, a un certo punto non occorre neanche sostituirsi, ci sarà qualcuno magari a interrompere la caduta, o magari a improvvisare un abbraccio che porti a qualche centimetro da terra come in un vecchio musical (e il punto in particolare è di una dolcezza e levità tale da non riuscirsi a dire).

Ogni elemosina, ci dicono, va fatta “con giuste mani” (di nuovo rubiamo direttamente l’immagine che lo spettacolo ci propone, rifiutando la sovrainterpretazione). Con Il cielo non è un fondale la compagnia Deflorian/Tagliarini non ha nessuna morale da venderci, nessuna rosa o enciclopedia porta a porta. Eppure con la mano tesa e aperta qualche buona suggestione ce la lascia: ma di fronte all’ultima definitiva sostituzione, con un termosifone sul quale ci si può sdraiare, e a cui se ne aggiungono altri liberati dalla cortina nera che li nascondeva, può forse valere una parola più di un eloquentemente muto sorriso, e di uno sguardo partecipe?

Forse vale più una domanda, a questo punto, e fatta direttamente ad Antonio Tagliarini. Continuando ad avere Città vuota di Mina nelle orecchie mi chiedo: ma com’è finita poi la storia della pietra lanciata dal cavalcavia?

di Maria D’Ugo

photo-©-Valerie-Jouve

Collettivo Controcanto

CONCENTRICA: SEMPRE DOMENICA di Collettivo Controcanto

Non vi è niente di più complesso della semplicità. Sei attori su sei sedie. Seduti lì per quasi due ore a intrecciare storie di vita, che potremmo aver vissuto anche noi, potrebbero esser nostre, e niente altro. Questo è Sempre domenica del giovane Collettivo Controcanto in scena al teatro della Caduta di Torino nell’ambito della rassegna Concentrica.

Il lavoro nobilita. Pure la nostra malconcia repubblica è fondata sul lavoro. Questo ci è stato insegnato e in questo tutti noi crediamo. E se fosse invece un’assoluta annichilente schiavitù, dove ciò che veramente è importante deve esser sacrificato nel nome di questa illusoria nobiltà? E perché mai la parola d’ordine delle nostre vite deve essere indiscutibilmente: sacrificio? Questo continuo dover inghiottir rospi in lavori che in fondo non portano altro alla nostra vita se non una busta paga e un quanto mai precario sogno di pensione, non scortica senza speranza ogni fibra delle nostre anime fino a ridurci a larve vuote che non sanno più nemmeno cosa veramente ci appartenga e sia veramente nostro?

Sono interrogativi fortissimi che risuonano nell’intrecciarsi delle storie che i sei attori evocano seduti sulle loro sedie. Il corriere che vorrebbe aprire un Bad&Breakfast; il concierge che deve mantenere la figlia nata da un rapporto occasionale; la segretaria che vive una relazione anonima e stantia e cade nel più trito dei cliché andando a letto con il capo; il meccanico che vede fallire il suo sogno di impresa prima ancora che incominci; i quattro amici costretti a far solo un week end di vacanze insieme a Sabaudia perché non riescono a far collimare le ferie.

Piccoli drammi quotidiani vissuti per portare lo stipendio a casa, sopravvivere un altro giorno al gioco della vita le cui regole sono state stabilite altrove. Persino le ribellioni, quando nascono, si sgonfiano prima ancora di esplodere perché c’è il mutuo da pagare e un lavoro è sempre un lavoro.

Vi è molta rassegnazione e sconfitta in questo Sempre domenica del Collettivo Controcanto, ma anche ironia tagliente come un bisturi che incide la piaga. Dal bubbone purulento emergono i liquidi infetti e inizia la guarigione. Forse. Perché il quadro che si delinea di quest’Italia è quanto mai misero e sconfortevole.

Un’umanità stanca, affranta, incapace di alzar gli occhi da terra quella che emerge da Sempre Domenica del Collettivo Controcanto. Nella semplicità dei racconti intessuti uno nell’altro si delinea una società italiana sempre più demotivata a cui non resta che riderci sopra, far finta di niente e tirare avanti un altro giorno e nulla più. Sono spariti i sogni, gli ideali, le rivoluzioni. Resta il lavoro che tutto assorbe, tutto ammorba.

La drammaturgia di Sempre Domenica emerge collettivamente dal lavoro del Collettivo Controcanto guidato dalla regista Clara Sancricca, ben sostenuta dai bravi attori Federico Ciaciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero. I personaggi sfumano uno nell’altro grazie a un ritmo serrato e ben congegnato. Gli attori che non animano le persone evocate si sgonfiano come burattini senza fili, immobili, lo sguardo perso a far da controcanto alla vitalità di quelli che sorgono al posto loro. Tutti insieme sospinti da una forza che è altrove e li manovra e ne determina i destini.

Semplicità che nasconde grande lavoro di drammaturgia e di interpretazione. Bravi gli attori a tener vivi i loro personaggi con niente altro a loro disposizione che il corpo e la voce, solamente seduti su una sedia. Niente musica, niente giochi di luce, niente scene o costumi. Solo l’antica arte dell’attore a dimostrare una volta di più che quando il teatro è supportato da buone idee, una visione del mondo e ricerca efficace sa dare il meglio di sé senza il bisogno di effetti mirabolanti.

E ancor più importante è l’aria che circola tra il palco e la sala. Spesso quanto avviene sulla scena resta qualcosa di avulso dalle vite degli spettatori. In Sempre domenica del Collettivo Controcanto vi è una condivisione, un rispecchiamento. Le domande poste dalla scena ci colpiscono perché sono le nostre, le ansie di fuga e di riscatto sono comuni, perfino le sconfitte, la rassegnazione, l’abbandono della lotta.

Ersilia Lombardo

CONCENTRICA: INCUBO di Ersilia Lombardo

Raccontare questo Incubo di Ersilia Lombardo diventa difficile senza macchiarsi di un dei più gravi peccati di questi giorni: lo spoileraggio! Quindi non resta che giocare a Tabù e, senza nominare le parole proibite, cercare di fare qualche riflessione.

Quentin Tarantino dice che raccontare una storia è innanzitutto spiazzare lo spettatore, far sì che non si aspetti mai il passo successivo del racconto. Quando dopo dieci o quindici minuti capisci già dove si va a parare significa che non l’hai raccontata bene. Incubo di Ersilia Lombardo non possiede questo difetto. L’intreccio è abbastanza ben costruito da avvincere lo spettatore e costringerlo a chiedersi come andrà a finire.

Chi è questa donna che farnetica numeri a casaccio? Perché è finita in questa stanza dove sono presenti solo quaderni e un telefono? Chi è la signora Ende? Il mistero, se in un primo tempo si infittisce, piano piano finisce per diradarsi e la protagonista si domanda: non era meglio non sapere?

Una sola attrice – la brava Chiara Muscato -, e pochi elementi scenici per tessere la trama che si svolge davanti all’occhio dello spettatore. Una semplicità francescana che demanda il compito di tenere in piedi l’edificio narrativo tutto all’antica arte dell’attore, missione che Chiara Muscato assolve pienamente.

Troppe volte si vedono sulle scene attori impreparati, carenti di tecnica di base, oppure intrisi di una recitazione affettata e tradizionale. In Incubo di Ersilia Lombardo grazie alla recitazione viva e brillante di Chiara Muscato si scongiura questo pericolo.

Il ritmo della narrazione ogni tanto si addormenta, rallenta fino a quasi fermarsi, ma immediatamente si riprende conducendo senza troppa fatica la nave in porto. L’uso delle luci è puntuale, segno nella narrazione e non semplice corredo d’atmosfera.

Nessun difetto particolarmente evidente nella confezione di questo spettacolo gradevole e di una giusta pezzatura temporale, eppure nonostante questo mi nasce spontanea una riflessione. Quale la finzione di questa piéce? Mi verrebbe da rispondere semplice intrattenimento. Nessuna particolare urgenza da condividere con il pubblico, nessuna questione politica o sociale, solo il gusto di raccontare una storia.

Questo almeno è quello che sembra a me.

Guardate che non è un cercare un difetto ad ogni costo. Raccontare, condividere storie è una delle funzioni che il teatro ha esplicitato nella sua millenaria storia, per cui niente da dire. Il soggetto se l’avessimo visto in un film americano non ci saremmo mica stupiti. Saw inizia proprio allo stesso modo. La modalità di apparizione degli indizi che lentamente acquisiscono senso in un disegno, la vediamo agire in molte delle serie che più appassionano, e nonostante qualche calo di ritmo in Incubo la tensione rimane alta fino alla conclusione.

Rimane la sensazione che manchi qualcosa, che lo spettacolo dal vivo necessiti di una visione del mondo a corredo. Trovarsi in un qui e ora, in un luogo deputato e condividere un evento è qualcosa di più che raccontare una semplice storia: è costruire pensiero in immagine, e questa immagine ognuno se la porta a casa e la adatta a sé, alla sua vita, alla sua personale visione della realtà. Ma ripeto è una mia sensazione che svolgo in forma di riflessione aperta, quasi una domanda che ultimamente mi trovo a pormi sempre più spesso: quali sono le funzioni delle performing arts o live arts nel contesto socio-culturale in cui ci troviamo ad agire? Raccontare storie può avere ancora quel ruolo che aveva in passato? Cinema e serie TV non lo fanno meglio e in maniera più completa?

Non ho una risposta a queste domande, benché per la mia storia personale sia portato a credere che se una funzione il teatro la debba proprio avere dovrebbe essere quella contenuta nell’etimo delle origini: il luogo da cui si guarda il mondo. In Incubo di Ersilia Lombardo, benché lo abbia gustato e apprezzato, mi manca il mondo, l’apertura verso un orizzonte di pensiero sulla realtà.