Falstaff è la prima parola del libretto. Il protagonista è da subito presente e immediatamente evocato come una divinità. Assiso sul suo scranno da osteria come re Lear sul trono, Falstaff e il suo pancione signoreggiano sulla scena.
Come accade spesso nelle opere di Verdi si è precipitati nell’azione e vi si rimane avvinti fino all’ultima nota. Nell’ultimo suo capolavoro operistico Verdi, insieme a Boito, concepisce un vero gioiello di teatro musicale: azione serratissima colma di colpi di scena, agnizioni, scene madri, inganni, trappole e tradimenti; ma anche sapiente miscuglio di toni drammatici se non tragici che danno profondità e consistenza all’intreccio.
Falstaff è il motore, lo spirito della vita che irrompe con tutte le sue arguzie e appetiti, un moderno Dioniso che scuote e rapisce. Circondato da due satiri traditori come Pistola e Bardolfo, il cavaliere panciuto giudica e mette in moto gli eventi: due lettere identiche se non per il nome della destinataria, per un identico amore per la vita e le sue gioie.
Da questo moto arbitrario come la richiesta assurda di Re Lear si scatena l’azione a cui tutti i personaggi devono prendere parte, dimostrando il meglio e il peggio di se stessi, mascherandosi e rivelandosi continuamente. Alla fine quando Falstaff gabbato e giocato, viene giudicato e costretto a pentirsi, si comprende il suo ruolo dalle sue stesse parole: Ogni sorta di gente dozzinale/mi beffa e se ne gloria;/pur, senza me costor con tanta boria/non avrebbero un bricciolo di sale./ Son io, son io, son io, che vi fa scaltri,/ L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri.
Non dunque un vecchio crapulone e burlone, ma il nume tutelare che presiede alla vita che ribolle e che combatte le forze che vogliono a tutti i costi irregimentarla, costringerla, educarla. I veri gabbati sono infatti Mr. Ford e il Dottor Cajus, il geloso che non comprende la grandezza della donna che ha sposato e il vecchio barboso e rigidone che vorrebbe sposarsi la bella figlia di Ford innamorata di Fenton. Ed è quindi di Falstaff l’ultima risata, quando vede Ford che sposa suo malgrado Fenton e Nannetta travestiti, e il Dottor Cajus che si trova a essere sposato con Bardolfo.
Nel Falstaff di Verdi/Boito cosi come nel modello shakespiriano de Le allegre comari di Windsor, la parte del leone la fanno senza dubbio le donne capeggiate da Alice. Sono non solo più sveglie e intraprendenti, ma mettono in campo la natura migliore e più forte. Se gli uomini sono traditori, deboli, gelosi, vendicativi le donne si ingegnano per punirli e gabbarli, rivendicando il loro diritto alla felicità e libertà.
In Falstaff sono toccanti anche i toni oscuri, presenti in tutto l’intreccio. La violenza nei rapporti umani, l’incombere di decisioni che possono bloccare gli afflati più vividi della propria natura, la vecchiaia e il declino, i rintocchi di campana della morte. Soffia un’aria di precarietà e di sogno. Tutto può sfumare da un momento all’altro per lasciare la scena vuota priva di movimento e di vita. Falstaff e il suo pancione sono lì per rinnovare il fuoco, per attizzarlo affinché non perda il moto.
Teatro musicale si diceva in esordio, di cui Verdi è un maestro indiscusso. L’azione, l’intreccio e il ritmo sono tutto nell’impresa di far rivivere le sue opere sulla scena. Aldilà di ogni scelta interpretativa, oltre i gusti personali e i pensieri di ogni regista quella che deve esser valorizzata è l’incredibile capacità verdiana di abitare la battaglia, per dirla alla Carmelo Bene. Non se ne può uscire, bisogna risponder colpo su colpo, tenere il ritmo fino alla fine a costo di perdere il fiato.
Le scelte registiche di fermare l’opera per esigenze scenografiche falliscono in questo. Laddove Verdi si precipita incalzando lo spettatore, si blocca l’incedere fallendo il passo, sospendendo il pathos. Apprezzabile l’idea di Daniele Abbado, in questo allestimento in scena al Teatro Regio di Torino fino al 26 novembre, di recuperare gli strumenti spettacolari del teatro: le botole, le sorprese, i macchinari ma avrebbe dovuto metterle al servizio dell’azione più che della visione.
Purtroppo accade spesso che l’azione scenica sia sacrificata sull’altare della musica e delle esigenze liriche, e si dimentica che il teatro d’opera è prima di tutto teatro. Le due cose vanno di pari passo.
Come insegnava Mejerchol’d nelle sue lezioni del 1918, se per montare le scene l’opera ne risente abbiamo sbagliato qualcosa. E allora anziché ricreare ambienti basterebbe qualcosa di più semplice ma al servizio del ritmo. E fatalità il grande regista russo proprio a Shakespeare si riferiva criticando l’azione dei Meininger che per ricostruire minuziosamente una scena tagliuzzavano i testi e rallentavano l’azione per dar tempo ai macchinisti di montare la scena. Mejerchol’d ricordava che il Bardo concepì i suoi capolavori conoscendo perfettamente le modalità espressive del teatro nelle O di legno, e che alla semplicità apparente di quel teatro si deve tanta meraviglia.
Con Verdi potremmo dir la stessa cosa. Il ritmo, l’azione, i tempi ce li detta già la musica, a noi non resta che abitare la battaglia e dargli spazio e luce.
Con questo non voglio certo dire di aver assistito a un allestimento fallace, quanto esprimere una riflessione e un invito. L’idea era buona ma si poteva fare di più, lasciar esprimere il teatro nella sua potenza, mettersi al suo servizio più che imporre un ambiente macchinoso che ne blocchi il suo naturale sviluppo. E non parlo di aderenza al testo, e nemmeno di scelte di rappresentazione e interpretazione, quanto di composizione del movimento sulla scena. Avrei detto la stessa cosa se questo Falstaff fosse stato ambientato in un’odierna Windsor oppure su Marte con tutte spaziali se questo avesse inficiato il magistrale ritmo battagliero di Verdi e del suo teatro.